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Die Hard 3 – Duri a morire (1995): chi ha detto che l’estate in città è noiosa?

Il terzo capitolo di una saga cinematografica famosa non è mai un affare semplice da gestire, ci sono ben pochi film capaci di spazzare via ogni dubbio, lasciando una sola certezza al pubblico, quella di essere davanti ad un film clamoroso. Un capolavoro così grosso che richiede ben due rubriche per essere omaggiato a dovere, quindi benvenuti alla DOPPIA Rubrica congiunta… John McTiernan had a gun Vs MUORI DURO!

Vi ho già raccontato di come sia cresciuto guardando a ripetizione Trappola di cristallo e 58 minuti per morire, ma nel 1995 il mio cuoricino undicenne ebbe un clamoroso sussulto, passando davanti alla locandina del terzo capitolo della saga in programma nel mio cinemino parrocchiale di provincia. Ancora oggi, ricordo quel pomeriggio al cinema di ventuno anni fa (mi sembra ieri) come una delle giornate più divertenti della mia vita di cinefilo, il giorno in cui ho fatto la conoscenza di uno dei miei Classidy preferiti di sempre!

Ma prima di arrivare al vostro amichevole Cassidy di quartiere in sala, parliamo del principale artefice di questo capolavoro. John McTiernan dopo il clamoroso (e ingiusto) flop al botteghino di Last Action Hero  era alla ricerca di un nuovo titolo, ma gli venivano proposte solo robe tipo “Batman Forever” (storia vera), eppure un seguito era nel destino di McTiernan che sette anni dopo torna a dirigere il suo personaggio più famoso: John McClane.

«Tocca di nuovo a me? Non potete chiamare Schwarzenegger per una volta?»

La leggenda vuole che tra le persone contattate per scrivere una sceneggiatura di questo terzo capitolo ci fosse anche il grande John Milius, forte dell’esperienza di Caccia ad Ottobre Rosso, purtroppo non si sa nulla del contenuto della sua sceneggiatura, se non che è stata rifiutata, non so con quale fegato, perché al solo pensiero di un “Die Hard” Miliusiano, potrei sbavare come i cani di Pavlov.

Tra le proposte bocciate anche quella definita da McTiernan come “the one on the boat”, considerata troppo simile a “Trappola in alto mare” (1992) e successivamente riciclata per “Speed 2” (1997). La soluzione si chiama “Simon says” una sceneggiatura originariamente pensata per essere il quarto capitolo di “Arma Letale” (ma con una ragazza al posto di Zeus) che il suo autore Jonathan Hensleigh ha prontamente riscritto adattandola a John McClane.

Fun fact: La maggiore difficoltà di girare a NY per McTiernan? Le signorine appese alle finestre per veder Bruce Willis.

Come ha fatto uno che fino a quel momento aveva scritto solo alcuni episodi per la serie tv “Le avventure del giovane Indiana Jones” a battere la concorrenza di un genio come Milius? Forse seguendo il vecchio adagio, scrivi di quello che conosci, basta dire che dalla finestra della cucina di casa sua a New York, Hensleigh poteva vedere alcuni dei posti dove il film è stato girato (storia vera) e che la scena in cui McClane guida attraverso Central Park (“Non ho detto park drive, ho detto attraverso il parco!”) era una fantasia da New Yorkese incastrato nel traffico. Anche perché, parliamoci chiaro, la sceneggiatura di “Die Hard with a Vengeance” è una bomba, un apice che Jonathan Hensleigh non ha mai più raggiunto, nemmeno dietro la macchina da presa.

Ecco, visto che ho usato l’espressione “Una bomba”, argomento piuttosto caldo in questo film, sapete cosa faccio ogni volta che me lo riguardo? Quando compare la scritta “Die Hard with a Vengeance” inizio a contare alla rovescia partendo da quarantadue, sembro pazzo (anche più del solito), ma è proprio il tempo che intercorre tra l’inizio del film e la prima esplosione della pellicola, sto ancora aspettando di vedere un film in grado di scendere sotto questo record olimpico!

Sapete come lo chiamo io questo? Un buon inizio.

I film che di solito cominciano con una grandiosa scena d’azione, raramente riescono a mantenere alto il livello per il resto del film (sto pensando a certe scene d’apertura di alcuni 007, ad esempio), ecco, cancellate dalla mente questo concetto, qui McTiernan non solo inizia a cannone, ma pare non rallentare mai! I 131 minuti (tantini per un Action) di “Die Hard – Duri a morire” scorrono via con una facilità irrisoria. Quello che trovo straordinario ogni volta che vado a rivedermi il film (cosa che faccio spesso), è che a metà, insieme a John e Zeus siamo già passati indenni attraverso cinque o sei scene che in qualunque altra pellicola sarebbero il climax assoluto, qui, invece, ne abbiamo altrettante ancora da vedere. La mia sensazione è sempre la stessa: «Ah! Adesso c’è la scena della diga! Oh oh, la sparatoria con inseguimento in auto!». E via così, fino alla fine, ogni volta che guardo “Die Hard with a Vengeance” mi si stampa un sorrisone felice sul volto, per tutta la durata del film, ad ogni visione, dalla prima di 21 anni fa, fino all’ultima (ma solo in ordine di tempo) dell’altro ieri. Quanti altri film conoscete in grado di farvi questo effetto?

Un mercoledì da McClane.

La cosa mi fu subito chiara fin da quella prima visione in sala, era uno spettacolo pomeridiano, in sala saremo stati in tre, di cui uno LUI, il famigerato parroco del paese, per darvi un’idea, pensate alla Pinguina dei Blues Brothers, ma uomo. Non che su di me avesse chissà che influenza, siccome in vita mia ho saltato più di una funzione domenicale (modo gentile di dire che sono un eretico), avevo modo d’incrociare sua eminenza solo al cinema, in cui copriva un po’ tutti i ruoli, staccava i biglietti, ma, soprattutto, armato di torcia elettrica maxi, una specie di Bat-Segnale portatile abbagliava tutti quelli intenti a fare casino in sala. Mai avuto problema in tal senso, quando guardo un film guardo un film, non faccio altro, ma sulla prima esplosione di “Die Hard – Duri a morire” mi viene naturale un «Oh cacchio!», con cui mi guadagno il primo Shhhhh con relativa retro illuminazione sulla nuca dal fondo della sala.

Il film mi prende così tanto che vado completamente in trance cinematografica, per la prima volta davanti ai miei occhi scorreva quello che ancora oggi è uno dei miei film del cuore, l’entusiasmo è lo stesso di quando guardavo Trappola di cristallo nei miei pomeriggi a casa, ma alimentato dal grande schermo e dalla novità per la nuova impresa di John McClane, faccio un tifo senza precedenti, mi spancio per gli scambi di battute tra John e il mio nuovo mito Zeus (che conosco da un minuto e ho già mitizzato), a cadenza periodica mi becco uno “Shhhhhhh!” sempre più lungo e stizzito, mentre il faro del Bat-Segnale si avvicina sempre più riducendo il numero di file di poltroncine tra lui e me.

La maschera del cinema sfoggiava lo stesso cartello.

L’apice dello scontro nello scontro è la scena dell’inversione ad “U” in autostrada con sparatoria allegata («Stacca i fusibili dell’ABS», «Ok, quali sono?» , «E tu staccali tutti!»), io esplodo in un estasiato «Oh porcaccia miseria!» vedendo la scena, a quel punto ho il parroco seduto dietro di me, la torcia ad una spanna dalla faccia, intento ad ringhiarmi SHHHHHHHH!!!! nelle orecchie, con le vene del collo tese come i tiranti lungo cui si arrampicano John e Zeus per raggiungere la nave in mezzo alla baia. Il momento in cui la Chiesa Cattolica mi ha dichiarato ufficialmente un caso disperato, credo che abbiano intinto la mia poltroncina nell’acqua santa quando ho lasciato la sala a fine film.

Il momento esatto in cui la mia fede per il cinema ha vinto su tutto.

Per la prima volta John McClane gioca in casa nella sua New York, assoluta protagonista del film, certo alcune cose sono cambiate, ad esempio non è più Natale, come sottolineano i (quarantadue secondi) della canzone “Summer in the City” dei Lovin’ Spoonful che apre il film. Ma pur infrangendo lo schema di 58 minuti per morire, questo terzo capitolo ha parecchi punti di contatto con il primo film: il regista è lo stesso, McClane e sua moglie Holly sono nuovamente ai ferri corti, la spalla del protagonista è di nuovo un uomo di colore (anche se molto meno pacioso di Powell) e anche il cattivo e il suo piano in qualche modo sono delle vecchie conoscenze. McTiernan alza la posta in gioco, solo sette anni dopo aver dato vita all’action moderno con Trappola di cristallo, è già pronto a mettere la parola definitiva sul genere da lui stesso creato. Non è un caso se ancora oggi questo film viene ricordato come l’ultimo davvero bello della saga di “Die Hard” e anche un apice del genere action con poliziotti.

«Aspetta un attimo, la maratona di New York non si corre a Novembre?»

La trama sottolinea l’unicità di un film che oggi, nel nostro mondo con troppe bombe (purtroppo vere) nessuno produrrebbe, un pazzo fa esplodere un grande magazzino e pretende che John McClane (il solito enorme Bruce Willis), abbandoni la sua sbornia e la sua sospensione e torni immediatamente in servizio, in programma per lui ci sono una serie di prove folli da superare, per evitare un’altra clamorosa esplosione in una scuola, al suo fianco la spalla dell’eroe controvoglia per eccellenza, Zeus Carver (Samuel L. Jackson più Samuel L. Jackson che mai!), che impedisce che uno sbirro bianco venga ucciso da Harlem, dove, se oggi muore un poliziotto, domani ne arrivano altri mille, tutti bianchi, incazzati e col dito già sul grillet… Ok, basta la smetto.

Forza! Trovatemi un altro che fa queste facce prima di sparare a qualcuno, dai!

Ma non c’è davvero nulla di politico dietro alle azioni del terrorista che si fa chiamare “Simon” come in un vecchio giochino (Simon ordina), in realtà è una bella vendetta come esplicitato dal titolo originale del film che, qui da noi, in uno strambo Paese a forma di scarpa, diventa il ridondante “Die Hard – Duri a morire”, è il terzo film della saga, ma il primo ad uscire con il titolo di “Die Hard”, un trucco per confondere le idee degno di Simon, bravi, no no, bravi sul serio.

Nei panni di Simon, il fratello maggiore di Hans Gruber, ucciso da McClane nel primo film, troviamo un magnifico Jeremy Irons, con una capigliatura che alcuni critici all’epoca arrivarono a definire “da crisi di mezz’età”. Geremia Ferroso entra in scena per la prima volta soltanto al minuto 46 del film («Amo, filo e piombo») e malgrado ai tempi fosse nato due anni dopo Alan Rickman manda a segno un’altra grande prova, che non fa certo rimpiangere il primo candidato che McTiernan avrebbe voluto nei panni di Simon, Sean Connery che, però, declinò l’offerta perché non voleva interpretare un personaggio tanto diabolico. M’immagino la gioia di McTiernan: «Oh, io ti ho seguito nella giungla mentre giocavi al dottore e tu mi molli ora che ti voglio portare a New York?»

«Sono il fratello cattivo. No, non Beverly. No nemmeno Elliot»

Per la parte di Zeus, invece, il primo ad essere contattato fu Laurence Fishburne che ci pensò un po’ su e una volta convinto si sentì rispondere: Ciccia, abbiamo già dato la parte a Sam Jackson, ciaone! In tutta risposta Jackson si è preparato, per la parte ha dichiarato di essersi ispirato a Malcolm X, anche se vista la montatura degli occhiali e l’ambientazione New Yorkese sembra una specie di Spike Lee sceso con il piede sbagliato dal letto, uno dei pochi nella storia del cinema che ci ricorda che anche gli uomini di colore possono essere sinceramente incazzati con i bianchi. In questo senso è l’anti-Al Powell, non ha nulla in comune con McClane, eppure interviene a salvargli la pelle lo stesso dalla gang di strada, mettendo a repentaglio se stesso e l’incolumità del suo negozio («Hai idea di cosa stanno facendo quelli ora nel mio negozio!?»).

Il prototipo dell’eroe contro la sua stessa volontà.

Il che fa anche ragionare sull’etica morale del personaggio, ma anche del totale disinteresse con cui affronta tutto quello che gli capita durante il film, altrimenti non mi spiego la determinazione che tira fuori quando nella stazione il (terrorizzato) poliziotto gli punta la pistola intimandogli di mettere giù il telefono, o come decida di affrontare Simon da solo, senza conoscere il funzionamento della sicura di un’arma. Zeus fa la cosa giusta (di nuovo Spike Lee…), salva la città e probabilmente il giorno dopo, dopo essersi fanno un sonno e aver curato le ferite riportate, troverà comunque il suo negozio devastato.

Allo stesso modo McClane è uno straccio, inizia il film con il mal di testa e quando finalmente riesce a trovare un’aspirina, deve correre in Canada per beccare Simon, di questa lunga giornata, porterà a casa solo lividi, un’amicizia con un negoziante di Harlem e se se la gioca bene, magari, la possibilità di fare pace con Holly al telefono.

«Come abbiamo fatto ad uscire vivi da Pulp Fiction per poi finire così?»

Sono due eroi al crepuscolo che prendono un sacco di botte e si rialzano sempre in piedi, sanno solo vendere cara la pelle e snocciolare battute memorabili («Bravo fa rima» oppure «É la neuro ti ricoverano»), se trovate due personaggi più meritevoli del vostro tifo cinefilo, fatemelo sapere grazie.

Il vivavoce sul telefono, come la intendevamo nel 1995.

Se Walter Hill ha preso ispirazione dall’Anabasi di Senofonte per i suoi Guerrieri della notte, anche loro di New York (Coney Island), John McTiernan conclude il discorso sull’eroe d’azione moderno iniziato con Last Action Hero, utilizzando New York come una moderna Grecia e McClane come un eroe epico di stampo classico, intento a superare prove fisiche (correre per chilometri a piedi fino a Wall Street), di coraggio, tipo la sortita ad Harlem vestito da uomo Sandwich razzista (il cartello era bianco per non offendere gli abitanti, la scritta è stata aggiunta in computer grafica. Storia vera!). Ma anche d’intelligenza… Sì, sto parlando delle maledette tanichette, non avete idee di quante volte ho rivisto il film solo per capire come risolvere l’enigma. Vabbè, me lo sono rivisto tante volte non solo per quello, lo confesso!

Una volta mi sono anche esercitato con le tanichette (storia vera).

In fondo, non c’è molta differenza tra un Giasone, un Ercole e il John McClane di questo film, anche lui ha uno Zeus al suo fianco, solo che invece di lanciare fulmini dal monte Olimpo, fa l’elettricista ad Harlem, ma il risultato è lo stesso: meglio non farlo incazzare se non vuoi che un fulmine ti bruci i testicoli (Cit.)

La letteratura greca insegna che non bisogna fare adirare Zeus.

Visto che non riesco quasi più a trattenermi dal trasformare questo commento in una trascrizione parola per parola dei dialoghi, inutile che aggiunga che ho una venerazione per gli scambi di battute di “Die Hard with a Vengeance”, vista l’ambientazione New Yorkese, le battute, le gag e le freddure, sono talmente ispirate che a tratti sembra di guardare un film di Woody Allen in cui ogni dieci secondi la gente si spara e qualcosa esplode!

«Giuro che la prossima volta chiamo Uber!»

Il tono è molto più ironico rispetto a quello dei due film precedenti, ma chiunque non si diverta guardando un film del genere, deve avere il cervello incrostato di fuliggine, come direbbe Zeus, il numero di frasi uscite da questo film ed entrate dritte sparate nel mio linguaggio quotidiano. Nemmeno le conto più, vi basti sapere che i miei amici, istruiti dal sottoscritto, per anni invece di chiedermi «Che ora è?» mi gridavano «Tempo!» come fa McClane con Zeus mentre è impegnato alla guida e questo dovrebbe dirvi parecchio dei miei problemi (mentali), ma anche di che razza di film sia questo.

Il dramma della lavatrice rotta.

Era dai tempi di 1997 Fuga da New York (scusate se è poco!) che nessuno rendeva la Grande Mela protagonista di un film al fulmicotone in cui il tempo è così centrale, la qualità generale si vede dalla cura dei dettagli, la trovata del «Chi è stato il 21° presidente?!?» (Chester Arthur, grazie al film ora lo sanno tutti) e della trasferta allo Yankee Stadium, in un film meno curato sarebbe stato una sotto trama dimenticata, qui, invece, i piccoli dettagli contano e anche molto! Come i numeri di matricola sui distintivi, con cui McClane riconosce i finti poliziotti, ma anche il fatto che uno di loro (Tedesco di origini), parli dell’ascensore chiamando “Lift”, invece che “Elevator”, come consuetudine dell’inglese americano, un dettaglio di qualità prima di quella che in un’ipotetica classifica delle “Migliori scene in ascensore della storia del cinema” si meriterebbe una posizione bella alta!

«Avresti fatto meglio ad usare le scale ciccio»

In tutto questo, Bruce Willis ritocca ulteriormente l’iconografia di se stesso e del suo personaggio più celebre, qui riesce ad essere anche più stropicciato di Joe Hallenbeck ne L’ultimo Boyscout e, malgrado l’estate Indiana e il caldo di New York, non rinuncia a fare battute a sfondo Natalizio («They said he was a jolly old fat guy with a little red nose and a snowy white beard. I’m surprised you haven’t seen him»). Se in Hudson Hawk non riusciva a bersi un cappuccino in santa pace, qui non riesce a trovare un’aspirina. Il numero esagerato di battute sottolineano la faccia da culo del personaggio, ancora oggi, non esiste una frase migliore di «Una vera cazzata, daccene uno più difficile un’altra volta» per fingere sicurezza.

L’apice assoluto è il finale che sembra quasi auto celebrativo, McClane come in Trappola di Cristallo, resta di nuovo con solo due pallottole che dovrà usare per stendere un Gruber, il doppiaggio italiano traduce letteralmente il mitico «Yippe ki-Yay motherfucker» in «Yippy ya-ye figlio di puttana», non si offenda la Signora Gruber, ma con due figli del genere è normale che McClane abbia qualche sasso nella scarpa da togliersi.

Gruber diverso, ma stessa esaltante dedica finale.

Accompagnati dalla marcetta militare “When Johnny comes Marching Home” che fa da tema musicale al film, si arriva ogni volta alla scritta “Directed by John McTiernan” in una sola esaltante volata, sfatti come McClane, con il sorriso da tempia a tempia, consapevoli di aver appena visto (o rivisto, o ri-ri-visto) un altro capolavoro del cinema, uno di quelli destinato a restare tale nel tempo e che non mi stancherò mai di vedere facendo il tifo, imprecando «Oh cacchio!» davanti alle esplosioni, ripetendo le battute a memoria e ridendo come uno scemo, con buona pace di quel parroco di provincia, non esiste torcia elettrica abbastanza grande per distrarre gli innamorati al cinema.

«Ma allora chi è andato nelle Ardenne!»
«Lo stronzone, solo lui»
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