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Da 5 Bloods (2020): le vite dei (soldati) neri contano

Spike Lee ha deciso di mettermi in difficoltà, si perché
come titolo a questo post ci sarebbe stato benissimo: “Il tesoro della Sierra
Motherfucka!”, che però avevo già utilizzato per un film di Walter Hill. Quindi ho optato per un
titolo che sembra una paraculata lo so, anche se è quello che Lee racconta con
il suo film, d’altra parte, non ha mai smesso di farlo dall’inizio della sua
filmografia.

“Da 5 Bloods” (con l’aggiunta del solito sottotitoli
Italico inutile, “Come fratelli”) avrebbe dovuto essere presentato a Cannes, il
titolo con cui il celebre festival francese avrebbe firmato la fine delle
ostilità con Netflix, che il film lo ha prodotto e distribuito qualche giorno
fa sulla sua piattaforma di streaming. Ennesima conferma che se i tipi della “Grande
N” usassero i loro capitali (apparentemente infiniti) per attirare tutti gli autori
e i registi là fuori, che sono rimasti a spasso, il catalogo di Netflix
svolterebbe.
Con il titolo originale di “The Last Tour”, questo film
avrebbe dovuto essere la nuova fatica di Oliver Stone, ovviamente ambientata in
Vietnam come da tradizione del regista, ma dopo un cambio di mano la
sceneggiatura è arrivata a Spike Lee che con l’aiuto di Kevin Willmott,
co-sceneggiatore del suo BlacKkKlansman,
ha riscritto tutto dal punto di vista dei soldati di colore. Questo spiega come
mai la storia sia un grosso rimasticone che in più di un passaggio, non sembra ben
chiaro dove voglia andare a parare, per assurdo il film funziona meglio quando
affronta un argomento alla volta restando concentrato, quindi a mia volta,
andrò per gradi per analizzarlo.

Spike Lee e i suoi “Da players” (come da sempre chiama il suo cast nei titoli di coda dei suoi film)

La storia è quello di un gruppetto di veterani del
Vietnam, che decide di tornare laggiù per chiudere i conti con il passato. La
loro nuova missione (organizzata e auto finanziata) ha due scopi: recuperare le
spoglie del loro compagno caduto, il carismatico “Stormy” Morgan (nella
versione doppiata “Tornado” Morgan, interpretato da Chadwick Boseman), ma
soprattutto riportare a casa una cassa piena di oro Vietnamita, perfetta per
garantirsi una serena pensione.

Si, lo so a cosa state pensando, Oliver Stone prima, e
Spike Lee poi, qui si sono messi in testa di rifare alla loro maniera il
capolavoro di John Huston “Il tesoro della Sierra Madre” (1948), con la sfiga
che nel frattempo proprio Netflix, aveva già sfornato Triple Frontier che aveva la stessa fonte d’ispirazione.

Poco male, Spike Lee lo conosciamo, è il grillo parlante
d’America (in cui la parola chiave è “parlante”, visto che è impossibile farlo
star zitto, infatti si mette nei casini da solo con quella sua linguaccia) che
dall’inizio della sua carriera porta avanti la sua protesta militante nei
confronti del suo Paese, sempre pronto a sfruttare i “fratelli”, che siano
quando devono giocare a pallacanestro,
figuriamoci nelle forze armate.
Per la sua banda di “5 Bloods” Lee arruola un sacco di
suoi veterani, Norm Lewis interpreta Eddie con i suoi strambi piedi storti, il
mitico Clarke Peters (arrivato dritto da “The Wire”) è il grande vecchio Otis,
non può mancare Isiah Whitlock Jr. (con la sua frase simbolo: «Shiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiit!»)
nei panni di Melvin, anche se quello con più spazio di tutti è Delroy Lindo, al
quarto film con Spike Lee se non ho sbagliato i conti.

“Non mi avevano detto che in Vietnam ci saremmo dovuti tornare a piedi, mi sento un hobbit!”

Il suo Paul è forse quello con più spazio e con la storia
personale più travagliata, in questa missione si ritrova insieme al figlio
David (Jonathan Majors)e se non
bastassero i suoi infiniti monologhi (anche guardando dritto in camera) a
renderlo piuttosto facile da notare, non potrete certo mancarlo, è quello che
va in giro con il famigerato berretto rosso “Make America great again”,
rendendo il personaggio una critica semovente all’attuale presidenza. Ma a ben
guardare anche un modo urlato di far arrivare i messaggi al pubblico, anche perché
da Spike Lee ho smesso di aspettarmi la critica affilata e pungente, quella
quando arriva, di solito coincide con i suoi capolavori, in questo caso invece
Lee, come Radio Raheem alza il volume per fare più casino possibile.

I protagonisti del film, tutti assegnati agli attori
giusti, sono la vera forza di “Da 5 Bloods”, con il loro chiacchierare, diventano
subito familiari al pubblico ed è abbastanza impossibile non appassionarsi alla
loro missione, Spike Lee poi fa una scelta narrativa opposta a quella
dell’altro regista Newyorkese, Martin Scorsese, che con i soldoni di Netflix ha
pensato che fosse giusto far ringiovanire il suo cast di attori per The Irishman. Spike Lee invece nelle
scene flashback ambientate durante il conflitto degli anni ’70, modifica il
formato introducendo le bande nere laterali del 4:3, ma non fa nulla per
ringiovanire il suo cast, risultato finale? Affianco ai quattro protagonisti
(con rughe), recita Chadwick Boseman nei panni di Norman. Può sembrare una
scelta strana, ma rende molto bene l’idea dell’amico rimasto “Forever young”, per
citare Bob Dylan.

Per certi versi l’anti-The Irishman.

Lee poi azzecca l’utilizzo centellinato di Chadwick
Boseman, attore carisma-leso qui chiamato nella parte del commilitone in grado
di scaldare le coscienze dei suoi compagni, quello con il passo del grande
leader nero. Bisogna dire che Boseman è più azzeccato qui, nei pochi minuti in
cui compare nei panni della pantera nera, che in un intero film nel ruolo di
beh… Pantera Nera.

Guarda che il pugno dovresti sollevarlo in aria, altrimenti fai il saluto ufficiale della Bara Volante.

I 154 minuti di “Da 5 Bloods” non sono tutti
perfettamente equilibrati, alcuni passaggi sono piuttosto ridondanti, in
particolare quelli legati allo stress post traumatico di Paul, mentre altri
sembrano girare abbastanza a vuoto, come l’introduzione di Mélanie Thierry, la
volontaria a caccia di mine anti-uomo da disarmare e i suoi non proprio
adorabili compari, tra cui spunta il Paul Walter Hauser visto nell’ultimo Eastwood.

Sarà sicuramente un mio problema, ma quando sento di
Spike Lee alle prese con dei soldati afro-americani, io penso a quell’incidente
in galleria che era “Miracolo a Sant’Anna” (2008) e mi preoccupo. Ancora una
volta Lee pensa bene di recuperare l’idea del “DJ radiofonico” che manda
messaggi politici ai soldati neri, per convincerli che il vero nemico è
l’oppressore bianco. La DJ qui, complice forse lo sfondo rosso, sembra una
versione malriuscita della speaker che minacciava a distanza i Guerrieri di Walter Hill (che continua
ad aleggiare su questo post). Dubito fortemente che nel Vietnam degli anni ’70,
una Vietnamita disponesse di tutte quelle informazioni sulle ingiustizie subite
dagli afro-americani in patria, ma è il modo un po’ esagerato con cui Spike Lee
ama far arrivare le sue critiche.

“Buongiorno a voi super muscoli. La caccia ai Guerrieri è aperta” (quasi-cit.)

In “Da 5 Bloods” ci sono momenti in cui capisci perché
Spike Lee è così controverso, nel suo essere democratico, risulta un estremista
della democrazia, infatti è così concentrato sui suoi personaggi e nel
raccontare le ingiustizie subite dagli afro-americani, anche (e soprattutto)
tra i ranghi dell’esercito del Paese per cui hanno servito e sono morti, da
dimenticarsi il punto di vista dei Vietnamiti, che tutti questi soldati se lo
sono visti recapitati dritti a casa. Quando Paul dichiara «[Io e i miei
fratelli] abbiamo combattuto una guerra immorale per diritti che non erano
nostri», uno dei Vietnamiti (inascoltato) gli fa notare che quelli che ha
ucciso, erano i SUOI fratelli.

Quello che funziona del film, sono sicuramente i tocchi
satirici, la critica aperta e il modo in cui Lee riesce a gestire l’iconografia
cinematografica del Vietnam. Il regista di New York strizza l’occhio a John
Huston e a Francis Ford Coppola (ci sono riferimento ad “Apocalypse Now” usati
in maniera volutamente leggera e ironica), ma in generale gioca parecchio con
il cinema, ad esempio nel finale, vedere Jean Reno con una granata in mano, non
può che far accendere più di un campanello in testa al cinefilo.

“Andavamo sempre in giro, a cercare un certo Charlie” (cit.)

Inoltre è inevitabile nel vedere un soldato nero, dare di
matto mentre vaga solo nella giungla, non pensare a Predator, omaggiato anche in parte nei titoli di coda, quelli che
piacciono tanto a me, con attore e nome del personaggio presentati in una lunga
carrellata.

Quello che ho trovato poco riuscito sono i momenti
d’azione, non che manchino le sparatorie (anzi!) ma la messa in scena generale
sembra ben poco attenta nel renderle sullo stesso piano del resto del film, quando
invece dovrebbero esserlo, visto che proprio durante i momenti d’azione
accadono le svolte più importanti. Anche se devo dire che il secondo atto del
film è quello che ho apprezzato di più, Spike Lee riesce a mettere molta enfasi
nei momenti chiave della missione dei veterani, in una scena in particolare
poi, si tifa spudoratamente per i personaggi, alle prese prima con la “Ecstasy
of gold” (passatemi la citazione) e poi alcune mine anti-uomo.

I fratelli nella notte di Spike Lee.

Quello che ho gradito un po’ meno è stato il proliferare
dei finali, ognuno necessario a raccontarci il destino dei personaggi ma non
tutti satirici come ci si aspetterebbe da un film incazzato come questo.
Insomma guardando “Da 5 Bloods” la rabbia di Spike Lee arriva tutta, ma è
talmente urlata in così tante direzioni da non essere a volte abbastanza a
fuoco, come invece accade nel secondo atto che infatti fila via, bello
concentrato sui personaggi e su quello che hanno da raccontare.

Innegabile però che “Da 5 Bloods” sembri un film girato
sabato scorso, montato domenica mattina e uscito in sala su Netflix con
un tempismo impeccabile. Proprio ora che gli Stati Uniti sono in rivolta dopo
l’omicidio di George Floyd, Spike Lee come un Han Solo nero torna indietro ad
aiutare i suoi compagni. Sono sicuro che tanti che a differenza mia, vengono
pagati per scrivere di cinema, con un film così, uscito proprio in questi
giorni, avranno modo di sbrodolare e spaziare in lungo in largo, magari
chiudendo anche più di un occhio su alcuni difetti della pellicola.

Ecco bravi, spiegati a Chadwick Boseman come si fa, Pantera Nera quello? Tzè!

Da parte mia, dopo una vita passata a vedere film di
Spike Lee, preferisco essere diretto: “Da 5 Bloods” è un film che ha molto di
buono ed è parecchio incazzato, perché il suo regista è parecchio incazzato,
ormai da tanti anni. La situazione negli Stati Uniti (vero barometro del mondo
occidentale) non è mai cambiata, dal Vietnam fino a George Floyd, le vite dei (soldati)
neri contano e Lee lo ribadisce con la forza con cui lo ha sempre fatto.

Non stiamo parlando di un essere umano che brilla proprio
per coerenza (gli esempi sarebbero tanti, prendiamo solo l’ultimo, le
affermazioni di Lee, prima a favore e poi contro Woody Allen), quindi i miei colleghi stipendiati per scrivere di cinema
dovrebbero far notare, che non è Spike Lee ad essere cambiato, la sua
filmografia è da sempre un monito ad un Paese che non si è mai curato di una
certa parte di popolazione, se qualcosa cambierà in meglio negli Stati Uniti (e
si spera quindi anche da noi), lo scopriremo con il tempo, ma state sicuri che
Spike Lee sarà ancora lì a lamentarsi, come fa con i giocatori della NBA che
hanno la sfortuna di giocare contro i suoi New York Knicks al Madison Square
Garden, che ad ogni partita se lo ritrovano nelle orecchie (e a volte
direttamente con i piedi in campo): Radio Spike Lee trasmette 24 ore su 24,
come eterna memoria di chi vorrebbe dimenticare.
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