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Delta Force (1986): America… FUCK YEAH!

Siamo fatti da 215 ossa (come diceva Sarah Connor), da circa
cinque litri di sangue, alcuni metri di intestini e budella ma soprattutto dai
libri, dai fumetti e dai film che abbiamo letto e visto.

Alcuni di questi non
ti lasciano mai per davvero, ed ora se fossi uno di quei cinefili seri, colti
con gli occhiali e la pipa, a questo punto dovrei dirvi che per me, quel tipo di
film che ti porti sempre dentro è qualcosa di Sokurov, magari Ėjzenštejn, ma devo
essere onesto e dirvi che quel film per me è “Delta Force”. Anche perché Menahem
Golan non concederebbe mai spazio a quei Bolscevichi.

“Delta Force” usciva in uno strambo Paese a forma di scarpa
esattamente il 3 maggio di 35 anni fa, non potevo perdere l’occasione di
portare su questa Bara uno dei film che ho visto e rivisto più volte nella mia
vita. Sapete come funziona nella vita di un cinefilo, arriva il momento in cui
cresci e prendi un pochino le distanze dai film della tua infanzia, il
momento in cui perdi la testa per quei Bolscevichi là, salvo poi finire per
tornare al punto di partenza e scoprire che le tue basi cinematografiche sono
quel bellissimo ciarpame con cui sei cresciuto. A quel punto di solito o superi
il trauma, oppure finisci per aprire un blog dal nome lugubre e passare le tue
giornate a canticchiarti il tema musicale di Alan Silvestri. Io faccio parte
della seconda categoria, ed ora, la lezione di storia contemporanea.

“Signor Golan quelle sono le lettrici e i lettori della Bara Volante”, “Sono Bolscevichi?”, “Beh non saprei, forse qualc…”, “Ora li facciamo saltare!”

Nel Giugno del 1985, il volo TWA 847 in partenza dalla
Grecia viene dirottato da alcuni terroristi islamici, i passeggeri a bordo
vengono tenuti in ostaggio per due settimane, la situazione si risolve come
spesso accade nella realtà con questo tipo di tragedie, Israele rilasciò alcuni
prigionieri politici, il famigerato “scendere a patti” con i terroristi che è
la negazione di tutti i valori su cui è stata fondata l’America e di
conseguenza, quello che ancora un botto di persone indottrinate da decenni di
propaganda audio visiva Yankee, ancora è convinta sia l’unica via da seguire.

Con un attore (nemmeno troppo bravo) come Presidente degli
Stati Uniti d’America negli anni ’80, la guerra al terrore Yankee si combatteva su tutti i campi
di battaglia, a partire da quello dove gli americani sono sempre stati davvero
invincibili, l’unico per la verità: il cinema.

Non ho idea di dove si trovasse Menahem Golan il giorno in
cui ha letto della notizia del dirottamento aereo, proprio lui che nel 1977
aveva scritto, prodotto e diretto “La notte dei falchi”, un altro film su un
dirottamento con Klaus Kinski e Sybil Danning. Sono certo di una cosa però:
figlio di ebrei polacchi, nato a Tiberiade, Menahem Golan con il cugino Yoram
Globus ha fondato la Cannon Films, che non ha bisogno di presentazioni presso
gli appassionati di cinema di genere, perché la Cannon rappresenta il cinema
d’azione americano degli anni ‘80 nella sua forma più pura, caciarona ed
esplosiva possibile.

Da questa immagine, potete capire perché si chiamava Cannon.

Menahem Golan non poteva perdere l’occasione di sfruttare
l’onda emotiva provocata da un fatto di cronaca come il dirottamento del volo
TWA 847. La filmografia di Golan è infinita, tra regie e produzioni è stato
responsabile di una fetta enorme di cultura popolare occidentale, ma come sua
abitudine, ha sempre conservato per sé i bocconi più gustosi e questo spiega
perché il primo regista scelto per dirigere il film, Joseph Zito (quello di Invasion USA e Red Scorpion) si è ritrovato dirottato (ah-ah) su altri progetti:
paura al bando, Menahem Golan al comando.

Per il ruolo del protagonista Golan non ha avuto nessun
dubbio: Chuck Norris era l’hombre del partido
per la Cannon, il suo coinvolgimento non è mai stato in discussione. Per un
momento avrebbe dovuto essere della partita anche l’altro nome grosso della
Cannon, ovvero Charles Bronson che rifiutò solo perché già impegnato in “L’esecuzione…
una storia vera” (1986). Per il ruolo del colonnello Nick Alexander ci
voleva un nome altrettanto grosso, Golan ha trovato il più grosso di tutti, quello di Lee
Marvin. Uno passato direttamente dai campi di battaglia veri a quelli
cinematografici, era l’uomo giusto per guidare una nuova sporca dozzina nella guerra di Menahem Golan.

“Io ho fatto a botte con Bruce Lee”, “Io invece ho combattuto i Giapponesi nel Pacifico, ed ora sali su questo maledetto aereo, sei sempre in ritardo”

Ma la selezione del cast di “Delta Force” per me è
l’equivalente di fare un salto carpiato in equilibrio su una corda tesa, se
riesci ad eseguirlo applausi a scena aperta, ma il rischio di
cadere nel vuoto è altissimo, posso dirlo? Menahem Golan è un funambolo e “Delta Force” è
il suo capolavoro.

Non so voi, ma a me sta già partendo l’Alan Silvestri nella testa.

Dico sempre che ho consumato tutte le mie istanze
militariste ed interventiste durante l’infanzia, con il culo sulle piastrelle
di casa, impegnato a combattere una guerra termonucleare globale alla settimana
con i miei G.I.Joe ma su questo, lasciatemi l’icona aperta. Fantasie
guerrafondaie innocue alimentate ovviamente dai film, ecco perché “Delta Force”
ha sempre avuto su di me un peso specifico così importante, di fatto è
l’occasione perfetta per sfogare gli istinti bellici sul grande schermo ed è
anche stato uno di quei titoli che ha contribuito a farmi capire che per
godermi lo spettacolo, non devo per forza condividere la posizione politica dell’autore,
insomma “Delta Force” è senza ombra di dubbio un Classido!

Questo film è il punto di equilibrio perfetto tra lo stile
del cinema americano degli anni ’70 e quello più muscolare e d’azione degli
anni ’80. 120 minuti di durata, per una pellicola perfettamente divisa a metà,
la prima ora ha le facce, gli attori e lo stile dei film degli anni ’70, la
seconda metà lascia spazio al cinema (e agli eroi) degli anni ’80. Una
divisione rigorosa che inizia con la famigerata regola dei cinque minuti di apertura,
quelli che determinano tutto l’andamento del film.

Prima scena. Un elicottero fermo sull’area di atterraggio,
la data in bella vista, 25 aprile 1980. Fate così, quando il logo Cannon
scompare dallo schermo, provate a contare alla rovescia partendo da dieci, alla
fine del conteggio l’elicottero BOOM! Esploderà, provateci. John McTiernan piazzava la sua
prima esplosione a 42 secondi dai titoli di testa, ma Menahem Golan è ancora
l’uomo da battere in questa specialità.

Sapete come lo chiamo io questo? Un buon inizio (10 secondi, record!)

Mentre comincia il tema musicale di Alan Silvestri
(lasciatemi l’icona aperta anche su questo, tra poco ci torniamo), il colonnello Nick Alexander
(Lee Marvin) sta facendo ripiegare i suoi uomini dopo un’azione di salvataggio
disastrosa, ne manca solo uno all’appello ovvero il capitano Scott McCoy (Chuck Norris),
che si attarda a salire a bordo dell’aereo perché è impegnato a salvare Pete,
rimasto ferito sul campo. Una scena ricorrente che rende “Delta Force” di fatto
un film circolare, perché McCoy si farà attendere anche nella spettacolare scena
finale. Nella storia del cinema, Chuck Norris batte anche la famiglia McCallister quando si tratta di prendere
aerei al volo all’ultimo secondo.

Salvate il soldato Ryan? Con Chuck Norris sarebbe durato due minuti e avrebbe avuto un lieto fine.

L’operazione è stata un disastro perché LORO, quelli che
comandano e pianificano, quelli che non hanno idea di cosa voglia dire stare
sul campo di battaglia per davvero, hanno preso un’altra decisione tragica, Chuck
Norris
McCoy è stanco di tutto questo, una volta tornato a casa avrà
chiuso. Scocca il quinto minuto esatto del film, l’operazione Golan può
iniziare sul serio, il riscaldamento è finito.

Il volo ATW (cambiando l’ordine delle lettere il risultato
non cambia) in partenza da Atene è pieno di passeggeri che sono anche facce
note, il meglio del cinema pescato dai decenni precedenti al servizio della
prima ora di film, un dramma fatto di sudore, urla disperate, bambine con la
bambola, donne incinte e un caldo opprimente che ti fa venire a voglia a te,
spettatore comodamente seduto in poltrona, di aprire la finestra per far
passare un po’ d’aria.

“Biglietti prego”

Per quanto riguarda i terroristi saliti a bordo, il casting
sembra sia stato supervisionato da Cesare Lombroso, basta dire che il capo, il risoluto Abdul vestito quasi come uno degli uomini del Graal è interpretato da un quasi
irriconoscibile Robert Forster. A bordo del volo l’uomo semina il terrore tra passeggeri che sono tanti “grandi vecchi”
del cinema: l’eterna presenza dei film catastrofici Shelley Winters, il prete
Irlandese di Chicago con contorno di suore e il faccione di George Kennedy, per
non parlare di uno dei miei personaggi di contorno preferiti, il russo
ortodosso che però di fatto è un sovietico redento e convertito sulla via di Damaso
Washington, perché stando alle sue parole «L’America è un grande Paese».

La prima ora di “Delta Force” deve giustificare la seconda, Menahem
Golan lo sa benissimo e a differenza dei terroristi islamici non prende
prigionieri, lo fa con la delicatezza non del classico elefante nella
cristalleria, ma di chi il pachiderma decide di sganciarlo sulla stessa usando
un bombardiere B-17 in volo a duemila metri.

Il dirottatore a bordo insieme ad Abdul è quello che appare
quasi umano… per circa sei secondi. Ci viene accennata la passata esistenza di
una figlia di nome Salima che fa percepire (in maniera appena accennate eh?), che il terrorista sia stato un padre, un marito, insomma un essere umano, ma
quando a bordo compaiono tre marinai americani, l’uomo parte di capoccia,
inizia a sbraitare che gli aerei che hanno distrutto Beirut sono partiti da una
portaerei Yankee e nessuno riesce più a trattenerlo, la tensione cresce ed è
qui che il pachiderma sganciato da Golan colpisce in pieno il bersaglio, anzi scusatemi
se questa frase ricorda sinistramente la notte dei cristalli, ma vi assicuro
che il vecchio Menahem è stato anche meno delicato del vostro amichevole
Cassidy di quartiere sulla questione.

“Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci usate torto, Chuck Norris non ci vendicherà?” (quasi-cit.)

Abdul fa identificare gli ebrei a bordo del volo, un vero e
proprio rastrellamento dove le mezze misure vengono gettate fuori dal
finestrino e poi fatte saltare per aria con il tritolo. Non basta che Shelley
Winters faccia aperto riferimento ai campi di sterminio, il messaggio deve
arrivare anche all’ultimo dei contadinacci con il collo rosso del Wyoming. Menahem
Golan è un ebreo trasferito in America e come tale, più conservatore di alcuni
suoi compatrioti nello sventolare la sua bandiera: chi odia gli ebrei è uguale
ad un Nazista, chi odia gli ebrei non ama l’America e quindi e nemico giurato
di Chuck Norris! Perché il paragone arrivi, deve essere urlato, infatti questa
è la porzione di film dove “Delta Force” diventa dannatamente serio.

Il rastrellamento comincia con una scena brillante e quasi sommessa
per lo stile di Golan, il che vuol dire sparata a mille decibel: quando
l’algida assistente di volo Ingrid (Hanna Schygulla, bellissima e con i suoi
capelli che urlano «ANNI ’80!» fortissimo) raccoglie i passaporti di tutti,
allungandosi verso quello del signor Ben Kaplan (il grande Martin Balsam), non può fare a meno di notare i numeri tatuati sul
suo avambraccio che fanno immediatamente calare sul film un’atmosfera plumbea.

Scene traumatiche infantili che fanno crescere e dove trovarle.

Da qui in poi Golan rincara ancora la dose, Ingrid invoca i
terroristi di non lasciare che sia proprio lei, tedesca, a dover radunare gli
ebrei a bordo e scusatemi se sembro fuori luogo ma trovo questa scena e quella
che segue straziante, un aggettivo che utilizzo poco e che probabilmente sarete
abituati a leggere per film ben diversi nella fama da “Delta Force”. Ma pur
trascinandoci tutti in zona di pura, purissima propaganda, Golan trova il modo
di farsi patteggiare per gli ostaggi a bordo, nel modo più intenso ed emotivo
possibile, alla faccia delle caratterizzazioni spesso piatte, dei personaggi di
contorno nei film d’azione.

Menahem Golan, tiene fede al suo nome è MENA, mena
schiaffoni a noi spettatori che impotenti vediamo veder portar via prima l’innocente
russo scambiato erroneamente per ebreo, poi Martin Balsam («Sono sopravvissuto
già una volta, sopravvivrò ancora») e persino Padre O’Malley che sarà Irlandese
come la Guinness ma siccome Gesù era ebreo, dovranno prendere anche lui. Cioè
avete capito no? Menahem Golan le mezze misure non le prende nemmeno in
considerazione, ma con una scena così, vista soffrendo da bambino (ma anche da
adulto o presunto tale), personalmente mi ha illustrato l’Olocausto usando il
cinema, prima di altri suoi colleghi più blasonati, come a dire idealmente a Steven
Spielberg: «Stevie fai il bravo, reggimi la birra un momento».

Il dramma della Shoah me lo ha spiegato Menahem Golan. Alcuni (troppi) non l’hanno ancora capito.

A questo punto Golan ci tiene tutti per la gola (basta
battute sul suo nome, giuro!), donne e bambini vengono scaricati a Beirut («Un
tempo era la Las Vegas del Medioriente» il paragone non è con Parigi, ma con
l’idea di ciita di lusso che potrebbero avere i contadinacci del Wyoming) e il suo film
di purissima propaganda filo americana diventa un affare da uomini. Qui il
cinema degli anni ’70 si ferma e comincia Chuck Norris!

“Bambina con il cappotto rosso di Schindler’s list, questo è per te”

Vorrei sottolineare che se i terroristi sono stati
tratteggiati da Lombroso e gli ebrei sono delle povere vittime, gli americani
non hanno nemmeno una caratterizzazione, sono Lee Marvin e Chuck Norris e tanto
basta perché non serve sapere altro. Per Golan rappresentano due quarti del Monte
Rushmore del cinema d’azione, Marvin poi è immobile, in quello che sarà
l’ultimo film della sua carriera (morirà di infarto nell’estate del 1987)
il grande Lee non ha bisogno davvero di fare niente, se non essere così tanto,
incredibilmente Lee Marvin. In questo senso l’immobile Chuck Norris non avrebbe
potuto avere un padrino migliore.

“Vado, lo esplodo e torno”

Anche se a ben guardare, il primo tentativo di salvataggio
americano si risolve con un mezzo pastrocchio: uno dei marinai a bordo viene
ucciso e lanciato giù dall’aereo e in tal senso “Delta Force” è accurato,
perché dopo un’ora abbondante di film, gli americani non hanno ancora combinato
nulla di buono, di fatto una perfetta rappresentazione della loro politica estera. Anche
se gli intenti di Golan sono altri, gli americani, per potersi esprimere in
tutta la loro gagliarda Yankeetudine, hanno bisogno di ancora un piccolissimo
aiuto, che poi coincide con il feticismo di Menahem Golan con i
mezzi militari. Gli Yankee possono scatenarsi solo dopo essere stati armati da Israele, capito lo schema no? Americani buoni, ebrei
buonissimi, mussulmani cattivissimi! Quindi con mitragliatori Uzi,
motociclette armate di missile (gli anni ’80 sono stati il decennio dei jeans a
vita alta e delle moto con i razzi) e Dune buggy nere, la Delta Force può
andare a scalciare culi e tirare giù nomi, il tutto rigorosamente con il
tonante tema musicale di Alan Silvestri in sottofondo. Si, è ora di chiudere
quell’icona rimasta aperta su di lui.

Una volta mi hanno chiesto di indicare il mio pezzo
preferito di alcuni compositori cinematografici, un giochino per passare il
tempo. Per quanto riguarda Alan Silvestri non ho avuto dubbi, pari merito
totale tra Ritorno al futuro e il tema principale di “Delta Force”
(storia vera). Se ci sono due temi musicali che io potrei ascoltare a
ripetizione senza stancarmi MAI sono proprio questi, anzi per quello di “Delta
Force” vi confesso (e questo vi dice molto dei miei problemi) che ancora oggi,
me lo canticchio da solo così, per puro diletto personale (storia vera, secondo
estratto).

“Guerra e sei il protagonista!” (cit.)

Il finale di “Delta Force”, anzi per la precisione tutta la
sua seconda ora, è pura pornografia militare. Una roba che a confronto Top Gun sembra un film etico e
perfettamente logico nel gestire le difficili dinamiche politiche tra nazioni. Se per
un’ora i cattivi hanno fatto il bello e il cattivo tempo, nella seconda ora
devono beccarsi una punizione esemplare: Chuck Norris scivola lungo una corda sparando
ventagliate di mitra, Lee Marvin spara un singolo colpo sì, ma al centro degli
occhi di uno dei cattivi più odiosi, esplosioni, calci volanti che saranno
anche la specialità di Norris, ma qui passano quasi in secondo piano in questa
orgia bellica in cui a sostituire il coro «U.S.A.! U.S.A.! U.S.A.!» (oppure
«America… FUCK YEAH!») ci pensa alla perfezione il tema di Alan Silvestri.

I cattivi non devono essere catturati, non devono morire in
azione, devono essere puniti e a questo ci pensa il capitano (poi maggiore)
Scott McCoy che in italiano parla (poco) con la voce di Peter Venkman o di John McClane in 58 minuti per morire, ma ha la barba di Chuck Norris, che sgomma,
inchioda, va a manetta, fa cagare sotto terroristi e governi, ma soprattutto spara razzi
rigorosamente MADE IN U.S.A. (anche se sono prodotti in Israele).

All’attacco G.I.Joe Delta Force, per difendere la pace / contro il cobra terrorista più vorace, alla tregua dite no! (quasi-cit.)

Avevo ancora un’ultima icona da chiudere: per una pura
casualità, le Dune buggy nere del film, ad esclusione del colore, sono
identiche allo Striker dei G.I.Joe, accidentalmente uno dei miei mezzi
preferiti del celebri soldatini della Hasbro. Questo non solo chiude il cerchio
sulla mia infanzia bellica, ma è la prova che i film, che siano Horror o
d’azione, hanno il potere di esorcizzare paure e in qualche caso, anche
ideologie guerrafondaie. Infatti pur essendo un film di pura e per certi versi
proprio sfacciata propaganda, per assurdo è stato proprio il film che mi ha
insegnato che la guerra andrebbe combattuta solo al cinema e le esplosioni sono
belle solo sul grande schermo. Ma poi tanto se la guerra a combatterla è Chuck
Norris, conoscete già il nome del vincitore.

Chi ha detto che il romanticismo è morto? (lo ha solo steso
Chuck Norris)

Siamo fatti di 215 ossa, da circa cinque litri di sangue,
alcuni metri di intestini e budella ma soprattutto dai film che abbiamo visto. Non credo nemmeno esisterebbe la Bara Volante senza i G.I.Joe e le ore passate
a guardare “Delta Force”, quindi grazie di tutto signor Golan, ed ora se volete
scusarmi, cavalco la Bara verso l’orizzonte canticchiando il tema di Alan
Silvestri, intanto voi non perdetevi il post Zinefilo e la locandina d’epoca di IPMP.

PARA PA-PARA PAAAAA! PA PA PAA PAA PAAAA PAA PAAA!

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