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Distretto 13 – Le brigate della morte (1976): un Western nato fuori tempo

Ricordo tempo fa di aver visto un’intervista, in cui il giornalista di turno chiedeva a Debra Hill, storica collaboratrice (e non solo) di John Carpenter, qualcosa riguardo a “Distretto 13”. La Hill esordì dicendo  che “Distretto 13” è un omaggio al film di Howard Hawks, a quel punto Carpenter, seduto, o per meglio dire sdraiato sulla sedia accanto a lei, appeso come al solito ad una fidata sigaretta la interrompe dicendo: «Debra, tutti i miei film sono un omaggio ad Howard Hawks.» Benvenuti ad una nuova puntata di Giovanni Carpentiere’s – The Maestro!

Non lo scoprite certo da me oggi che questo film è un capolavoro assoluto che chiunque voglia cimentarsi nella vita a dirigere un film d’assedio (ma non solo) dovrebbe imparare a memoria. Uno di quei film che ridendo o scherzando almeno una volta l’anno vado a rivedermi, e che se dipendesse da me, manderei in onda a reti unificate a fine anno al posto del messaggio del Presidente («Il presidente di che?»). In ogni caso, per le ragione che proverò a spiegarvi qui sotto e per il peso specifico di questa pellicola, ci troviamo di fronte ad un Classido, solo il primo della carriera di Giovanni.

Anche se distribuito in ben poche sale, Dark Star è stato un discreto successo, accolto bene dalla critica e apprezzato dal (poco) pubblico che ha avuto la possibilità di vederlo, malgrado tutto, Giovanni faticava a trovare finanziamenti per produrre nuovi film… Parlando di Carpenter mi sentirete ripetere questa frase un numero esagerato di volte, ve lo dico così vi mettere l’anima in pace. In questo periodo, però il Giovanni non si scoraggia e sforna un ragguardevole numero di sceneggiature, si dice addirittura quattordici in quattro anni, alcune di queste sono diventati film diretti da altri (tranquilli, ne parleremo…), altre sono rimaste in un cassetto, ma la fissazione principale è quella di fare un Western.
Cresciuto a pane e film Western come tanti di noi, Giovanni vede Howard Hawks come l’esempio da seguire su come si fanno i film, con il mitico regista di robe da nulla tipo “Acque del Sud” e “Il grande sonno”, condivide non solo al sensibilità artistica, ma anche il piglio risoluto con cui gestire attori e set cinematografici (probabilmente anche il tabagismo congenito visto che era impossibile separare Hawks dai suoi sigari).
A furia di bussare a tutte le porte, alla fine Carpenter ottiene la fiducia di un gruppo di finanziatori indipendenti di Philadelphia che gli danno carta bianca, ma mettono subito le cose in chiaro: qui ci sono centomila dollaroni verdi con sopra tanti ritratti di ex presidenti passati a miglior vita, ma non un centesimo di più perché abbiamo già svuotato i salvadanai. Carpenter non ha dubbi e come farà per tutta la sua carriera caverà sangue dai centesimi, dimostrando di essere un regista capace di lavorare alla grande anche con budget modesti, quando realizza che affittare cavalli è fuori portata per il suo budget deve, però, rinunciare all’idea di un remake di Un Dollaro d’onore del suo Maestro Howard Hawks.

Un poster alternativo così figo che non potevo non utilizzarlo.
Carpenter non aveva un piano B, il suo prossimo film sarebbe stato un Western, ogni altra opzione era già fuori discussione, il Western è la cifra stilistica di tutto il Cinema Carpenteriano, dei vari cortometraggi diretti da John prima di Dark Star ho avuto la possibilità di vedere solo “The Resurrection of Broncho Billy” scritto insieme all’amico e compagno di scuola Nick Castle (uno con cui Giovà avrebbe fatto almeno un altro classico del Cinema… Ne parleremo), ovvero la storia di un ragazzino che per sfuggire alla realtà si trasforma in un cowboy, manifesto ideologico di tutto quello che piace a Carpenter portato su pellicola. La leggenda vuole che la Cadillac di Carpenter (immagino una coupé Deville, come il nome del gruppo in cui suona proprio con Nick Castle) sfoggiasse un adesivo con su scritto “Dio benedica John Wayne” (Storia vera). Ma il nostro Giovanni non si perde d’animo e fa di necessitù virtù, non posso avere i cavalli? Benissimo, farò un Western contemporaneo usando Los Angeles come ambientazione! Il risultato girato in venti giorni è un capolavoro.

Fun Fact: Quello sul cartello è l’indirizzo di casa di Carpenter nel 1976 (storia vera)
Il Tenente Ethan Bishop (Austin Stoker) fresco di nomina vince il classico lavoro che si appioppa all’ultimo arrivato, ovvero: sovraintendere la chiusura del Distretto 13, collocato nel quartiere di Anderson, un posticino non  propriamente ben frequentato.

Nel frattempo, il famigerato criminale Napoleone Wilson (Darwin Joston) viene trasferito dal carcere dove si trova, destinazione: una tappa nel carcere di massimo sicurezza e poi dritto sulla sedia elettrica. A questo aggiungete il guacamole rappresentato dalla banda del “Voodoo” e il risultato è un lungo e violento assedio, una notte per cercare di portare a casa la pelle.
«Scusa non ho capito, che numero hai detto che è il distretto?»

Come farà anche per “La Cosa”, Carpenter non si limita a riproporre il film di Hawks, ma dimostrando di averlo assimilato totalmente, lo rielabora mantenendo intatte le caratteristiche principali. Proprio come in Un Dollaro d’onore, torna il concetto dell’assedio e di un’assortita banda di disperati assemblati alle meno peggio, costretti ad affrontare un avversario superiore per numero e ferocia.

“Distretto 13” è la pietra angolare su cui è poggiato tutto il Cinema Carpenteriano: temi, stile, personaggi. Inizia tutto da qui, nel corso della sua filmografia Giovanni proporrà nuovamente temi introdotti con questa pellicola, tanto che nel 2001 farà un altro film di assedio, quasi un remake di questo film, ovvero “Fantasmi da Marte”. Infatti, la prima idea di titolo per questo film proposta da Carpenter era “The Anderson Alamo”, bocciata dai produttori, ma forse il riferimento più palese alle origini Western del film.
Se leggendo i titoli di testa vi verrà da domandarvi chi sia John T. Chance (il curatore del montaggio di questo film) e come mai si chiami proprio come il personaggio interpretato dal Duca John Wayne in Rio Bravo, tranquilli, tutto sotto controllo: si tratta sempre di Carpenter, che ha scelto lo pseudonimo proprio in omaggio al film, forse per non far comparire il suo nome in tutte le principali categoria. Sì, perché Giovanni scrive la sceneggiatura, dirige, si occupa del montaggio (travestito da John Wayne), compone la colonna sonora e fa anche un piccolo cameo, è uno dei membri della gang che assalta il distretto, difficile da notare, ma se aguzzate la vista potrete riconoscerlo.

Anche i titoli di testa del film confermano l’omaggio di Giovanni al film di Howard Hawks
All’inizio del film troviamo una delle poche scene dirette con traballante telecamera a mano del Cinema di Carpenter, il massacro da parte della polizia della gang dei “Tuono Verde”, il primo colpo assestato alle tessere del domino, che sfocerà nell’assedio al centro della trama. Malgrado “Distretto 13” rappresenti il primo incontro tra Carpenter e il cinemascope (che non avrebbe mai più abbandonato), questa scena è stata diretta con la camera in mano, interrogato sul perché Giovanni ha risposto alla sua solita maniera: «Ah, boh, che ne so, probabilmente il vicolo era troppo piccolo per infilarsi con tutta la troupe ed io non avevo tempo da perdere…» Come si fa a non voler ben a quest’uomo, io proprio non lo so.
La sceneggiatura di Carpenter è ad orologeria: prima ci presenta tutti i personaggi, Bishop al suo primo giorno da Tenente, Napoleone Wilson e le “amorevoli” cure che la polizia gli riserva, il padre di famiglia, che insieme alla figlia deve raggiungere la casa dell’altra figlia proprio ad Anderson e che, invece, inciamperà nella vendetta della gang del Voodoo, alleati dei Tuono Verde e in cerca di vittime per rispondere all’aggressione della polizia.

«Bastava dire che non si può fumare qui, come siete nervosi»
La mancanza di vere motivazioni è spesso la base di molti riusciti film dell’orrore, allo stesso modo i protagonisti di “Distretto 13” si ritrovano costretti a combattere per sopravvivere contro un orrore che sembra immotivato e senza spiegazioni. Per puro caso, il bus che trasporta Napoleone Wilson fa una sosta forzata al distretto, per puro caso il padre di famiglia ha la sfortuna di incontrare la Gang e successivamente di rifugiarsi anche lui nel distretto. Come Wells (Tony Burton) il galeotto che arriva al distretto insieme a Wilson, i personaggi sono perseguitati dalla sfortuna ed è solo la prima deriva horror di un film che ha tutte le caratteristiche del Western metropolitano.
Parliamo subito di una delle cose (una delle tante) che resta più impressa nella mente dello spettatore dopo la visione di “Distretto 13 – Le brigate della morte”, ovvero: Napoleone Wilson. Chiunque vi può dire che è il prototipo dell’anti-eroe Carpenteriano, avrete sentito mille mila persone dirvi che è a tutti gli effetti un ideale progenitore di Jena “Snake” Plissken, con cui condivide la celebre frase («Hai da fumare?» offerta da Wilson in tutte le sue possibili varianti), quello che nessuno dice mai è che Napoleone Wilson è un personaggio fighissimo!

Talmente figo che ha fatto venire il complesso di Napoleone al resto del mondo.
Al pari del suo creatore sfoggia una notevole faccia da schiaffi, è indolente nei confronti dell’autorità ed è alla constante ricerca di una sigaretta da fumare. Una delle sue frasi più riuscite «I was born out of my time» sottolinea come il personaggio sia il pistolero di un Western prestato ad un film contemporaneo. Attorno a lui l’aurea di mistero dei pistoleri senza nome: il poliziotto di custodia gli chiede come mai uno intelligente come lui abbia ucciso tutta quella gente, lui gli racconta di come un prete da bambino gli aveva pronosticato il suo destino, vedendo l’odio nei suoi occhi. Questo fa di lui l’outsider totale, ma anche la persona migliore da avere a fianco per il Tenente Bishop. Inoltre, il tormentone sull’origine del suo nome non è altro che la prova tecnica dei vari “Chiamami Jena” / ”Chiamami Plissken” che sentiremo in 1997 Fuga da New York, solo variati alla costante minaccia di morte che aleggia intorno al personaggio («Perché ti chiamano Napoleone Wilson?» , «Un giorno te lo dirò, nel momento della morte.»”)

Per altro, a livello di dialoghi il film è micidiale: non solo è costellato da tutte le frasi fighe snocciolate da Wilson (o dalla mitica scena delle conta fatta con Wells che per me è un apice assoluto!), ma con davvero pochissime parole ben selezionate Carpenter tratteggia i suoi personaggi. L’aneddoto che Bishop racconta sulla parolaccia scritta sul banco di scuola e il professore che lo rimanda a casa, è preso di peso dalle parole di Alfred Hitchcock, nel celebre libro di Truffaut “Il Cinema secondo Hitchcock”. E se Howard Hawks è il modello di riferimento di Carpenter, nemmeno Zio Hitch scherza: il padre sotto shock che attira sul distretto la gang del Voodoo non è altro che il MacGuffin che fa cominciare la storia.

Sulla scena della conta, ogni volta devo mettere in pausa il film per ridere (storia vera).
Come succederà per molti altri film di Carpenter anche “Assault on precinct 13” ha tutta una lettura di secondo livello, la sua natura politica è piuttosto chiara, anche se Carpenter intervistato in merito ha sempre dichiarato che i suoi intenti erano quelli di fare un Western, ma come spesso succede ai grandi filmaker, “Distretto 13” ha saputo anticipare le rivolte di Los Angeles che sarebbero scoppiate di lì a poco.
Giovanni evita comunque le etichette politiche, basta guardare la gang del Voodoo, che non rappresenta una sola minoranza etnica, tra le sua fila possiamo trovare messicani, ispanici, bianchi biondi e con gli occhi azzurri (Frank Doubleday, il celebre Romero di Fuga da New York) e il loro capo è una specie di imitatore di Che Guevara. L’idea di Carpenter non era quella di dire “I cattivi sono [INSERIRE-QUI-MINORANZA-A-VOSTRA-SCELTA]. Per lui la gang rappresenta l’arrivo del male che si accanisce sui protagonisti e i punti di contatto con i film Western sono parecchi, fin dal rito del sangue che i quattro componenti eseguono ad inizio film, che ricorda molto i patti di sangue dei nativi americani. Lo stesso Carpenter, nel commento audio del film, più di una volta parla della gang di assedianti chiamandoli Indiani…

Era un bel quartiere, poi sono arrivati gli ariani-latino-neri-barbuti…
La scena con cui Giovanni chiarisce anche all’ultimo degli spettatori che i simpaticoni del Voodoo sono i portatori del male, è ovviamente la scena del camion dei gelati. Frank Doubleday dalla macchina con il suo fucile prende di mira passanti innocenti, ma non ne uccide nessuno, è come se fosse alla ricerca della preda perfetta, quando la gang incontra il camion dei gelati e di conseguenza la bambina allontanatasi dal padre per telefonare, da spettatori capiamo subito che la faccenda non finirà bene.

Sono l’unico a cui risuona il tema musicale del film in testa quando vedo queste scene? No vero eh?
La cosa che trovo geniale è il non detto, il gelataio appena vede l’auto nera degli aggressori mette mano alla pistola, non è chiaro se l’uomo è un agente infiltrato, o se Anderson è un quartiere così pericoloso che persino l’uomo dei gelati è costretto a giare con il ferro. In ogni caso, questo fa di lui la scelta giusta per la gang che lo fanno fuori e in tutta risposta, ammazzano anche la ragazzina, tornata indietro a reclamare il suo variegato alla vaniglia… In una scena capace di far passare la voglia di gelato anche allo spettatore più goloso. Per sempre!

…Ho cambiato idea, prenderò solo il caffè (Gulp!).
Lo stesso Carpenter ha dichiarato che oggi, da padre e nonno, non avrebbe mai girato una scena come quella, ma allora fu quella che bollò il film come iper violento e probabilmente ne determinò gli scarsi incassi (un filmone di Carpenter che incassa poco? Ma dai? Non succede mai!). Resta ancora oggi un apice che ha spostato verso l’alto l’asticella della cattiveria al Cinema. Quanti film ricordate dove i bambini (I bambini! Perché nessuno pensa ai bambini! Cit.) vengono uccisi così? Non tantissimi, ne converrete.
Nella prima sparatoria grossa del film “Distretto 13” trova la sua forma definitiva: gli assalitori sparano con pistole con il silenziatore, che colpiscono letali come le frecce degli indiani. La sparatoria (unica volta in carriera in cui Giovanni ha utilizzato uno storyboard per la scena) inizia con un insieme di campi e contro campi, tra chi spara per difendersi (campo) e chi spara per assaltare il forte (controcampo). Una scena in particolare, poi, detta il cambio netto di stile: quando Bishop lancia al volo il fucile a Wilson (in una scena che imita volutamente il lancio del fucile tra Ricky Nelson e John Wayne in un Dollaro d’onore). Carpenter rinuncia ai controcampi, gli aggressori iniziano a diventare una massa senza volto ed è questo il momento in cui il regista accompagna la sua pellicola Western in territori che sono tipici dei film dell’orrore.

La scena del lancio del fucile (Ricky Nelson e John Wayne sarebbero orgogliosi).
La gang del voodoo spinta da vendetta aggredisce non curandosi della proprie vite, in questo senso diventano del tutto simili agli zombie Romeriani di “La notte dei morti viventi”, capolavoro senza sterzo che Giovanni Carpentiere annovera tra i film che hanno ispirato “Distretto 13”. Questo è l’inizio di quell’orrore tipico del regista di Los Angeles, un nemico senza volto che esce dall’ombra per colpire, quel vuoto Carpenteriano che minaccia costantemente i protagonisti e li lascia (insieme agli spettatori) in una condizione di minaccia permanente.
Il film celebra i personaggi che, di fronte a questo orrore, riescono ad adattarsi più velocemente: quello di Julie (Nancy Kyes al suo primo film, ma non ultimo diretta da Carpenter) rappresenta il personaggio pavido che difficilmente incontra i favori del pubblico, che dimostra di essere ancora legata ai valori del mondo come lo conosciamo, suo perfetto contro altare la tostissima Leigh (Laurie Zimmer), una che fino ad un minuto prima si occupava di lavoro di ufficio, ma che è talmente cazzuta da tenere testa alle battutacce dei colleghi poliziotti e quando è il momento di sparare si dimostra prontissima, facendoci intendere che non si è sempre occupata di burocrazia nella vita. Carpenter è celebre per i suoi personaggi maschili, ma provate a fare mente locale e scoprirete che con quelli femminili Giovanni non ha scherzato per niente.

Una pupa e una pistola, tante volte ad un film non serve altro.
John Carpenter dirige con il coltello tra i denti, il film dura poco e la seconda metà sembra quasi in tempo reale rispetto agli eventi raccontati sullo schermo, il budget è quello che è e con il suo piglio deciso riduce tutto allo stretto indispensabile, la sceneggiatura è ad orologeria (tenete il conto dei proiettili sparati dai protagonisti e capirete la cura del dettaglio di questo film) e Carpenter tira fuori l’epica della storia, trasformando il Distretto 13 nella versione Yankee delle Termopili o della battaglia di Alamo.
Rimasti in tre, con una manciata di proiettili, i nostri si barricano dietro ad una lastra di ferro (un ironico incitamento al corpo di polizia locale, che in quella scena risulta quanto mai satirico) e attendono l’ultimo attacco. Proprio come in Un Dollaro d’onore, i protagonisti dimostrano il loro valore con le azioni, il rapporto tra il poliziotto (nero) Bishop e il criminale (bianco) Wilson si cementa: i due spalle al muro sono costretti a collaborare, ma nel momento peggiore si scoprono fatti della stessa pasta, la pasta di cui sono fatti i duri. Se lo Sceriffo Chance e i suoi uomini per tutta la durata del film, erano accompagnati dalle note del “Deguello”, qui è proprio una canzone a celebrare per sempre la somiglianza dei due personaggi, che avrebbe potuto essere anche amici, se le condizioni e i ruoli lo avessero concesso.
«Quando finisce la musica spara… Se ti riesce» (cit.)

Bishop fischietta un motivetto, che un po’ ricorda proprio il Deguello, Wilson riconosce il pezzo e lo accompagna a sua volta, in quella che resta la scena più Western, mai vista in un film non-Western (ovvero senza cavalli) della storia del Cinema, ma in senso più ampio aggiungerei, aspettare la fine, spavaldi, a testa alta e fischiettando un motivetto come se non te ne fregasse nulla… 100% John Carpenter, Signore e Signori.

La battaglia in sé è veloce e brutale e, quando si dirada il fumo, restano solo tre sopravvissuti. Ancora in piedi. Ancora vivi («Qualcuno ha da fumare?»)


Ricordatevi di Alamo.
Superata la crisi, però, i ruoli imposti dalla società tornano, ma solo per chi non c’era, infatti, Bishop prende a male parole il polizotto che vuole ammanettare Wilson e i due escono fianco a fianco in un finale che è epico e western (una specie di cavalcata verso il tramonto), ma anche amaro, nerissimo e cinico, come quasi tutti i finali Carpenteriani, malgrado il valore dimostrato, Napoleone Wilson tornerà al suo destino e alla sua condanna… «I was born out of my time.»
Non si può parlare di Carpenter senza dedicare qualche parola per la straordinaria colonna sonora del film, Giovanni ne ha composti di pezzi bellissimi (alcuni anche nel suo album d’esordio Lost Theme), ma tra tutti, quelli di Assault on Precinct 13 restano quelle che mi canticchio più spesso da solo, perché hanno una capacità clamorosa di sedimentarsi sul fondo del cranio. Carpenter ha dichiarato che l’ispirazione per il main theme gli è arrivata dal pezzo di Lalo Schifrin composto per Dirty Harry e da “Immigrant Song” dei Led Zeppelin, il miscuglio è efficacissimo.
I sintetizzatori di Carpenter sono perfetti a rendere il senso di costante minaccia dei protagonisti, poi ditemi cosa volete, ma il Carpenter compositore è pari a quello regista: dritto come un fuso e geniale nelle soluzioni… Ecco! Adesso per il prossimi giorni continuerò a canticchiare You Can Fight It!, dudu du dum dum dum, You Can Fight It!
“Distretto 13 – Le brigate della morte” è l’esempio di come si possa ispirarsi, anche in maniera ossessiva, ai classici del Cinema, ma rielaborando e ricreando. Il risultato è l’incudine su cui sono stati forgiati tutti i film della carriera di John Carpenter e sapete qual è la cosa più divertente? Che questo è solo il secondo film della sua filmografia, diretto ad anni 28 (due, otto)… Un giorno passato a parlare di Giovanni Carpentiere è sempre un giorno ben speso!
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