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Death Note (2017): Il tempo delle mele (Wingard mettiti in salvo!)

Quando ho visto
spuntare “Death Note” sul paginone di Netflix non ci ho pensato su molto
per decidermi a guardarlo, non tanto perché si tratta dell’adattamento
americano di un manga molto amato, quanto, più che altro, del nuovo film diretto
da Adam Wingard.


Faccio una
doverosa premessa: del Manga di Tsugumi Oba illustrato da Takeshi Obata conosco
giusto il soggetto di base e la popolarità acquisita negli anni, il che fa di
me lo spettatore ideale per questo film. Pronti, via! Vediamo cos’ha da propormi!


Quando gli americani provano a rifare una storia che non appartiene alla loro cultura, in rete partono subito le accuse di “Lavaggio bianco”, il solito whitewashing che se aveva poco senso per Fantasma dal benzinaio (e poco senso in generale) qui trova ancora meno terreno fertile, proprio perché il film nasce con l’intenzione di adattare le tematiche del Manga agli Stati Uniti odierni, qui rappresentati da Seatlle, città che come direbbe Homer Simpson fa ridere se la pronunci, ma è una delle più fighe e meno visitate dal cinema americano.

Adam ti voglio bene, ma sappi che il tuo nome finirà su parecchi Death Note.

Se volete un’analisi punto per punto di tutte le differenze tra questo film e la trama originale
del Manga, mi spiace non sono la persona giusta per l’incarico, ma un paio di
faccende mi sono chiarissime, tipo che lo spunto di partenza del film è lo
stesso che conoscevo ed è anche incredibilmente potente.

Light Turner (Nat
Wolff) è un adolescente brillante che un giorno si trova per le mani il “Death
Note” il diario dei morti ammazzati, un libercolo nero pieno di regole e
regolamenti, ma con una peculiarità mica da ridere: se scrivi il nome di
qualcuno sulle pagine del diario pensando alla faccia di quella persona, lei
muore. Vi lascio il tempo per pensare all’uso che ne fareste voi, perché io
saprei davvero come usarlo, oh se lo saprei! Buuahah ah ah ah… Ehm, Scusate, mi
sono fatto prendere.



No sul serio, dove si compra? Ne voglio uno anche io, ho già le mele pronte!

Ora, io ho letto
abbastanza storie e visto abbastanza film da sapere che un oggetto del genere
porta con sé sicuramente una fregatura, una roba del tipo: ok, lo puoi usare, ma
poi ti spuntano corna e coda, che ne so, avete capito, no? Qualche effetto
collaterale tipo il classico racconto della zampa di scimmia tanto per capirci.

Dal film, però
pare che il diario non porti con sé effetti speciali, se non quello di dover
convivere con il suo proprietario, il Dio della morte Ryuk, pronunciato “Ri-Uc”
come ci spiega lui stesso nel film utilizzando la vociona satanica di un Willem
Dafoe in grande spolvero. Il bestione è un cristone dalla faccia inquietante, gli
occhi a palla e delle strambe spine tipo riccio che gli spuntano dalle spalle, oltre
a ridacchiarsela e divorare mele di cui va ghiotto non fa davvero molto altro,
vi assicuro che ho colleghi di lavoro per più fastidiosi e spaventosi, quindi
per ora il gioco parrebbe valere la candela.



Era già Ryuk vent’anni prima di Ryuk (da qualche parte nel mondo, un Maestro si fa una risata).

Ryuk è come il
coniglio di Donnie Darko: lo vede solo il custode del Death Note ed è pure
abbastanza refrattario alla tante regole di utilizzo, molte delle quali
bellamente ignorate dal film. In buona sostanza, l’unico effetto collaterale
parrebbe l’avidità e l’esaltazione che un tale potere potrebbe portare che,
infatti, è proprio quello che succede a Light.

“Death Note” non
è affatto un brutto film, ha svariati problemi alcuni anche piuttosto grossi,
ma è tutto sommato ben fatto, diretto con mano ferma da Adam Wingard che quando
si tratta di usare luci al neon è davvero fortissimo e qui sfoggia un gusto per gli omicidi splatter notevole.
Ci sono un paio
di ammazzamenti quasi in stile Final Destination, talmente ben realizzati che per un attimo ti dimentichi anche
che il protagonista non fa assolutamente una piega nel vedere qualcuno ucciso per
mano sua, ma lo dico a costo di non farci una bella figura: se avessi un diario
come quello, nemmeno io perderei un solo secondo di sonno per alcuni nomi che
scriverei sopra. Risulto abbastanza spaventoso? Bene!

Il problema di “Death Note” è un altro, ovvero il fatto che i 101 minuti di pellicola siano palesemente troppo pochi per riassumere una storia a cui è chiaro che è stato amputato moltissimo ed in cui non c’è davvero il tempo per soffermarsi su alcune dinamiche. In pratica è la stessa identica situazione già vista con l’adattamento de La Torre Nera, solo che a differenza della saga di zio Stephen King, qui non so nulla della storia.

Una faccia che i lettori del manga impareranno ad odiare.

Bisogna dire che Nat
Wolff è una scelta di casting bizzarra, è uno perfettamente a suo agio con la
commedia, ad un certo punto la trama richiede che lui faccia le boccacce alla
festa di fine anno della scuola, qui davvero Wolff dà il meglio apparendo
naturalissimo, sfiga! Quando deve recitare la paura (tipo di vedere un Dio
della morte alto tre metri) o i momenti più intensi appare davvero fuori luogo
al limite dell’autoparodia. Anche se bisogna dire che l’assoluta freddezza con
cui reagisce ad alcune situazioni, lo fa sembrare il perfetto criminale intento
a nascondere le sue colpe, salvo poi sbracare nuovamente nel finale. Insomma:
non si capisce se ci è o ci fa, ma complice una pettinatura così brutta che
nemmeno Max Landis sfoggerebbe mai,
il personaggio funziona a corrente alternata, non si patteggia mai per lui, si
sta qui a vedere cosa gli accade, il che non è il massimo per una storia che
dovrebbe farti pensare: “Ed io cosa farei?”.

Percorso inverso
per Mia (Margaret Qualley vista in The Nice Guys di Shane Black, che era tra i nomi in lizza
per la regia di questo film. Storia vera) che inizia come il classico
personaggio che esiste solo nelle fantasie maschili, ovvero la Cheerleader darkettona
(sono solo io a vedere le due cose in netto contrasto?) che pare arraparsi per
il protagonista più che altro per il suo potere di far fuori la gente, anche perché
per i capelli mi risulta molto difficile crederlo.



Personaggi mitologici immaginari: La Cheerleader gotica.

In compenso, Mia
diventa pian piano un personaggio più attivo nella vicenda un ruolo quasi alla
Jessie Pinkman, in una storia che ha davvero parecchi punti in comune con Breaking Bad. Peccato che molte delle dinamiche
dei personaggi siano affidate completamente al talento dei singoli attori, Margaret
Qualley se la cava e a tratti fa sembrare Kristen Stewart sua zia anche se tra
le due ballano quattro anni.

Margaret guadagna altri punti simpatia presso i lettori.

Ma una menzione
speciale la merita il solito Shea Whigham. Qui gli tocca il ruolo alla Hank
Schrader del papà sceriffo alla caccia di suo figlio, ma Whigham ci mette la
presenza scenica giusta e un carisma che levati, ma levati proprio, non è la
prima volta che lo vedo illuminare un ruolo da non protagonista, in un film in cui è solo un ingranaggio del
meccanismo, ma sta diventando una piacevole abitudine per l’ex fratellino di
Nucky Thompson in “Boardwalk Empire”.

Per me i problemi
di “Death Note” stanno tutti nella sceneggiatura di Charley Parlapanides e Vlas
Parlapanides (Salute!), che in un paio di momenti scivolano nel gorgo del
MACCOSA più spietato, quello da cui non si esce più, quello che ti tira proprio
fuori dall’illusione del film. Io capisco che dopo i primi omicidi, la storia
voglia andare avanti, molto avanti, portandoci il prima possibile al momento in
cui Light e Mia creano Kira, questo immaginario Dio che uccide i cattivi in
tutto il mondo facendo precipitare a picco il tasso di criminalità mondiale.



Gli Yankee direbbero: When You See It You’ll Sh*t Bricks.

Mi va benissimo
la spiegazione sul nome Kira (che in giapponese vuol dire assassino e in
Celtico e Russo indica la luce, gioco di parole con il nome del protagonista), ma
com’è possibile che il nome Kira cominci a comparire scritto accanto a tutti i
cadavere dei criminali morti? Ma non a Seattle, in tutto il mondo! Il passaggio
chiave che rende trasforma Light in Kira, un Dio venerato dagli uomini nel film
semplicemente non trova spiegazione alcuna. Sarò cagacazzo io (e lo sono!), ma
certi passaggi a vuoto mi fanno sospendere l’incredulità senza possibilità di
recupero.

Non aiuta nemmeno
l’arrivo del personaggio di Elle (Keith Stanfield visto in Scappa – Get Out), mi va benissimo che vada in giro usando uno
pseudonimo e con la faccia coperta al fine di rendere inutili i poteri di Kira,
ma il suo personaggio è la classica trovata da Manga giapponese (sì, sto
pensando al congegno spegni cuore di “Old Boy” di Park Chan-Wook) che se non la
sai utilizzare più che bene rischia di passare per una frescaccia e basta.
Elle ci viene
presentato come un orfano allevato tutta la vita in una scuola speciale, il cui
unico obbiettivo è quello di sfornare i migliori investigatori del
mondo. Insomma, quando vedi questo tizio con la maschera nera, che ti dice di
essere un orfano, ma anche il più grande detective del mondo io mi sono detto: «Ma
chi è? Batman?».



Gotham Seattle ha bisogno di un eroe con un volto…”.

Il duello a
distanza tra Elle e Kira per motivi di tempo diventa incredibilmente
frettoloso, non mi è nemmeno chiaro come mai Elle per tutta la durata del film
non si sieda mai su una sedia come un cristiano qualunque, ma ci stia appollaiato
sopra nemmeno fosse un Gargoyle. Tutto questo è un enorme peccato perché la
storia ha degli spunti anche etici che sarebbe estremamente coinvolgenti,
peccato che si proceda in maniera spesso raffazzonata e con l’avanti veloce. Ribadisco,
sarà che ho visto da poco La Torre Nera, ma pur senza aver mai letto un sola
pagina del Manga, cari lettori di “Death Note”, sappiate che avete tutta la mia
solidarietà per quel poco che vale.

Provando ad
andare oltre tutti questi difetti, devo dire, però, che mi sono bevuto i 101
minuti di “Death Note” con una facilità irrisoria, proprio perché volevo capire
la svolta successiva e il finale della trama, risulta un film che tutto sommato
si lascia guardare, anche perché Adam Wingard ribadisco, sa il fatto suo.

“La mamma non ti ha insegnato a stare seduto composto?” , “No, sono orfano”.

Ok, evidentemente
è entrato nella porzione di carriera in cui ha poca voglia di sbattersi per i
soggetti, anche perché non avrebbe accettato di fare Blair Witch se così non fosse. Se “Death Note” è uscito dalla secce
produttive è stato proprio grazie al suo interessamento (e a quello di
Netflix), peccato che il suo proposito di regalarci la versione adattata all’America
di oggi del Manga che ha tanto amato, vada un po’ a donnine di facilissimi costumi
con una sceneggiatura così, ma quello che resta non è tutto da buttare.

Ad esempio, Ryuk è
davvero fantastico, realizzato sfruttando il talento di Willem Dafoe e i sensori
per il MOCAP, il personaggio funziona davvero alla grande, Adam Wingard è tanto
abile da non riprenderlo mai per intero, ma sempre sullo sfondo o al buio, sono
certo che nel Manga avrà avuto un ruolo diverso, ma qui sembra davvero un
Dio della morte, al di sopra del bene e del male, uno che ha già visto i dubbi
morali di così tanti custodi del “Death Note” a cui non interessa più quella
parte lì e vuole passare subito a quella divertente, quella dove il sangue
scorre e le persone muoiono.



“Basta burocrazia, sangue! Sangue! Voglio il sangueeeeeeee!”.

Guardando “Death
Note” mi sono ritrovato a pensare al fatto che potrebbe quasi passare per uno
dei film di Wes Craven, oh! Non uno di quelli belli e famosi, uno di quelli
minori, fatti su commissione dal maestro di Cleveland. Anche perché Adam
Wingard ha una mano fermissima e pare quello che si diverte più di tutti, anche
se l’inseguimento per strada tra Elle e Light parte per effetto dell’ennesima
trovata stiracchiata della trama (per non dire un Deus ex machina bello e
buono), poi il nostro dirige un inseguimento a piedi ben fatto con il ritmo
giusto, un tripudio di luci al neon su strade bagnate. Ribadisco: al netto delle
trovate sceme, hai sempre voglia di continuare a vedere “Death Note”, il che
non è un dettaglio da sottovalutare.

Il finale è
davvero smarmellato, le facce sceme di Nat Wolff tornano prepotentemente e Wingard
pare quasi saperlo, infatti mette su undici (come l’amplificatore degli Spinal
Tap) l’effetto storia d’amore tragica, in un tripudio di canzoni che più
sdolcinate non si può, tipo i maledetti Chicago con “I don’t wanna live without
your love” e “The power of love” nella versione degli Air Supply.



Time Out Cassidy! Adam Wingard, Adamo. Le mele che mangia Ryuk, una storia di amore tra adolescenti con canzoncine melense…


…Non è Death Note! Wingard ha fatto un remake di “Il tempo delle mele”!!

Il potenziale
(tragicomico) del finale è presente, ma è impossibile non notare dei punti di
contatto tra la storia d’amore al limite tra Light e Mia e quella tra i
protagonisti di The Guest che era,
comunque, molto più riuscito, ma forse un giorno quando Adam Wingard avrà una
filmografia lunga come quella di Wes Craven (cosa che gli auguro), sarà più
facile notare certe affinità, anche se probabilmente etichetteremmo il film
come minore e su commissione.

Insomma, non è
bello, ma complice la comodità di Netflix alla fine si lascia guardare, prima
che voi scriviate il mio nome sul vostro Death Note, prometto di impegnarmi a
recuperare il fumetto, anche l’adattamento più sghembo non potrà mai intaccare
l’opera originale, al massimo farà venire a qualcuno la voglia di scoprirla. Ma visto l’andazzo ultimamente, fan della Torre Nera e di Death Note, forse è
meglio se certe storie continuiamo solo a leggerle!
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