Lo sapete, non sono mai stato un accanito videogiocatore,
ad esclusione di NBA Live e beh, delle avventure grafiche della LucasArts,
quando ancora si chiamava Lucasfilm Games. Però non posso proprio perdere l’occasione
per festeggiare i primi trent’anni di un classico, a mani basse il mio
videogioco preferito di sempre: The Secret of Monkey Island.
prima luna” di Gore Verbinski, la Disney si prodigò a sottolineare che il film
era ispirato alla celebre attrazione piratesca presente da decenni nei loro
parchi a tema. Strano, perché ad una prima occhiata a me era sembrata la storia
di un giovane in cerca di avventure, che insieme a pirati piuttosto ironici,
salpava per andare a salvare la figlia del governatore, da un pirata fantasma.
Saranno le due trame che sono identiche, oppure io ho passato troppe ore della
mia vita sull’isola di Mêlée e vedo Guybrush Threepwood ovunque? Mi affido solo
ai dati certi, quelli che posso confermare e quindi diciamo che è colpa di
tutte quelle ore, molte delle quali necessarie per far caricare i cinque floppy
disk, necessari a giocare a “The Secret of Monkey Island” sul mio vecchio Amiga.
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Se guardando questa immagine state pensando “Nel profondo dei Caraibi, l’isola di Mêlée…”, sappiate che vi voglio un po’ bene. |
alla celebre giostra di Disneyworld è stato Ron Gilbert, il creatore della
serie, anche se “The Secret of Monkey Island” si è nutrito di spunti pescati
dal romanzo “Mari stregati” (1987) di Tim Powers, ma anche da tanti vecchi film
pirateschi in bianco e nero. Ma Ron Gilbert ha fatto molto più di questo, il
suo nome è leggenda tra gli appassionati di avventure grafiche.
un altro classico come “Maniac Mansion” (1985), un gioco rivoluzionario che
fece fare un salto in avanti alle vecchie avventure testuali, quelle composte
quasi interamente da testo da leggere e imparare a memoria, perché l’unico modo per interagire con un computer,
era digitando come matti sulla tastiera. La prima novità portata da Gilbert è
stata quella di introdurre una lista di verbi e azioni, che cliccati con il
mouse potevano fare compiere alcuni gesti e movimenti ai personaggi sullo
schermo, ma questo è stato solo l’inizio.
Quello che Ron Gilbert non sopportava delle vecchie
avventure grafiche era la possibilità di “morire” nel corso della storia,
costringendo il giocatore a ricominciare tutto da capo. Forte del successo di “Maniac
Mansion” Gilbert poté finalmente dedicarsi al suo capolavoro, sfruttando il
motore SCUMM come base del successo del gioco, veniva citato in almeno una gag
ricorrente anche in “The Secret of Monkey Island”.
passione per il cinema e i primi videogiochi, da ragazzo passava il tempo con i
regali ricevuti dai genitori, una macchina da presa Super8 e un Atari 2600 a
ben guardare, entrambi fondamentali per la riuscita di “Monkey Island” che di
fatto è un videogioco, ma ha tutte le caratteristiche proprio di un film, per
altro uno di quelli veramente belli e al suo intero, con tutti quei dialoghi da
leggere sullo schermo, portava avanti la tradizione di un’altra mia passione
infantile, quella dei Librogame. Infatti “The Secret of Monkey Island” si
ricorda per l’ambientazione, per l’incredibile atmosfera, ma soprattutto per i
suoi dialoghi brillanti e ammettiamolo, davvero spassosi.
avventure testuali dove il protagonista poteva morire e di fatto in tutta “The
Secret of Monkey Island”, solo in un passaggio Guybrush Threepwood corre davvero
questo rischio, se non siete abbastanza svelti a risolvere il brillante enigma
sottomarino del totem, anche se il suo prodigioso talento di poter trattenere
il fiato per ben dieci minuti, resta un tempo più che sufficiente per capire la
spassosa soluzione. Il massimo che poteva accadere giocando a “Monkey Island”
era di restare bloccati su qualche enigma, ma comunque liberi di gironzolare
prima per l’isola di Mêlée e poi per quella delle scimmie del titolo, anche
questo era parte dell’enorme fascino di questo gioco. Si perché “The Secret of
Monkey Island” permetteva a qualunque giocatore di assecondare una fantasia
infantile molto comune, quella di voler essere un pirata!
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L’importanza di chiamarsi |
pirata!», così facciamo la conoscenza del protagonista, un ragazzo
normalissimo con la sua camicia bianca (e la battuta sulle giacche di pelle da
vendere) che con i suoi modi educati sembra tutto, tranne che un temibile
pirata. Per diventarlo dovrà superare le tre prove assegnategli dai “pirati
dall’aspetto importante”: sconfiggere in duello il maestro di spada
dell’isola, rubare l’idolo dalle molte mani dalla villa della governatrice
Elaine Marley e trovare un tesoro nascosto. A ben guardare tre prove che da
giocatori, eravamo liberi di superare nell’ordine che ci veniva più comodo,
girovagando in lungo e in largo sull’isola facendo la conoscenza di una serie
di individui loschi ma caratteristici. Come Otis con la sua tremenda alitosi
oppure Stan, il venditore di navi usate, dalla giacca dai colori impossibili e
le mani sempre intente a gesticolare.
resta uno dei ricordi più felici della mia infanzia, mi basta sentire il bit
del tema musicale che usciva dal mio
Amiga, per sentirmi come tornare a casa. Il gioco di Ron Gilbert ricreava alla
perfezione le atmosfere dei mari dei Caraibi e poi era automatico continuare a
giocare ai pirati, con il mio galeone della Lego, mi ero anche costruttivo un personaggio
prediletto, che ovviamente era un giovane pirata (storia vera). Mica solo Gore
Verbinski non si è mai ripreso da questo videogames eh!?
innamorarsi della bella governatrice dell’Isola Elaine, e dovrà correre a salvarla
dalle grinfie del temibile pirata fantasma LeChuck, anche lui innamorato della
donna e fermamente convinto a sposarla. In aiuto di Guybrush solo i poteri di
Lady Voodoo e la nostra capacità di risolvere i vari enigmi a partire da quello
del nome del protagonista, che merita un paragrafo a parte.
come “The Secret of Monkey Island”, con la tecnologia disponibile a fine anni ’80,
non saranno state sicuramente poche, Ron Gilbert e soci le riempivano quasi
tutte con costanti scambi di battute, molte delle quali finite poi ad
arricchire gli incredibili dialoghi del gioco. Lo stesso nome del protagonista
è stato frutto di questo ambiente di lavoro particolarmente frizzante e giocoso
(per non dire goliardico). Gli animatori della Lucasfilm Games utilizzavano Deluxe
Paint, per creare la grafica del gioco un pixel alla volta, questo programma
salvava i file in formato .brush e in assenza di un nome ufficiale, per il file del
protagonista, Steve Purcell, uno degli sceneggiatori della storia, suggerì di
chiamare il personaggio principale con il nome del file con cui era stato
salvato, ovvero Guy.brush in cui “Guy” stava per ragazzo (storia vera). Non ho
mai trovato informazioni sull’origine del cognome Threepwood, ma immagino che
con un nome così ci volesse un cognome all’altezza!
è perfetto per calarci nello spirito di un gioco come “The Secret of Monkey
Island”, dove l’ironia la fa da padrone. Tutto il videogioco sembra un’enorme
parodia di un vecchio film di pirati, come tutte le parodie deve conoscere e
trattare con enorme rispetto il materiale originale, per trovare un modo
davvero efficace di scherzarci sopra in modo spiritoso. “Monkey Island” ci
riesce benissimo e con la sua combinazione di ironia, pirati e ovviamente…
SIMMIE! Non poteva non conquistarsi un posto d’onore tra i miei giochi del
cuore.
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Più che una ciurma di pirati sembrano villeggianti in crociera. |
Se Roger Rabbit sosteneva che a volte l’umorismo è la
sola arma che ti resta, “The Secret of Monkey Island” abbracciava questa
massima totalmente, in molti casi l’unico modo per risolvere gli enigmi del gioco, era
optare per la soluzione più ironica possibile, dimostrando di aver capito il
tipo di umorismo a tratti surreale presente nel DNA della storia. Ecco perché
per sbloccare l’accesso all’enorme testa di scimmia, l’unico modo era
utilizzare un cotton fioc delle stesse dimensioni, oppure perché anche un
oggetto assurdo come un pollo di gomma con dentro una carrucola, poteva
salvarti la vita se utilizzato al momento giusto.
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Per una testa di scimmia grande, ci vuole un cotton fioc grande! |
anzi sicuramente lo era, ma la possibilità offerta dal motore SCUMM di far comparire
righe di testo sopra la testa dei personaggi, era proprio il tipo di
innovazione che Ron Gilbert e soci hanno saputo utilizzare in maniera creativa.
Davanti ai videogiochi moderni ultra avanzati, l’idea di dover leggere nella
propria testa i dialoghi è qualcosa di ormai totalmente fuori moda, ma il tipo
di umorismo che ha reso “The Secret of Monkey Island” un capolavoro ancora così
amato oggi, a trent’anni dalla sua uscita è proprio questo.
umorismo testuale, pieno di rimandi e strizzate d’occhio ironiche, che non
avrebbe funzionato altrettanto bene se doppiato, infatti per sentire le voci
dei personaggi, abbiamo dovuto aspettare fino al terzo capitolo “The Curse of
Monkey Island”, del 1997, un gioco molto bello, anche migliore del successivo “Escape
from Monkey Island” (2000), ma nessuno dei due sono stati curati da Ron Gilbert, che nel
frattempo aveva lasciato la LucasArts, facendo ancora in tempo però a regalarci l’altrettanto
geniale “Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge” (1991).
fascino tutto loro dettato anche dal “sentire” nella tua testa di
lettore/giocatore, le voci e le battute dei personaggi, un gusto ormai retrò
che però allora, sembrava davvero qualcosa di grande. Ad ogni trovata comica il
dubbio era se sbellicarsi dal ridere, oppure gioire per il nuovo enigma risolto
e di conseguenza, per la possibilità di poter esplorare un’altra fetta di quel
piratesco mondo di Pixel, che era così bello da poter essere già pronto per
diventare un film (come devono aver pensato alla Disney, ma non badate alle mie
illazioni maligne), anche se la sua vera natura era proprio quella, il passo
successivo della avventure testuali, un po’ Librogame sui pirati e un po’ parodia
piratesca con colonna sonora cinematografica.
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Parlare con le donne, può essere difficile anche per i personaggi dei videogiochi. |
anche di rispondere male ad alcuni dialoghi (con effetti spesso esilaranti), “The
Secret of Monkey Island” ha saputo aggirare perfettamente anche la staticità tipica
dell’avventure grafiche, senza rinunciare mai alla sua vera natura. Forse il
passaggio del gioco più lungo e faticoso, quello che richiedeva più tempo e
abnegazione anche la seconda e la terza volta in cui da giocatori, volevamo
ripercorrere l’avventura di Guybrush, era di sicuro la lunga gavetta necessaria
per poter battere il maestro di spada.
far andare la lingua, perché chi ha giocato a questo gioco sa che chiunque
potrebbe agitare una lama affilata nel tentativo di portare via un pezzo di
corpo dall’avversario, ma solo chi conosce le parole giuste potrà vincere
davvero. Di conseguenza i duelli di spada erano prima di tutto, delle gare di
insulti! L’unica impacciata frase con cui Guybrush sa rispondere all’inizio
della sua gavetta è la leggendaria «Io sono la gomma e tu la colla!», per altro, frase che
ho usato più di una volta nella mia vita per spiazzare alcuni interlocutori.
Storia vera. Da qui in poi il suo bagaglio di frasi e risposte smargiasse cresceva con il numero di scontri, ma stava a noi giocatori azzeccare quella
giusta, perché va bene agitare la spada, ma MAI restare senza la battuta
pronta, una gran lezione di vita che abbiamo imparato nella porzione di gioco
più ripetitiva di “Monkey Island”, ma non per questo meno spassosa.
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“Ma come diavolo ci difendiamo? A parolacce?” (cit.) |
con lo scontro finale con il temibile pirata fantasma LeChuck, richiedeva di
lasciarsi andare all’ironia completamente, la degna conclusione di una storia
brillante, che richiedeva al giocatore di pensare molto spesso fuori dalla
scatola, esattamente come accadeva nell’altrettanto notevole seguito di “Monkey
Island”, sempre firmato da Ron Gilbert, ma questa è un’altra storia.
dopo innumerevoli ore passate a giocarci, non ho ancora capito quale fosse
questo misterioso segreto dell’isola delle scimmie citato fin dal titolo, ma
forse il segreto era lasciarsi andare ad una trama semplice ma raccontata in
modo geniale, utilizzando in modo incredibilmente creativo la tecnologia
disponibile, quei pixel che oggi sono la preistoria dei videogiochi, allora erano
davvero in grado di farci immergere nel calore di un videogioco che ha davvero
fatto la storia.
con un enorme boccale di Grog… GROG! GROG! GROG!