Il vostro amichevole Cassidy stupido uomo bianco di quartiere oggi, ha l’onore di ospitare un’improvvisazione alla tastiera, degna di quella alla chitarra di zio Neil Young. Il nostro Quinto Moro oggi si occuperà di “Dead Man” di Jim Jarmusch, buon ascolto e buona lettura.
Wanted: locandine alternative per film alternativi
Avete un po’ di tabacco? No? Ok, mentre guardate meglio nelle vostre tasche vi parlerò un po’ di questo film, e di come io e il buon vecchio Jim-famoso-regista-indie-Jarmush ci siamo conosciuti quando spendevo il mio modesto patrimonio da maturando in vhs. E il ragazzo (cresciuto) che stava dietro al bancone, non so se per arte nella vendita o per autentica cinefilia, sembrava aver visto tutti i film che stavano sullo scaffale. Quando gli chiesi che razza di film fosse quel Dead Man me lo descrisse come un film “molto particolare, specialmente nelle musiche”. Poi mi consigliò un altro filmetto di cui forse avrete sentito parlare: “Le Iene”. Ma ci credereste se vi dicessi che mi colpì più quella sottospecie di sgorbio western a quello che è (e per me resta) il grande capolavoro di Quentin Tarantino? Non ci credete? Vogliamo scommetterci su un po’ di tabacco?
“Bel cappello. Quasi quanto il mio…”
Dead Man è l’anti-western, Jim-facciadicuoio-Jarmush si arma di una bella motosega e fa a pezzi il genere in tutte le sue parti, a cominciare dal protagonista. William Blake ha un nome da poeta ma è solo un modesto contabile orfano e povero, con indosso un vestito che probabilmente ha rubato a un cinese morto (cit.). Il cappello però è favoloso, Heisenberg approva.
William Blake è un disgraziato travolto dagli eventi, di quelli che non sembrano avere alcuna storia raccontare, soprattutto in un vecchio west mitizzato da faide tra visi pallidi e nativi, duelli, treni e diligenze da assaltare, sparatorie come rintocchi nella festa di scontri epici e leggendari. In Dead Man non troverete niente di tutto questo. E’ tutto un altro west, visto con gli occhi dell’uomo comune, restituito alla sozzura, alla pochezza di un mondo che comincia a puzzare di zolfo dalla prima scena, quando Crispin Glover appare con quella faccia sporca e gli occhi spiritati come un demone sputato fuori dall’Inferno. E chissà non lo sia davvero, poi ci torniamo…
Angeli demoni con la faccia sporca…
Il nostro antieroe William Blake ha il superpotere di calamitare la sfiga, ed ovviamente le pallottole, che contrariamente alla mitologia western non sempre ammazzavano sul colpo ma vi potevano lasciare sanguinanti per giorni prima di traghettarvi all’Inferno. Dopo essersi fatto licenziare ancor prima di iniziare il lavoro, Blake diventa omicida prima per caso e poi… di nuovo per caso. Perché il fido compagno Nessuno, un indiano grassottello con la fissa per il tabacco – che in questo western non si trova neanche a pagarlo oro – non deve l’ora di farlo diventare un assassino di uomini bianchi. È proprio vero quel che si dice delle cattive compagnie…
Nessuno, “colui-che-parla-senza-dire-nulla”, quando dice qualcosa è anche abbastanza confuso, tanto da credere che il William Blake da lui incontrato sia il defunto poeta inglese omonimo. Blake è impersonato da un Johnny Depp pre-smorfiette alla Jack Sparrow, ed è una delle sue prove che preferisco. Era il 1995, ed era il Johnny-è-quasi-magia-come-reciti-Depp. Altri tempi.
Il nostro William Blake, modesto contabile, troppo timido per sostenere lo sguardo di una ragazza. Più o meno…
Fatto a pezzi il protagonista va demitizzato il mondo in cui si muove, perciò Jim-mannaiainsanguinata-Jarmusch ci porta in un west lercio e sporco, fatto di fango, letame e sporcaccioni. E già che ci siamo, visto che Sergio-pistolafumante-Leone ha già detto tutto quello che si poteva su duelli e sparatorie, qua gli scontri a fuoco sono sghembi, perfino casuali. William Blake manca il colpo metà delle volte, e l’altra metà è aiutato dal caso, anche se sul finire si guadagna un pezzettino della sua leggenda.
Jarmush costruisce un film lento, a tratti malinconico, con quei suoi toni da “commedia fredda” dove la comicità è sempre involontaria e sottile. E visto che il western post-technicolor è tutto un tripudio di ampi spazi assolati e colori caldi, ci spara una fotografia d’un bianco con forti contrasti, coi personaggi che sembrano ritratti in china coi volti pallidi e scenari che concedono pochissimi campi lunghi, niente praterie e colline ma solo spazi angusti della boscaglia e delle radure.
La colonna sonora spesso fa la metà del lavoro in un film, George Lucas docet. Ma questo è vero soprattutto nelle pellicole dove l’epica, il dramma e l’azione sono la colonna portante. Jim-uomobiancomicascemo-Jarmusch vuota un sacco pieno di vasetti di miele in mezzo alla boscaglia per attirare il grizzly del rock: Neil Young prende il suo chitarrone e dà zampate rauche improvvisando di scena in scena, tirando fuori una colonna sonora che dà carattere e atmosfere al film, con un tema principale che ritorna a più riprese. Ed è una storia vera che Neil abbia composto “alla come viene” i vari brani, in modo del tutto sperimentale. Il pezzo che apre e chiude il film resta uno dei miei preferiti.
Too old to rock ‘n’ roll, too Young to die.
Visto dall’angolazione giusta Dead Man riesce ad essere un film politico, perché ogni personaggio rappresenta un pezzetto d’America, nella sua anima più viscerale e truce. Ogni comparsata ha uno scopo e un senso, nulla è lasciato al caso, anche se proprio la casualità sembra il motore dell’azione. Per dare forma ai tanti personaggi Jarmush sfoggia un cast fantastico: il “Signor Dickinson del cazzo” è nientemeno che Robert Mitchum in uno dei suoi ultimi ruoli, ed è il capitalismo fatto persona, crudo e vendicativo, che si accanisce con l’uomo comune. Il vice di Dickinson, nelle fattezze di John Hurt, è l’occhialuto burocrate sgarbato. Thel, la guardabilissima Mili Avital, è l’ex prostituta che cerca di guadagnarsi da vivere onestamente, destinata a soccombere in un mondo che vuole solo puttane, o donne di proprietà, come ben dimostra Gabriel Byrne, il suo “fidanzato” che il caso vuole figlio proprio del Signor Dickinson.
È interessante come con pochissime battute e prendendo tutto dai volti e dalla bravura del cast si costruisca una mitologia di personaggi che si incastrano intorno alle sventure di Blake. Blake appunto, un po’ vigliacco e fuori posto in quest’America che sembra una somma di gironi dell’Inferno, ma realistica e attuale: una Nazione in cui la religione passa per la bocca di assassini pederasti e il tacco degli stivali di fuorilegge cannibali. Proprio la religione torna a più riprese tra un Iggy Pop transgender mangiatore di opossum, un Alfred Molina prete anti-missionario a cui non dispiacerebbe sterminare i nativi “pagani”, e pure Lance Henriksen, il leggendario cacciatore di taglie cui tocca il ruolo di vero “villain” dice la sua riguardo alle immagini sacre.
Non è un paese per santi…
Dead Man è la rivolta contro il sogno americano, se il giovane che ha già perso tutto e attraversa il Paese alla ricerca di un nuovo punto di partenza (tema onnipresente nella filmografia a stelle e strisce) vede tradite tutte le sue aspettative, braccato da un avido magnate, dalla legge e dai fuorilegge tutti che vogliono la sua pelle. Il bravo ragazzo per cui il sogno americano è nato, è quello che lo vede morire, e costretto a muoversi tra i reietti, come l’indiano Nessuno strappato alla sua cultura per essere indottrinato alla scuola dei bianchi, altra lettura di una società che cerca di cancellare tutto ciò che le è alieno (anche la scena della mattanza dei bisonti, principale fonte di sostentamento delle tribù native, è rivelatrice sin dai primi minuti).
“Vedo la gente morta…”
UN’INTERPRETAZIONE – ALLERTA SPOILER
Ho sempre trovato Dead Man un film sulla morte, l’inferno e la dannazione. Tutti i personaggi sono dannati e la circolarità della storia, espediente spesso abusato, qui aggiunge una chiave di lettura mistica: quella prima, criptica conversazione sul treno fra Blake e il macchinista acquista maggior senso nel finale. Il macchinista parla a Blake della fine del suo viaggio, a ciò che ha visto e provato “sulla barca”. Dunque Blake è rinchiuso in un circolo infinito, l’inizio del film non è l’inizio del suo viaggio ma una ripetizione. E se “l’inferno è ripetizione” Blake non solo ha già vissuto quell’esperienza, ma è nota anche ad altri nella realtà “infernale” degli eventi. Ci sono le visioni (e le frasi) di Nessuno, convinto che Blake sia già morto e in quanto spirito errante non ricordi d’essere stato il grande poeta. E poi il west senza tabacco non può essere altro che l’inferno, così come il percorso di un uomo vessato dal destino senza particolari colpe come Blake, mentre lo stesso indiano Nessuno è intrappolato in un limbo: reso cristiano dalla sua educazione e rinnegato dalla sua gente. Ad ogni personaggio il suo personale inferno: tutti soffrono, tutti o quasi muoiono male. Nessuno accompagna Blake nel suo viaggio infernale un po’ come Virgilio con Dante, come un angelo custode, e da compagno di dannazione spinge Blake sul suo stesso percorso, ma all’inverso: Nessuno getta via la lettera di assunzione, gli pone sul volto i segni del suo popolo, lo guida all’abbandono dei costumi occidentali. Blake passa dal vestito a quadri alla pelliccia, e nel finale la metamorfosi è completa: niente occhiali, niente cappello, per un trapasso da indiano.
Chi muore si rivede?
Oh, io ‘sti pipponi mentali me li sono fatti vedendolo tante volte negli anni, chiunque lo veda per la prima volta ha licenza di considerarlo un filmetto che non si capisce bene cosa sia: né abbastanza epico e carico d’azione per essere un western, né abbastanza divertente per essere una commedia. Ma il bello è proprio questo, se anche il duello finale è l’apice dell’anti-western: un duello senza vincitori, e lo vediamo da lontano dal punto di vista di Blake, che si prepara ad attraversare lo specchio d’acqua e forse tornare all’inizio del film…
FINE SPOILER
Nonostante il continuo smontare i momenti drammatici e la sua lentezza, la struttura è quasi (molto quasi) da film on the road, reso con inquadrature fisse e ripetute al passaggio dei personaggi per rendere l’idea dell’inseguimento, lasciando tutto in forma di episodi destinati – forse – ad incrociarsi.
È questo continuo muoversi sotto tono che riesce però a dare una dimensione al “mito” di Blake, che si concretizza nell’incontro con gli sceriffi (e la sorprendente battuta cult: “conosci le mie poesie?”) per poi compiersi nella “firma dell’autografo” al missionario, che è il momento più maschio della pellicola.
Alla fine, da falsa commedia si trasforma a tutti gli effetti in tragedia. Perché è una tragedia se l’unico tabacco che si riesce a trovare in questo strano west, va all’unico uomo che non fuma.
P.S.
Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film!
Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.
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