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Dagon – La mutazione del male (2001): la maschera di Imboca

Spero che abbiate portato le pinne, perché qui la faccenda sta per diventare parecchio umida, benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Ph’nglui mglw’nafh Above and beyond R’lyeh wgah’nagl fhtagn.

Superate le rapide piuttosto burrascose degli anni ’90, Stuart Gordon si ritrova all’inizio del nuovo millennio con lo stesso problema, ovvero trovare fondi per finanziare i suoi nuovi film, ma anche con la stessa soluzione: un amico, collega e compagno di bisboccia come Brian Yuzna che nel frattempo non era certo rimasto con le mani in mano.

Se lo storico produttore Charles Band che tanto aveva dato da lavorare a Gordon, utilizzava l’Italia come suo personale campo da gioco, idealmente Yuzna ne ha seguito l’esempio. Emigrato in Europa il buon vecchio Brian ha trovato casa in Spagna dove aveva fondato la Fantasy Factory, una costola della Filmax di Julio Fernàndez, avete presente tutti quegli horror spagnoli che hanno invaso il mondo all’inizio degli anni 2000? Erano quasi tutti farina del sacco di Fernàndez, tra questi, ad esempio, anche Jaume Balagueró, di cui avrete sicuramente visto (o sentito parlare) almeno del suo “REC” (2007).

«Hola, benvenuti nella ridente e solare spagna»

Il piano di Yuzna era semplice: nuove leve dietro alla macchina da presa, oppure qualche vecchio leone come il suo amico Stuardo, maestranze e il più delle volte attori spagnoli per pellicole girate in lingua inglese, dal budget che poteva variare dai cinque fino ad un massimo di dieci milini di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti spirati, ma solo in quelle rare occasioni in cui Yuzna scendeva dal letto con il piede spendaccione, quindi davvero pochissime.

Fin dal nome la casa di produzione era una vera e propria “factory” con un piano di spesa che avrebbe anticipato l’attuale strategia di Jason Blum, ovviamente Stuart Gordon ci si è buttato a pesce, anche se, a ben pensarci, avrei dovuto scegliere meglio le parole visto il tema del film, oppure sono proprio quelle giuste.

Brian Yuzna, Stuart Gordon dirige (una sceneggiatura del sodale Dennis Paoli) e l’ispirazione arriva dal solito, immancabile H.P. Lovecraft, la fonte d’ispirazione costante per la coppia di amici e compari. Cosa potrebbe andare storto? A distanza di anni e di tanti pareri ascoltati, verrebbe da dire quasi tutto, perché “Dagon” (da noi appesantito dal solito sottotitolo inutile) è spesso considerato un sacrilegio. La sua colpa è quella di aver mostrato troppo, di non essere un adattamento perfetto, di prendersi delle libertà spesso enormi e in generale, di essere ricordato come un B-Movie e, quindi, la domanda mi sorge spontanea: perché gli altri adattamenti Lovecraftiani di Gordon com’erano esattamente?

Dagli abissi emergono i titoli di testa dalla forma ricercata.

Re-Animator stravolgeva il racconto originale, From Beyond introduceva tutto il sesso che Lovecraft non ha mai voluto descrivere perché considerato peggiore degli orrori di Dunwich. La verità è che Gordon non ha mai voluto adattare in maniera perfetta Lovecraft per il cinema, anzi, a dirla proprio tutta, per sua stessa natura la prosa del solitario di Providence è anti cinematografica. Per riuscire a rappresentare quel tipo di orrore al cinema, grandi Maestri come Carpenter e Fulci hanno ricreato quelle atmosfere, ma senza rifarsi a nessun racconto di Lovecraft specifico, Gordon, invece, è stato il più diligente degli scolari, quello che ha dimostrato di aver letto, ma soprattutto compreso e assimilato la lezione di Lovecraft, anzi quando riesci a portare in scena quell’atmosfera umida, malsana, in grado di farti percepire la puzza di pesce marcio e malvagità nell’aria che si sente solo leggendo Lovecraft, con un film girato con attori che sembrano ibridi (sì ma di uomini e cani per come recitano) e con un costo totale di poco meno di cinque milioni, altro che lezione compresa, sei da dieci in pagella.

Quel senso di angoscia umidiccia e malsana che solo Lovecraft (e Gordon) sanno regalare.

Certo, anche io ho gli occhi, diventa davvero impossibile non notare che la CGI (per quanto centellinata) che vediamo nel film risulti essere davvero poca cosa, ma credo che la brutta fama di “Dagon” sia dovuta più che altro ad un pubblico che qualche volta non riesce ad andare oltre ai limiti della messa in scena, o che non riesce a distinguere quando un B-Movie girato con due spicci, possa avere comunque molto da dire, come in questo caso.

“Dagon” inizia con la solita partenza a freddo tipica dei film di Gordon: Paul Marsh (Ezra Godden) è un ragazzo americano di madre spagnola impegnato in un sogno bagnato. No, aspettate, che avete capito? Intendo dire che all’inizio del film sogna di nuotare negli abissi, sfiorando con le dita la superficie di un’antica costruzione prima di ricevere la visita di una bella figliola poco vestita, con coda e pinne da sirena, ma decisamente più denti della Ariel di zio Walt.

Se poi ti guardassi intorno, vedresti che il nostro mar è pieno di orrori Lovecraftiani / Che altro tu vuoi di più! In fondo al mar! in fondo al mar! (quasi-cit.)

Al suo risveglio dopo questo incubo, Paul è sulla sua barca con la fidanzata Barbara (Raquel Meroño), ospite dello yacht di un paio di amici di nome Vicki (Birgit Bofarull) e Howard (Brendan Price). Sì, il nome del personaggio è volutamente un omaggio al solitario di Providence, forse un tentativo di captatio benevolentiae perché tecnicamente il film s’intitolerà anche “Dagon”, ma più che il racconto scritto nel 1917 ricalca piuttosto fedelmente “La maschera di Innsmouth” del 1936, quindi, di fatto, sono quasi due film in uno, doppia dose di Lovecraft dritta in vena.

Ora, io non so se trovo più urticanti i battibecchi tra personaggi a bordo dello yacht, oppure il fatto che la messa in scena dell’incidente navale al largo delle coste della Galizia, sia probabilmente la scena peggiore mai girata da Gordon in tutta la sua filmografia. Un momento in cui la mancanza di vile denaro necessario ad una messa in scena credibile, arriva a grattare la porta perché la CGI risulta bruttina forte ed inoltre, fa a pugni con il fatto che in alcuni controcampi è lampante che il mare sia calmissimo, parlerei quasi di un inizio in stile Asylum, se solo Gordon non si fosse esibito anche in questa specialità (a breve su queste Bare, non vedo l’ora!), quindi il consiglio è quello di tapparvi il naso, gli occhi e se volete anche le orecchie, considerate questa scena come il prezzo da pagare per far iniziare davvero la storia e procedere sospendendo il giudizio.

«Devo restare così ancora a lungo caro?», «Solo fino alla fine della scena, speriamo di distrarre qualche spettatore dagli effetti speciali»

L’altro momento intollerabile (per molti) arriva subito dopo: Gordon e Dennis Paoli per esigenze di produzione, non sono così stupidi da cercare di ricreare il Massachusetts di Providence in Spagna, spostano semplicemente l’azione laggiù e lo fanno in un modo, a mio avviso, gustosamente giocoso. La cittadina portuale di Innsmouth del racconto, diventa Imboca, un gioco di parole degno di quello fatto da Carpenter per la sua sortita lovecraftiana tutto basato sul fatto che “mouth” (bocca) in spagnolo si dice boca. Se riuscite a cogliere l’ironia e la cura per il dettaglio in questa trovata, molto probabilmente vi troverete a vostro agio con questo film, anche se poi di fatto la trama fa rientrare la pellicola in una di quelle: americani escono dai loro confini e muoiono male, perché fuori da “Yankeelandia” sono tutti pazzi. Sapete cosa vi dico? Al netto del risultato è un prezzo più che adeguato da dover pagare.

Paul si aggira per Imboca con la sua felpa della “Miskatonic University” in omaggio a Lovecraft e viene istintivo chiedersi se durante le sue lezioni, abbia mai incontrato Herbert West, ma l’immedesimazione con il protagonista comincia da subito, perché se Paul è finito in un paesello assurdo e grottesco popolato di sinistri personaggi fin troppo simili ai pesci nell’aspetto, anche noi spettatori ci ritroviamo proiettati in un altro luogo e in un altro tempo. “Dagon” è proprio questo: un film fuori dal tempo, sarà pure targato 2001, ma di fatto, nello spirito è un horror americano degli anni ’80 nella sua forma più pura, ritrovato identico a sé stesso sulle coste della Galizia.

University of Miskatonic (e il Politecnico di Torino… MUTO!)

“Dagon” non rinuncia a momenti comici, brevi, ma sparsi lungo tutto il film, che sono davvero un tipo di umorismo (ovviamente nerissimo) che sarebbe normale trovare in horror degli anni ’80. Inoltre, la centellinata CGI che fa capolino, quando Gordon non può proprio più fare a meno di non mostrare sarà anche brutta (lo è per davvero), ma rappresenta il 20? Forse 30%, degli effetti speciali di un film che per il resto è tutto realizzato con vecchi trucchi prostetici, trucco, maschere, tentacoli di gomma bagnati per dare quel senso di umidiccio richiesto dalla storia.

Insomma, “Dagon” è il frutto di un produttore come Yuzna che in puro stile Roger Corman ha trasferito il suo modo di fare cinema nel cuore della vecchia Europa, vent’anni dopo la fine ufficiale di quel tipo di stile gommoso, esagerato e che abbiamo imparato ad amare al cinema, durante Notte Horror e nelle VHS affittate, “Dagon” è un viaggio indietro in un’altra epoca del cinema horror, solo due come Yuza e Stuart Gordon potevano avere tanto amore e così tanto talento da riuscire a portare in scena un film che è un pasticcio, ma un pasticcio bellissimo per tutti quelli che amano Lovecraft e più in generale il cinema horror.

Sopravvivere alle creature degli abissi per essere quasi affogato nella tazza del cesso, destino beffardo.

Il nostro Stuardo è bravissimo a restituire allo spettatore quel senso di umidiccia malvagità che normalmente permea le pagine dei racconti di Lovecraft, il regista di Chicago è bravissimo a piazzare sul petto del suo pubblico il peso angosciante di un destino da cui non si può scappare, anche perché nei film di Gordon una volta che il male emerge è impossibile ricacciarlo dentro la lampada da cui è sbucato, i contorti abitanti di Imboca sono stati consumati da una corruzione in grado di cambiarti, di mutarti per sempre e questa sensazione sgradevole (e puramente Lovecraftiana) dal film arriva, arriva fortissima ed è il più grande pregio di “Dagon”.

Che siano la stanza di hotel con il peggior cesso della Scozia Spagna, oppure le profezie cariche di orrore del vecchio barbone pazzo e ubriacone Ezequiel, interpretato da Francisco Rabal a cui il film è dedicato, visto che l’amatissimo regista e attore spagnolo, qui era alla sua ultima apparizione sul grande schermo.

L’ultima memorabile apparizione di Francisco Rabal in uno di quei ruoli che non si dimenticano.

“Dagon” ci trascina in un mondo dove gli orrori dell’umanità e la sua grottesca caratterizzazione, quella che a Gordon è sempre venuta fuori così naturale nei suoi film, vanno di pari passo con le mostruosità partorite dalla penna di Lovecraft, un popolazione di uomini-pesce ibridi pronti a tornare all’oceano in nome della divinità Dagon che in passato tanta prosperità aveva portato ad Imboca, anche se il prezzo da pagare è stato molto alto.

Ricordatevi di santificare le feste i Grandi Antichi.

Il talento di Gordon si vede dai dettagli, il lungo e ben realizzato flashback sul passato di Imboca è tutto fotografato con toni caldi, opposti alla spettrale luce bluastra che avvolge il protagonista per quasi tutto il tempo e per assurdo sono le limitazioni a far emergere ancora di più il talento di Gordon.

Considerando che il regista di Chicago non aveva abbastanza soldi per mostrare le sue creature, qui trova il modo di suggerirle, come ad esempio nella bellissima scena di Paul che si nasconde dietro alla porta della camera di Uxía Cambarro (Macarena Gómez, al suo esordio una che in patria è amatissima, l’equivalente spagnola di boh, Paola Cortellesi? Il paragone lo lascio a voi) e intravede il suo deforme padre spiando dallo stipite della porta, una delle tante scene incredibili che Gordon riesce a mettere spendendo quello che di norma altrove serve per pagare le richieste da divo del vostro attore principale.

Il ritmo di “Dagon” è quello di un film che mostra le carte poco alla volta, si passa da efficaci flashback a momenti di pura violenza dove Gordon non tira di certo via la mano, alternati a visioni horror come le “gambe” della Gómez che potrebbero ottenere più apprezzamenti da un pescivendolo che in un concorso di bellezza, uno per umani intendo dire.

Non so se innamorarmi o mettere su l’olio per fare una frittura.

Il finale, poi, diventa tragico, la tradizione lovecraftiana prevede personaggi che impazziscono, che non saranno mai più gli stessi dopo aver guardato negli occhi l’orrore e questa tradizione è rispettata perfettamente da Gordon che dà un senso di circolarità al suo film, concludendolo con una scena abissale molto simile all’incubo iniziale del protagonista che a suo modo è tornato a casa, ma non senza perdere prima tutto quanto e in tutta onestà, davanti ad un film così, posso anche perdonare il fatto che Gordon ad un certo punto debba mostrare per forza e lo faccia con della CGI così così, davanti a tanta cura, passione per la materia e manifesto talento, mi prendo anche i tentacoli computerizzati posticci, sul serio!

“Dagon” è volutamente fuori dal tempo, sembra davvero una scheggia di follia precipitata da Providence dritta nel mezzo di una Spagna che meno solare di così non è stata mai, non so se mi affascina più l’idea di un film in grado di omaggiare così bene Lovecraft al netto di mezzi palesemente non all’altezza, oppure un film che è così orgogliosamente “vecchia scuola” arrivato nel 2001, un periodo in cui il cinema horror si aggrappava giusto a qualche anemico fantasma per continuare a fare paura.

Il riflesso dell’acqua non è mai stato tanto spaventoso.

Questa, però, non sarebbe stata l’ultima sortita di Stuart Gordon alla corte del suo H.P. Lovecraft, come vedremo più avanti nel corso di questa rubrica, ma per certi versi è stata l’ultima grande fiammata, quasi un modo per ricordare (alla grande) i vecchi tempi, radunando la banda composta da Gordon, Yuzna e il vecchio H.P. ancora una volta, per un ultimo grande concerto.

Era normale che dopo questo film il cinema di Gordon cambiasse pelle, restando fedelissimo alla poetica del regista di Chicago ed è qui che questa rubrica innesta le marce alte, perché tanti registi nell’ultima parte della loro carriera si sono adagiati, quasi come se non fossero più in connessione con i tempi, ma non Stuart Gordon, il vecchio Stuardo era di un’altra pasta, come vedremo venerdì prossimo, non mancate!

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