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Cry Macho (2021): il Messico, due compari e un pollo (da combattimento)

Non è mai un film come gli altri il nuovo di Clint Eastwood, perché noi spettatori sentiamo il tempo sulle sue spalle più di quanto non sembri avvertirlo lo stesso Clint, che continua a lavorare senza sosta.

Non può essere il “solito Eastwood” perché sarebbe da ingrati dare per scontato il vecchio Clint, ma non lo è nemmeno quando il nostro mette su la sua seconda espressione, quella con il cappello sulla testa, perché vedere Eastwood sotto con cappello a tesa larga evoca grandi ricordi, inutile girarci attorno.

Infatti per certi versi “Cry Macho” arriva dal passato di Clint, il romanzo di N. Richard Nash è del 1975 ed è da allora che il cowboy protagonista, Michael “Mike” Milo è in cerca di un volto cinematografico che per un po’ pareva dovesse essere quello di Roy Scheider, poi Burt Lancaster, seguito da Pierce Brosnan e addirittura Arnold Schwarzenegger, ma non esistevano cavalli in grado di sostenere il suo peso aggiungo io. Non fu scelto già allora il volto di Eastwood solo perché ai tempi Clint aveva quarantacinque anni e non si sentiva abbastanza maturo per questa trama (storia vera), anzi era ancora così baldanzoso da scalare l’Eiger.

Se non si fosse capito, questa è la sua seconda espressione.

Oggi invece, quarantasei anni dopo l’uscita del romanzo, Clint ha fatto abbastanza chilometri (occhiolino-occhiolino) da sentirsi finalmente pronto per interpretare il vecchio Cowboy da rodeo Mike Milo, anzi forse ha aspettato anche un po’ troppo, ma cosa gli vuoi dire ad uno che a novant’anni (anzi, novantuno) entra in scena e buca ancora lo schermo? Niente, infatti la sceneggiatura è stata affidata al solito Nick Schenk di fiducia per un film girato come sempre con lo stile essenziale di Eastwood, uno stile anche più rilassato del solito, questo va detto.

Mike Milo è burbero, incazzato con il mondo e reduce da una caduta da cavallo che ha messo fine alla sua carriera da cowboy da rodeo, il suo capo Howard Polk (Dwight Yoakam) lo licenzia malamente ma un anno dopo torna da lui con il cappello in mano, per chiedergli di aiutarlo a portare negli Stati Uniti suo figlio Rafael “Rafo” Polk (l’esordiente Eduardo Minett, che fa davvero bene il suo dovere). Il ragazzo sta in Messico con la madre che in quanto dona di malaffare, Eastwood fa recitare con un vestito rosso che consiste in tutta la caratterizzazione del personaggio, vedete di farvelo bastare.

Quel sorriso, quel maledetto sorriso (cit.)

Howard per problemi non specificati ma intuibili, non può andare a riprendersi il figlio da solo, ma sa che il fascino da vecchio Cowboy di Mike potrebbe convincere Rafo a passare il confine, infatti tutto procede come da programma, malgrado il piccolo intoppo rappresentato dalla passione del ragazzo per i combattimenti tra galli, infatti el chico non muove un passo senza il suo gallo da combattimento, ribattezzato “Macho” (la parola più ripetuta di tutto il film), di fatto un metaforone con le piume.

Mi ero fatto una mia idea su “Cry Macho”, pensavo potesse essere un film con qualche legame con “Cockfighter” (1974) diretto da Monte Hellman, anche se sarebbe carino capire se N. Richard Nash avesse visto il film prima di scrivere il suo romanzo, sta di fatto che l’unico punto di contatto tra le due storie sono i combattimenti tra galli, che qui si vedono pochissimo, perché Macho, il gallo di Rafo è il metaforone di una certa mascolinità, che se non fossi nato retrò (per non dire vecchio) dovrei definire “tossica”, che è un po’ il tema portante di un film che la tocca pianissimo, infatti la battuta più riuscita la spara Clint, quando sardonico commenta al ragazzo il nome del suo animale dicendogli: «Se uno vuole chiamare il suo uccello Macho, va bene per me».

«Sono sicuro che qualcuno abbia scelto nomi ben più bizzarri»

Clint Eastwood inizia il suo film inquadrando la routine dei cowboy da rodeo con un angolo d’inquadratura sbilenco, come a voler far notare il tempo passato o forse a prendersi gioco del mito di tutta quella mascolinità, poi però la storia e il film si attestano su un comodo pilota automatico fatto di amicizia e rapporti padre e figlio nati in viaggio, in cui i momenti d’azione ci sono, ma per ovvie ragioni bisogna trovare un modo per non rendere tutto grottesco, quindi la prima rissa, quella che un tempo Clint avrebbe risolto lui stesso a pugni, qui viene disinnescata a colpi di astuzia.

Dimenticati lunghe scene di rodeo come se fossimo in L’ultimo Buscadero di Sam Peckinpah, qui si risolve con un decente lavoro della controfigura e via anche nell’ultima scena, il colpo di coda dall’azione prima del finale, di un film procede calmo e rilassato per 104 minuti, si gioca proprio l’intervento di Macho, che di colpo si trasforma in Poyo il gallo da combattimento di Chew, togliendo Clint dall’impiccio.

“Cry Macho” funziona nella misura in cui come spettatori siete disposti ad accettare un film con momenti tenerissimi, anche tra Clint e Marta (Natalia Traven), signora che fa apprezzare a Mike la vita da questa parte del confine, per una storia di buoni sentimenti che procede con l’andamento di uno dei pezzi country della sua colonna sonora. Siamo dalle parti della migliore produzione Eastwoodiana? Non credo proprio, Se il cappello vi ha fatto pensare agli Spaghetti Western, male perché qui siamo più in zona “Bronco Billy” (1980), ma con molta meno satira.

«Ho tenuto a bada anche Charlie Sheen, a te ti mastico e ti sputo ragazzino»

Già perché parliamoci chiaro, il personaggio di Mike Milo non ha alcuna caratterizzazione se non quella di essere interpretato da Clint Eastwood e proprio per questo, si porta dietro tutto il bagaglio di personaggi dell’attore, il che lo rende perfetto anche vista la sua età, ad impersonare uno che di tutte quelle pose da “Macho” non ha mai avuto bisogno prima (al massimo erano gli altri ad atteggiarsi alla Clint Eastwood) e di sicuro non ne ha bisogno ora che è troppo vecchio per queste stronzate (cit.)

La lezione è che il “machismo” è ben diverso dalla grinta, solo che per raccontarlo Eastwood in “Cry Macho” sceglie una comoda favola, un romanzo di formazione ultra classico, anche troppo forse, in cui gli apici emotivi latitano e la tenerezza nei rapporti tra il burbero cowboy e i buoni messicani tiene banco, anche se fa un po’ troppo libro “Cuore” a volte. Sono voltati paragoni enormi per “Cry Macho”, ho visto snocciolare tutti i titoli della filmografia di Eastwood (qualcuno ha tirato in ballo “Gli spietati” fate i bravi dai), per dare risalto al fatto che il vecchio Clint è di nuovo sotto il cappello a tesa larga a sfoggiare la sua seconda espressione, ma la verità è che il suo “Cry Macho” Eastwood lo aveva già girato nel 1978, quando ancora poteva tirare pugni, viaggiare guidando con una lattina di birra in pugno e dove al posto del ragazzino e del pollo, aveva Clyde l’orango.

«Almeno Clyde sapeva fare il dito medio, tu non hai nemmeno quello opponibile»

Perché di fatto “Cry Macho” è un Filo da torcere della terza età, in cui ormai sei troppo vecchio per fare il pirla con il vecchio Clyde e se le pose da macho non te le sparavi a trent’anni (perché ribadisco, erano gli altri ad atteggiarsi a Clint Eastwood) figurati se puoi iniziare a novant’anni, anzi novantuno. A suo modo una lezione su come camminare con la schiena dritta e la testa alta, da parte di uno che per tanti di noi maschietti e sempre stato un modello di vita e cinema, che qui ci ricorda che la vita e il cinema a volte, sono due cose differenti.

Lo fa non con il suo film migliore, non scherziamo nemmeno, però Clint è ancora in sella e beccami gallina se posso tirarmi indietro davanti al suo nuovo, anzi, beccami gallo da combattimento in questo caso specifico.

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