Sapete come funziona, lo abbiamo visto tante volte anche qui alla Bara Volante: quando un regista raggiunge la vetta e la notorietà, spesso decide di dedicarsi anima e cuore al progetto della vita, lo ha fatto anche il nostro Neil, benvenuti ad un nuovo capitolo della rubrica… Marshall Love!
Sarebbe stato molto più semplice per Neil Marshall adagiarsi comodo, far prendere alla poltrona della sua carriera la forma delle sue chiappe e iniziare a sfornare titoli fotocopia di The Descent, invece zio Neil ha fatto una scelta più coraggiosa, ha affidato “The Descent Part 2” (2009) al suo montatore Jon Harris restando a bordo come produttore per dedicarsi ad un progetto che per lui era davvero quello della vita, inutile girarci attorno: “Doomsday” (appesantito dal solito sottotitoli italiano coniato da Capitan Ovvio) alla sua uscita è diventato l’equivalete del bersaglio per le freccette al Pub. Se posso capire (ma non giustificare) la critica colta con la pipa e gli occhiali, trovo assurdo che anche buona parte della stampa di genere abbia proprio travisato gli intenti di Marshall, ma io ero lì in sala, a godermi questo spettacolo per cui ancora oggi, la Wing-woman mi spernacchia perché la trascinai a vederlo e solo il 50% di noi uscì dalla sala esaltato, non è difficile intuire chi, vi do un indizio, lo state leggendo in questo momento (storia vera).
Con quel minimo di sciovinismo tipico degli Inglesi, bisogna dire che Neil Marshall ha sempre guardato ai grandi registi americani, ma poi ha “importato” temi e lezioni, mutuate dai suoi eroi che, guarda caso, sono anche quelli di questa Bara, dopo anni passati a risiedere nelle vicinanze delle rovine vallo di Adriano, il soggetto di “Doomsday” è venuto fuori quasi da solo, perché la sensazione generale, l’etichetta che il film si è ritrovato incollato in fronte è un po’ sempre la stessa: armato di diciassette milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti spirati, ovvero tre volte il budget dei precedenti Dog Soldiers e The Descent, l’inglese si sia baloccato, spargendo idealmente sul pavimento la scatola dei giocattoli di tutti i suoi film del cuore, divertendosi ad omaggiarli, il che è vero, ma solo in parte, perché si tratta del frutto di una valutazione che frettolosamente ha cercato di infilarlo tra le brutte copie nate sulla scia di 28 giorni dopo, «Madornale errore» (cit.)
Inutile girarci attorno: “Doomsday” è una dichiarazione d’amore. Non prendi due personaggi secondari tra le fila del gruppo di soldati protagonisti e li chiami Carpenter e Miller, se non hai intenzione di omaggiare i tuoi Maestri, ma l’intento di Marshall nel 2008 era un altro, non una pedestre riproposizione di dinamiche viste in una nutrita manciata di film di genere della vecchia scuola, diretta da uno con i soldi per grattarsi via lo sfizio, ma una dichiarazione d’intenti, quasi un manifesto programmatico, che mette in chiaro che quelle formule che hanno reso grande il cinema di genere se applicate come si deve, possono funzionare ancora, anche nel 2008 e cavolo se funzionavano!
“Doomsday” è in parti uguali l’occasione per omaggiare tutti i grandi amori cinematografici di Marshall, ma anche un film che sembra uscito dritto dagli anni ’70 e ’80, uno spettacolo adrenalinico e una lezione per tutti quei pochi che hanno tenuto le orecchie dritte per ascoltare, per quanto mi riguarda non ho dubbi: questo film si merita un posto tra i Classidy!
Marshall utilizza il prologo per introdurre la storia e la sua protagonista, il fatto che scelga per i titoli di testa, anche lo stesso identico carattere che di norma viene usato per il mio genitivo sassone preferito, ovvero “John Carpenter’s” fa tutto parte del gioco, tranquilli, ma prima di tutto, dobbiamo parlare di Rhona.
Figlia di madre irlandese e papà di origine indiane, quella meraviglia di Rhona Mitra è un volto e un corpo destinati al cinema, per fortuna, aggiungerei, visto che da ragazzina è riuscita a farsi cacciare dalle suore della sua scuola e a quattordici anni si divertiva a rubare auto per farci un giretto (storia vera). Una capacità di bucare lo schermo con la sola presenza che levati, ma levati proprio, talmente bella che persino un fanatico di bionde come Paul Verhoeven non ha potuto farsela scappare, rendendola protagonista di una scena da E.N.E (Epistassi Nasale Esplosiva) in L’uomo senza ombra. Ma la popolarità Rhona Mitra l’ha raggiunta come sosia ufficiale di Lara Croft, ruolo che le andava più stretto dei costumi che le facevano indossare ed è da sottolineare come Marshall sia passato dalle speleologhe che si definivano donne normali e non delle Lara Croft di The Descent a… Beh, Lara Croft in persona e ve lo dico: non poteva esserci scelta migliore.
Sì, perché “Doomsday” è di gran lunga la miglior prova di tutta la carriera di Rhona Mitra, tosta e bellissima come in questo film non lo è stata mai più, il fatto che Marshall abbia scelto un personaggio femminile come protagonista è la continuazione della sua poetica, i suoi film parlano di guerrieri, che siano soldati o donne pronte a vendere cara la pelle poco importa, il suo è un cinema da combattimento e quando il virus Reaper (una peste che trasforma tutti in orridi infetti) colpisce duro spezzando a metà l’Inghilterra, proprio all’altezza del vallo di Adriano (in un omaggio a 1997 fuga da New York che diventa palese al sesto minuto di film, quando Marshall utilizza la stessa grafica di Carpenter per illustrarci la drammatica situazione), Albione deve mandare il suo uomo migliore e quell’uomo non può che essere una donna, zio Neil su questo non ha un solo dubbio.
Eden Sinclair non è un personaggio realistico come le protagoniste di The Descent, forgiatanel sacro fuoco del cinema di genere è il frutto di una notte d’amore tra Ellen Ripley e Jena Plissken, però allevata da Sarah Connor, ma solo dopo aver preso lezioni di guida da Max Rockatansky. Il suo stile arriva tutto da papà, la canottiera nera, la benda e l’occhio bionico, ma il resto è stato tutto ereditato dal lato materno della famiglia, rielaborato dalla poetica di Marshall. Eden Sinclair è una macchina da guerra femminile nel senso Kiplinghiano del termine (perché in ogni specie, la più letale è sempre l’esemplare femmina), del tutto priva di empatia per chiunque, determinata a portare a termine la sua missione, ma con un manifesto disgusto per una società che l’ha messa ai margini (e in questo in quanto donna è ancora più sensato), se nel corso della sua missione riuscirà a far fare una figura di niente al corrotto governo inglese tanto meglio, ma quello che emerge è che, al netto di una sola inquadratura “a posteriori” (necessaria più che altro a Marshall a mostrare l’attivazione dell’orologio di Eden), il suo personaggio non sembra mai la fantasia erotica scritta da un maschietto, come dicevo nei capitoli precedenti: i personaggi femminili di Marshall sono realistici (anche quando sono stilizzati come Eden Sinclair) perché non sembrano mai scritti da maschietti più interessati a mostrare centimetri di cosce e scollature, a Rhona basta mostrare i muscoli delle spalle e quello sguardo d’acciaio per essere più letale del virus Reaper.
Il regista, poi, ha una certa sensibilità nel mostrare anche i momenti intimi di un personaggio che ogni volta che apre bocca, cerca una sigaretta come papà Snake, il nostro Neil è bravo ad utilizzare Bob Hoskins come se fosse il Lee Van Cleef della situazione per poi portare avanti la sua poetica di soldati “presi a calci nelle palle” (cit.), mandati a morire in una missione suicida oltre il vallo di Adriano, in cerca dell’antidoto sviluppato oltre il muro che potrebbe salvare Londra dalla seconda ondata del virus Reaper. E voi non volevate mettervi la mascherina in “Fase uno”, si vede che non avete visto abbastanza volte questo film!
L’elemento più banale da sottolineare di “Doomsday” sarebbe quello citazionistico, Neil Marshall è uno dei pochi ad aver capito e fatto sua la lezione Carpenteriana, tanto che quando si parla di un remake di 1997 Fuga da New York a me viene sempre da ridere, visto che ne esistono già due, uno lo ha diretto lo stesso Maestro, l’altro proprio Neil Marshall. Ma fosse solo quello, in “Doomsday” si trova un po’ di 1975 – Occhi bianchi sul pianeta Terra, ma Marshall pesca anche dal cinema di Walter Hill (tra la folla di punk urlanti, almeno uno è vestito come le Baseball Furies di The Warriors, aguzzate la vista) e, perché no, anche dei grandi classici del cinema di genere, i vecchi maestri come Milius e John Boorman. Fin dalla sua uscita, molti hanno etichettato come lo sfizio di un regista promettente, un film che inizia come uno di Carpenter, continua come Aliens – Scontro finale poi di colpo svolta giocandosi cavalieri in armatura e finisce con un enorme inseguimento degno di Mad Max e del suo seguito, ma per certi versi il bello è proprio questo.
La missione del maggiore Eden Sinclair passa attraverso tutti i più grandi classici del cinema di genere, che vengono rielaborati da Neil Marshall uno per uno, in momenti d’azione spettacolari (vogliamo parlare dell’utilizzo della granata a schiuma? Brillante!), il risultato è un film che in 109 minuti non alza mai, ma intendo proprio mai, il piede dall’acceleratore facendoci correre tra tutti i nostri film e generi cinematografici del cuore.
Il capo dei Punk, gli Scozzesi rinselvatichiti mette su uno spettacolo per la folla a metà tra il Duca di New York e Lord Humungus, mentre all’attore feticcio di Marshall, Sean Pertwee nei panni del dottor Talbot, tocca la cottura alla fiamma in una scena in stile concerto dei Cannibal Corpse e se tutto questo può sembrare troppo, Marshall alza ancora il volume della radio con la corsa dietro alla locomotiva prima di var cambiare ancora genere al film.
Trovo brillante che il tanto ricercato Kane (il solito Malcolm McDowell) si riveli poco più di un MacGuffin che vive in un vecchio castello, non so voi ma quando entra in scena in armatura, con alle spalle in bella vista la scritta “Gift Shop” lo trovo un’idea brillante di Marshall, un po’ come se qui da noi i sopravvissuti si barricassero dentro Gardaland per riorganizzare la società.
Se non bastasse essere riuscito ad inserire anche un duello tra Eden e un energumeno in armatura, “Doomsday” si gioca un ultimo atto da applausi, lo so, quegli scassoni ornati con teschi, rostri ed ogni genere di orpello che urlano “MAD MAX!” fortissimo in ogni dettaglio, non hanno i cavalli per stare dietro ad una Bentley Continental GT («Mi piace il colore, la compro») che è l’equivalente su gomme di Eden Sinclair, un’auto che non offre un segno di cedimento nemmeno quando attraversa di muso un pullman parcheggiato di traverso, nemmeno un fanalino rotto, come la sua pilota quell’auto è inarrestabile.
Nel finale Neil Marshall non si toglie solo lo sfizio di girare un inseguimento dimostrando di aver appreso la lezione di George Miller, ma con la macchina da presa vola sul tettuccio delle auto in corsa, la fa ruotare, in un cinema di genere che è diventato sempre più edulcorato (e infantile) nel tentativo di restare al passo con i tempi, nel 2008 Neil Marshall ha portato sul grande schermo l’azione diretta alla vecchia maniera, mettendo in chiaro che non solo poteva ancora funzionare, ma era ancora il meglio del meglio perché, parliamoci chiaro, prima di Fury Road, l’unica occasione che abbiamo avuto per vedere inseguimenti, sgommate e ciocchi fortissimi al cinema, arrivava da quell’Inglese pazzo a cui tutti noi appassionati dovremmo solo dire grazie di esistere.
Ovviamente come molti dei grandi film a cui Neil Marshall guardava, anche il suo “Doomsday” è stato un mezzo disastro al botteghino, inspiegabile e per quanto mi riguarda ingiustificato, eppure, a suo modo, penso che abbia generato a sua volta dell’iconografia, sono abbastanza convinto che la Forever scritta da Greg Rucka in Lazarus, debba qualcosa al maggiore Eden Sinclair di zio Neil, la più tosta, stilizzata e cinematografica delle guerriere di Marshall. La prossima settimana, ne incontreremo un’altra pensate un po’, in un altro film con soldati, non mancate!
Sepolto in precedenza venerdì 15 luglio 2022
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