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Detroit (2017): Panic in Detroit

Certo che, però,
non è mica giusto così, cioè io non ho mai nascosto di avere una cotta
(artisticamente parlando) per Kathryn Bigelow e da parte sua Katrina potrebbe
ogni tanto ridimensionare le mie ambizioni facendo che so, un bel film di
merda, sai proprio una di quelle porcherie che ti spegne ogni velleità tipo
secchiata di acqua gelata, no, lei cosa fa? Fa “Detroit”.

Da “The hurt
locker” (2008) Kathryn Bigelow ha iniziato una collaborazione con lo
sceneggiatore Mark Boal, se aggiungiamo anche il fighissimo “Zero Dark Thirty”
(2012) siamo di fronte ad una specie di ideale trilogia, perché si sa che è al
cinema che gli Americani elaborano i casini che fanno in giro per il mondo, o
come in questo film, sul fronte interno, quello della città di Detroit.

Diciamolo subito:
“Detroit” ha un inseguimento a piedi tra sbirri e criminali, ma non ha certo il
ritmo di capolavori come Point Break. Anche la durata lo rende un cuginetto di “Zero Dark Thirty”, ma la costante per
Katrina è sempre la stessa: girare alla grande dei film western che siano
popolati di vampiri come in “Il buio si avvicina” (1987), oppure dei duelli
come “Blue Steel” e il già citato Point Break, ma sempre di western si tratta e nemmeno in “Detroit” la nostra
perde questa ottima abitudine.



“Legate i cavalli all’abbeveratoio, tra cinque minuti cominciamo a girare”.

Possiamo far
finta di aver già fatto tutta la tediosa (anzi proprio pallosa) premessa sulla
faccenda che ho sempre trovato assurda “Kathryn Bigelow dirige come uno uomo”?
Possiamo passare oltre alla parte in cui vi spiego perché mi suona come una
sonora cazzata e tento d’illustrarvi che per quanto mi riguarda la Bigelow
gira da Dio e basta? Ecco, facciamo così. Fatto! Passiamo alla parte che mi
preme di più, guardando “Detroit” oltre al fatto che a tratti sembra un
western, anche al dettaglio che se lo avesse diretto Clint Eastwood
probabilmente avrebbe preso molte più lodi di così.

Sì, perché a
livello di presa di posizione, Katrina fa una mossa degna del vecchio Clint e
come accade molto spesso con i film schierati, non è detto che tutto debba
essere perfetto, ma la Bigelow con la sua regia colma tante lacune e ci
restituisce un film, più moderno che mai, anche se parla di fatti avvenuti
nella città del Michigan tra il 23 e il 27 Luglio del 1967.

Come in un pezzo degli anni ’60: We almost lost detroit.

“Detroit” è
palesemente diviso in tre atti. La prima parte è quella che dopo dei titoli di
testa disegnati che tentano di alleggerire un tema bello tosto, ci porta nel
mezzo di una città dove le tensioni raziali sono al massimo livello, durante un’estate calda che sta per diventare bollente, visto che tra neri e bianchi
basta davvero solo un pretesto per scatenare l’incendio.

Mescolando
saggiamente il girato in stile quasi documentaristico, con vere immagini di repertorio,
Kathryn Bigelow si prende una storia che lo Spike Lee dei tempi d’oro avrebbe
dato via due dita di una mano per poter dirigere, prendendosi tutto il tempo
necessario per presentare tutti i personaggi di questa vicenda. S’inizia
dalla guardia giurata John Boyega che in questo film mi ha ricordato tanto perché
dopo averlo visto in quella bombetta di “Attack the block” (2011) mi è venuto
istintivo pensare fosse il figlio inglese di Denzel Washington ed è proprio qui, guarda caso, quando il suo quartiere è di nuovo sotto attacco, che
John sforna un’altra prova d’attore, fatta tutta di sentimenti espressi solo
con lo sguardo davvero alla Denzel Washington.

Il frutto di quella vacanza in Inghilterra fatta da Denzel 25 anni fa.

Tra le facce che
si caricano in spalla il film, sicuramente vanno menzionate le sopracciglia
alla Jack Nicholson 2.0 di Will Poulter (visto in Revenant), nei panni del giovane sbirro razzista con la mano
parecchio pesante e i modi altrettanto gentili. Gli ultimi pezzi da mettere
sulla scacchiera (non a caso, bianchi e neri? Cavolo ho azzeccato una metafora
senza volerlo!) sono il gruppo soul “The Dramatics” in attività dal 1964 e che
negli scontri di Detroit hanno perso uno dei loro componenti più validi, in un
modo che il film si prenderà il suo tempo per raccontarci, quindi non
lamentatevi non è uno Spoiler!

Con buona pace del movimento Black lives matter…

Nel secondo atto,
invece, il film entra davvero nel vivo, per assurdo con un’intera città in
rivolta, Kathryn Bigelow e Mark Boal portano la storia nel vivo con quello che
di fatto è un assedio, i poliziotti bianchi incazzati ed esasperati se la
prendono con alcuni ragazzi capitanati da Falcon (Anthony Mackie) che hanno la
sfiga di trovarsi nel posto sbagliato, al momento sbagliato e con il colore di
pelle sbagliatissimo.

“Non avrei tanto voluto avere le ali come in questo momento”.

Quello che fa
saltare definitivamente il coperchio della pentola dell’intolleranza da troppo
tempo sul fuoco è il fatto che questi ragazzi vengano beccati in compagnia di due
signorine bianche di cui una è Hannah Murray la Gilly di Giocotrono e a nulla vale barricarsi dietro al «Non stavamo
facendo niente» perché a quel punto gli sbirri non sentono più ragioni, il
tutto mentre Spike Lee si fa venire un attacco di bruxismo peggiore di quello
che ha avuto davanti al record della scorsa stagione dei suoi New York Knicks.

Qui davvero
sembra di stare guardando un western d’assedio, con Will Poulter a capo dei
cowboy e i ragazzi neri in quelli degli Indiani maltrattati, la lunga scena di
abuso di potere si prende parecchi minuti, però ti lascia
incollato allo schermo, finché l’irreparabile non accade sul serio e quella che
doveva essere una lezione a quei bastardi troppo “Abbronzati” (mi gioco la
citazione) diventa un gran casino per tutti.


Con una faccia così caro ragazzo, avrai ruoli da cattivo finchè campi!

Kathryn Bigelow
ci porta nel vivo dell’azione, anzi, nel vivo della tensione, perché la
situazione in sé è statica, ma la regia estremamente dinamica, ad un certo punto
ho perso il conto sulla varietà di inquadrature che Katrina si gioca, fino all’ultimo
atto, quello dove davvero la nostra getta la maschera.

Sì, perché “Detroit”
è un film schierato, senza troppe sfumature, quasi manicheo nel suo rappresentare
i cattivoni bianchi e i ragazzi neri, le eccezioni sono davvero poche e Kathryn
Bigelow su questo dualismo facile facile, tira su un film diretto alla grande,
arma a doppio taglio, perché rischia di prendersi più insulti o cori di
“Bravò! Bravò!” a seconda di quali delle due cose il pubblico noterà di più.
Con il rischio
che a perdersi sarà la “Mossa Kansas City” con cui Kathryn Bigelow prende
personaggi reali e un evento drammatico e riporta in auge una pagina della
storia americana che oggi pare più odierna che mai, definirlo un film
anti-Trump è una mossa fin troppo facile che lascio volentieri a chi vuol il
titolo ad effetto a tutti i costi, da parte mia sono più interessato a
sottolineare la coerenza di Kathryn Bigelow.


Come parresentare un tipo di patriottismo americano che mi piace.

Sarebbe
fin troppo facile buttarla in caciara, la più famosa regista donna
probabilmente del pianeta che si schiera contro Mr. “Grab them by the pussy”,
ma preferisco sottolineare come con il terzo film in fila, Kathryn
Bigelow utilizzi il cinema per riflettere sul suo Paese, non posso dire di
essermi proprio divertito per tutta la durata del film, il minutaggio forse è
fin troppo abbondante, però “Detroit” è un film estremamente etico, fatto con
il piglio di chi sotto ha due palle che fumano, avercene di registi come Kathryn
Bigelow, avercene a coppie!

He laughed at accidental sirens that broke the evening gloom
The police had warned of repercussions, they followed none too soon
A trickle of strangers were all that were left alive

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