La vita è fatta di crocevia e questa rubrica non sarà da meno, oggi ci troviamo a questo grande incrocio per un nuovo venerdì con il nuovo capitolo di… Coen, storia vera!
Al loro terzo film di registi, Joel e Ethan Coen si sentivano pronto in canna un film di gangster, il loro desiderio era di sfornare una storia piena di uomini con Fedora e Mitra Thompson (storia vera), anche se poi a ben guardare, il nord magnetico anche di questa storia è sempre lo stesso per i due fratelli del Minnesota, ovvero il genere Noir, infatti dopo Blood Simple il “regista a due teste” pesca ancora una volta, molto liberamente dai romanzi di Dashiell Hammett, in particolare dal solito “Piombo e sangue” (il pistolero che mette zizzania tra le parti in lotta, un archetipo narrativo) e da “La chiave di vetro”.
Eppure se Bruce Lee, per amore di semplificazione, predicava l’assenza di stile come stile, i Coen hanno fatto del cambiare genere la loro cifra stilistica, dopo un noir e una commedia quasi in stile cartone animato, il regista a due testa punta a rifare in modo colto e puntale il “Gangster Movie”, impanato nel Noir e come al solito decostruito alla moda dei Coen, etichettati come post moderni anche lì, forse per amore di semplificazione.
“Miller’s Crossing”, da noi resto “Crocevia della morte” in maniera un po’ più grossolana ma efficace, inizia con un monologo sui massimi sistemi recitato in favore di macchina da presa (come Il Padrino) e termina con la dolorosa scelta di abbracciare il proprio ruolo perdendo nel caso, anche tutto (come Il Padrino – Parte II o in generale, molti Noir). Il film ruota intorno ad un personaggio che è tutto tranne che un eroe, ed è una sorta di parabola morale alla moda di “Scarface”, entrambe le versioni, visto che a ben guardare come Tony Montana, anche qui troviamo un boss della criminalità a lottare come un leone armato di mitra, ma su questa scena, lasciatemi l’icona aperta, ci torneremo più avanti.
Potremmo dire che la trama è un “camuffo” (cit.) utilizzato dai Coen per decostruire generi alla luce (o al buio) del Noir, un arzigogolo ben fatto di azioni e reazioni e dinamiche tra personaggi ben gestite e ben raccontate, che ruotano tutte intorno ai soldi che erano già il filo rosso dietro ad Arizona Junior e Blood Simple ma che troveremo ancora nel corso della rubrica.
Il risultato? 115 minuti che filano alla grande e che hanno creato più di un grattacapo ai fratellini del Minnesota, colti a metà del classico blocco dello scrittore, hanno pensato bene di esorcizzarlo come? Ovviamente scrivendo, nello specifico il film di cui parleremo venerdì prossimo, ma ancora oggi rivedendo “Miller’s Crossing”, il suo intreccio non sembra il frutto di una mente (anzi due) in crisi creativa, ed ora, grandissimi cavolacci miei a provare a riassumere la trama!
Negli Stati Uniti degli anni venti, la cosca criminale del Boss di origini irlandesi Leo O’Bannon (Albert Finney) ha il controllo della città, ma alla loro porta si affaccia quella italiana gestita da Johnny Caspar (Jon Polito al primo di tanti ruoli per i Coen), il pomo della discordia? Il piccolo allibratore ebreo Bernie Bernbaum (John Turturro, stesso discorso di Polito), Caspar vorrebbe la sua testa perché fa la cresta sugli incontri truccati di Boxe, nel mezzo il braccio destro di Leo, Tom Reagan (Gabriel Byrne in gran spolvero) che cerca di mediare soprattutto perché è perdutamente innamorato di Verna (Marcia Gay Harden), fidanzata di Leo e sorella di Bernie. Incastrato tra cuore e senso del dovere, Tom dovrà barcamenarsi in questa storia in cui, chi tradisce la fiducia viene portato a Miller’s Crossing, il crocevia della morte del titolo italiano, luogo prediletto per far fuori i traditori. Insomma, vedi Miller’s Crossing e poi muori, altro che Napoli.
I Coen si infilano nel solco della tradizione del cinema gangster pescando anche da Scorsese, l’idea dello scontro tra fazioni di diverse nazionalità è farina del sacco del regista di New York, autore ai tempi di uno dei suoi lapidari giudizi, non popolare quanto il “Non è cinema” appicciato all’MCU: «Che cosa sono tutti questi alberi? Le storie di Gangster sono ambientate nel Bronx o nel Queens, tra i palazzi e il cemento». L’oggetto della stroncatura scorsesiana? Tenetevi forte, la serie tv dei Soprano, colpevole di andare in scena tra i villini della periferia della Grande Mela, il New Jersey (storia vera).
Tenendo fede alla massima, molto yankee e poco gattofila per cui, c’è più di un modo di fare la pelle ad un gatto (e i Coen lo sanno, a livello di ammazzamenti al cinema non sono secondi a nessuno, qui uccidono malamente anche il loro amico Sam Raimi in un cameo), alla faccia di cosa pensa Scorsese, il regista a due teste firma un bellissimo film di Gangster in cui le scene più iconiche, si svolgono in mezzo al fogliame di Miller’s Crossing, e non voglio nemmeno tediarvi con il discorso… Il luogo dove le foglie vanno a cadere, perché i Coen lo comunicano per immagini senza ricamarci sopra, quindi non lo farò nemmeno io.
Per assecondare poi il loro desiderio di un film pieno di personaggi con il Fedora, proprio il cappello gioca un iconico ruolo chiave, “Crocevia della morte” si apre con un cappello svolazzante, capo di vestiario di cui Tom Reagan è molto geloso, infatti il personaggio si chiede sempre dove si trova il suo, si cura di averlo sempre in ordine e sua è la frase che evoca i vecchi film comici: «Nulla è più ridicolo di un uomo che insegue il suo cappello». Diventa evidente che il cappello sia simbolico, alcune interpretazioni lo considerano l’anima del personaggio, a me piace vederlo come il primo di molti oggetti volanti non ben identificati che segneranno spesso la vita dei personaggi Coeniani, che siano proprio gli UFO di un certo barbiere, passando per Hula Hoop e quant’altro, ma sto galoppando in futuri lidi di questa rubrica, restiamo sul film di oggi.
“Miller’s Crossing” funziona benissimo come Noir e come ottimo intreccio, si capisce dal modo in cui tutti i personaggi, anche quelli minori ci intrecciano per bene uno con l’altro anche quando sembrano solo colorite apparizioni, ad esempio Mink Larouie pare solo uno che parla a mitraglietta, infatti proprio per questo è stato scelto Steve Buscemi, l’unico in grado di snocciolare tutte quelle parole, storia vera per un’altra clamorosa faccia che fa il suo esordio in questo film e diventerà ospite fissa di questa rubrica.
Visto che so che ci tenete, perché sarà un punto fermo fino a fine rubrica, la partita a “Dov’è Wally Frances?” ha come soluzione del mistero, la segretaria del sindaco, quindi aguzzate la vista perché la signora Coen è presente anche qui.
I film sono frutto della loro fama ma soprattutto, di quanto hanno incassato, “Miller’s Crossing” ha generato un mezzo blocco dello scrittore ai Coen e al botteghino non ha certo fatto scintille, eppure lo trovo un film molto, troppo sottovalutato, il classico titolo che più lo rivedi e più regala gioie. Non solo lo trovo fotografato alla grande dal solito Barry Sonnenfeld, recitato in maniera splendida da tutto il cast che risulta più nutrito oggi che nel 1990 (per assurdo al momento, sono tutti più famosi di Gabriel Byrne) ma è un film che ha tutti gli elementi giusti.
Un Noir con tutte le sue cosine al suo posto, a partire dalla Femme fatale impersonata da Marcia Gay Harden che è la regina senza corona, il motore oscuro di tutto la vicenda (oltre ai soldi), John Turturro riesce ad generare empatia e voglia di sparargli in faccia in parti uguali, il che vuol dire che per il ruolo è più che impeccabile. Il cast funziona così bene che anche un generico personaggio da braccio destro del boss, il tipo grosso che guarda storto il protagonista, ovvero Eddie Dane (J.E. Freeman) non solo è ben caratterizzato ma si rivelerà fondamentale per la risoluzione dell’intreccio.
Perché anche in “Crocevia della morte” il caso, gli intrecci fuori controllo della vita e del destino, spesso carichi di nerissimo umorismo (come i Coen) sono un fattore che determina la vita (o la morte) di tutti, anche di Tom Reagan e di molti altri protagonisti del cinema dei Coen che lo avrebbero seguito, quello che mi dispiace è che questo bellissimo film di Gangster, che funziona proprio perché in molti passaggi è legato a filo doppio al canone e in altri, lo smonta con intelligenza, non sia ancora stato pienamente rivalutato, nemmeno dopo essere stato benedetto dal “grande rivalutatore”, lui si regista per davvero post moderno, più dei Coen che invece se la giocano diversamente, mi riferisco a Quentin Tarantino.
Non rifaccio il discorso sul regista di Knoxville o meglio, sui suoi fan adoranti che ripetono a pappagallo ma poi di film, non sembra che ne vedano poi così tanti. I Coen qui trovano il modo di trasformare Albert Finney in un cazzutissimo uomo d’azione, uno che come detto, facendo il verso a Tony Montana, fa salutare a tutti il suo “amichetto”, inventandosi uno dei loro pirotecnici modi di uccidere (male) le persone. La scena in cui Leo da solo, si libera di un esercito di sgherri mandati da Caspar, sparandogli ad altezza caviglie nascosto sotto il letto, è stata replicata identica da Tarantino nella porzione animata di Kill Bill – Vol. 1, eppure niente, nemmeno questo è servito a far venire voglia al mondo di rivedersi un film bellissimo come “Miller’s Crossing”.
Sarà stata un’impresa per i fratellini del Minnesota uscire artisticamente vivi dal crocevia dove si erano infilati, ma il risultato resta notevole, da riscoprire, anche per il semplice fatto di aver generato un gemellino, diverso ma altrettanto brillante, il classico soggetto quasi metanarrativo che scrivi per sbloccarti, ma di quello, parleremo la prossima settimana, ci rivedremo qui venerdì prossimo… E non dimenticate il cappello.
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