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Demoniaca (1992): l’uomo in nero fuggì nel deserto e Richard Stanley lo seguì

Se Richard Stanley non fosse già un regista, si meriterebbe comunque di essere protagonista di un film, perché la sua vita ha avuto più svolte di molte pellicole. Visto che il suo prossimo “Color out of space” in arrivo a breve, è già il mio film più atteso del 2020, mi sembra giusto colmare l’attesa trattando i suoi vecchi film, che sono pochi e tutti dalle produzioni tormentate.

Se dovessimo iniziare solo ad elencare la biografia di Stanley, ci sarebbe materiale per un libro, mettiamola così, il suo bisnonno era il celebre esploratore Sir Henry Morton Stanley, che pare ispirò Conrad per il personaggio di Kurtz in “Cuore di tenebra”. Così, giusto per iniziare con una cosetta di poco conto.

Il nostro Richard cresce e studia antropologia a Città del capo seguendo le orme materne, ma intanto sviluppa interesse per il folclore del Sudafrica abbuffandosi tra le altre cose, di parecchi libri sulla stregoneria. A guardarlo Stanley, ha un aspetto che lo fa assomigliare ad uno dei Fields of the Nephilim, gruppo a cui ha diretto più di un video musicale per altro (storia vera).

Richard Stanley ha una sola espressione, quella con il cappello (anche perché senza, non credo di averlo mai visto)

Il suo film d’esordio dopo una lunga gavetta in documentari e videoclip è quella bomba di Hardware, che mette subito in chiaro il talento di Stanley. Il suo occhio per il Cyberpunk (prima che questa parola diventasse di moda) gli permette di passare finalmente ad un soggetto che a Richard sta parecchio a cuore, quello di “Dust Devil”.

Secondo le affermazioni rilasciate dal regista nelle rare interviste, e le parti della frammentaria storia che ci è stata tramandata, il “Dust Devil” era una figura ricorrente nei sogni del piccolo Stanley, alimentata dalla sua passione per il folclore locale. Questo losco figuro in cappotto lungo e cappello da cowboy, compariva in sogno al futuro regista, sempre avvolto dalla polvere di una tempesta di sabbia, che in sudafricana viene definita proprio “Dust Devil”, il diavolo della sabbia. In Italia invece è quello che invochi quando la suddetta ti finisce nel costume da bagno.

Questi in Australia li chiamano “Dust Devil”, io lo chiamerei “Scappaaaaaaaaa!”.

Ora, la capacità di scomparire anche a tempo indeterminato di Stanley è pari solo al suo buon occhio per la regia, e da qui in poi la sua ossessione per i venti del deserto è sfociata quasi in paranoia, soprattutto quando Stanley è venuto a sapere della storia del serial killer che terrorizzava il distretto di Bethany, per molti una voce messa in giro dal regime sudafricano per terrorizzare la popolazione di colore di quelle zone, per Stanley il suo incubo divenuto realtà. Sta di fatto che il nostro, un bel periodo in Germania per sicurezza è andato a farselo, anche perché nel frattempo aveva anche disertato dall’esercito, ufficialmente per aperta polemica con le politiche razziste del Sudafrica (storia vera).

La ridente Bethany, popolazione: Sempre meno visto che si aggira un Serial Killer.

Tornato in Namibia solo anni dopo, in qualche modo quel demone Stanley doveva farselo scendere dalla spalla, nel 1984 con alcuni amici usati come attori, girò un cortometraggio in 16mm intitolato appunto “Dust Devil”, andato perduto perché la sua fidanzata di allora, decise di vedere la pellicola, dopo l’ennesima scomparsa di Stanley, sparito per mesi. Avete presente il “giro in giro” di Crocodile Dundee? Ecco, un dilettante a confronto di Richard Stanley.

Il successo di Hardware, benedetto anche dai produttori americani della Miramax, permette a Richard Stanley di provare a sconfiggere la sua ossessione trasformandola in un film dal budget dignitoso, visto che la Miramax ha messo sul tavolo un paio di milioni di fogli verdi, con sopra le facce di altrettanti presidenti defunti, ma poi ovviamente è tornata alla carica con delle pretese, che Stanley non voleva nemmeno stare a sentire, visto che per lui un film è più che semplice lavoro, è un’opera d’arte su cui vuole avere il pieno controllo, per garantire che la sua visione sia completa.

La Miramax voleva spostare le riprese dall’instabile e lontanissima Namibia al deserto americano, sostituendo i neri del Sudafrica con i nativi americani. Stanley masticando bile mise le corna a terra, convincendo tutti a restare in Namibia, malgrado le difficoltà logistiche, derivate dal dover spostare tutta la troupe per diversi chilometri, mattina e sera, con le temperature non proprio primaverili africane, ad aggiungersi alle tempeste di sabbia, in grado di fischiare a centinaia di chilometri all’ora, costantemente, anche per giorni.

Non sono un meccanico, ma potrebbe essere entrata un po’ di sporcizia nel carburatore, così, ad occhio e croce.

Ma oltre alle difficoltà logistiche, vuoi non metterci dentro qualche dissidio di natura artistica? Stanley voleva nuovamente come protagonista Stacey Travis con cui aveva già lavorato in Hardware, ma dovendo concedere qualcosa ai produttori accettò di avere Chelsea Field nella parte. Inoltre i produttori ammucchiavano richieste strampalate, illuminati dal successo del capolavoro di Jonathan Demme, facevano arrivare in africa messaggi del tipo: «Stan! Amico mio! Il tuo film ha un serial-killer no? Ecco allora cerca di farlo più simile a “Il silenzio degli innocenti” che puoi ok? Grande! Mitico!» salvo poi buttare giù la cornetta pensando «’sto cojone, ci sta facendo spendere un sacco di soldi». Cioè, io almeno li immagino così, e magari non mi sbaglio di molto.

Richard Stanley in tutto questo, non solo doveva gestire cast, troupe e tempeste di sabbia, ma anche cercare di completare la sua visione artistica, un desiderio che non accetta compromessi di nessun tipo, proprio lui, un regista che reagisce rilassato alle pressioni esterne più o meno come un tabagista accanito, chiuso in ascensore da due ore senza accendino.

«Dare un passaggio ad uno sconosciuto, tanti film iniziano così», «Si ma questo è un horror non un orno»

Al momento di massima tensione tra la casa di produzione e il regista, Stanley venne costretto a firmare un documento che proibiva al regista ogni eventuale blocco dell’uscita del film, ma anche la possibilità di togliere il suo nome dai crediti del film. Ritorsione in caso di mancata firma? Il blocco immediato dei finanziamenti e il limbo produttivo per la sua pellicola (storia vera). Il nostro Richard come potete immaginare, non la prese proprio benissimo, ma alla fine su consiglio del suo avvocato decise comunque di firmare. Solo che per protesta, lo fece usando il suo stesso sangue, dopo essersi ferito apposta ad una mano (storia vera). Quando si dice metterci il sangue per la propria arte.

Chissà cosa potrebbe fare Stanley se mai qualcuno gli chiedesse un autografo.

Nel Dicembre del 1991 Stanley consegna ai produttori della Palace la sua copia del film priva degli effetti speciali, ancora in lavorazione durante la post produzione, durata 120 minuti. La Palace organizza la solita proiezione di prova e indovinate? Il pubblico non ci capisce niente e la casa di produzione sforbiciata parti per cercar di rendere il film una storia di serial killer un minimo più convenzionale della durata di 87 minuti. La Miramax farà una versione della pellicola, perché nel frattempo la Palace è andata in fallimento, lasciando i diritti del film nelle mani della casa di produzione dei famigerati fratelli Weinstein. Questa versione breve ha fatto il giro anche di qualche cinema europeo con il titolo di “Demoniaca”, che poi è una mezza frase presa da uno dei dialoghi, un po’ come accaduto qui da noi in uno strambo Paese a forma di scarpa, per il romanzo di Stephen King “The Stand”, tradotto (si fa per dire) con il titolo di “L’ombra dello scorpione”, eh vabbè fantasia al potere!

Il folclore locale secondo Richard Stanley.

Solo tempo dopo Stanley riuscì (pagando di tasca sua) ad acquisire dalla Miramax i diritti sul film, e con l’aiuto della Polygram anche a reintegrare una parte del girato tagliato rimasto disponibile, dando forma ad una “Final cut” della durata di 105 minuti, uscita solamente in DVD.

Le influenze cinematografiche che Stanley ha voluto inserire in “Dust Devil” sono echi quasi western, per stessa ammissione del regista i suoi modelli di riferimento sono stati “El Topo” (1970) di Alejandro Jodorowsky e C’era una volta il West di Sergio Leone, non proprio la pizza con i fichi ecco.

Che dite? Abbiamo trovato il regista giusto per Roland di Gilead?

Infatti la scena iniziale di “Dust Devil” è una bomba, in un deserto reso rosso fuoco dalla fotografia, si aggira una sorta di pistolero senza nome, sotto un cappello a tesa larga e avvolto in un pastrano. Ecco, se prima ho citato Stephen King è anche perché per lunghi tratti questo film si avvicina parecchio alla mia idea di un film su Roland di Gilead della saga della Torre Nera. Un film vero! Non quella porcheria che hanno cacciato fuori qualche anno fa.

“Dust Devil” mescola folclore locale e simbolismo, simbolismo di ogni tipo a ben guardare, perché proprio come Jodorowsky, Richard Stanley ha riempito la storia e i suoi personaggi di significati esoterici, non per forza solamente rituali, nella cittadina di Bethanie il proiezionista del cinema locale viene paragonato ad uno sciamano, e non credo sia un caso se una delle scene più riuscite del film, sia uno scontro tra il misterioso diavolo delle sabbie con il suo aspetto da cowboy post-atomico, e la bella Chelsea Field, che avviene dentro ad un cinema con le poltrone quasi interamente ricoperte di sabbia.

«Niente male, ti darei un tre sulla mia scala digitale» (quasi-cit.)

Questo film passa attraverso momenti horror abbastanza canonici, come la trasformazione in mostro di uno dei personaggi, fino ad arrivare a punte anche abbastanza lisergiche, se dovessi dirvi che tutti i passaggi della storia risultano chiari e limpidi dovrei mentirvi, perché “Dust Devil” è una sorta di vecchio poema portato sul grande schermo in cui, non è detto che tutto debba essere per forza chiaramente comprensibile per apprezzarne il risultato finale. Anche perché con una storia produttiva di questo tipo, già il fatto che il film esista è quasi un trionfo.

Note psichedeliche d’ambiente (Cit.)

La parte più riuscita è il finale, in un film che fa pensare più volte alla letteratura di Stephen King, la conclusione sembra presa da una delle massime preferite del Re: l’inferno è ripetizione. Sarà anche stato un film pretenzioso in cui un regista con mire artistiche ha dovuto fare i conti con una produzione interessata più che ai colori della fotografia, al verde dei dollari, ma “Dust Devil” resta la prova di un talento disallineato e fuori dal sistema come quello di Richard Stanley.

Ma se pensate che la produzione di questo film sia stata un casino, aspettare di scoprire cosa è capitato con quello successivo, nell’attesa di “Color out of space”, andiamo a farci un giro nell’isola del dottor Moreau. Prossimamente su queste Bare!

Sepolto in precedenza venerdì 10 gennaio 2020

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