23 ottobre, compleanno di uno dei prediletti della Bara Volante ma in generale, di tutta quella porzione di umanità armata di buon gusto, compie gli anni Sam Raimi e insieme ai miei compari, abbiamo messo su una piccola festicciola, a cui ho deciso partecipare con un titolo che amo visceralmente come “Drag me to hell”.
In attesa della sua prossima fatica annunciata per il 2025, ad oggi, 23 ottobre appunto, si tratta dell’ultimo Horror diretto da Raimi, un progetto che era nella testa di Sam e di suo fratello Ivan fin da prima di imbarcarsi nella trilogia di Spider-Man, ma che per il mitico Sam è stata un po’ la coperta di Linus in cui avvolgersi per consolarsi dopo i maltrattamenti subiti dai produttori per il suo terzo film del ragnetto.
Ora io vorrei proprio giocarmela ‘de core e ‘de panza, perché senza fare nomi, non li farò, nel 2009 già mi confrontavo con personalità dell’Infernet di livello, che sostenevano che all’interno dello stesso festival di Cannes, dove il film di Raimi quell’anno era stato presentato nelle sezione “Proiezioni di mezzanotte”, questo film fosse tutto sommato robetta, una cosina girata benissimo, ma poco più di un esercizio di stile il cui messaggio fondamentalmente era quello di non far arrabbiare le vecchie signore dell’Est Europa. Cioè, vuoi mettere con roba veramente di livello tipo “Antichrist” di Lars von Trier, in concorso nello stesso festival?
Premetto che con il film del vecchio Lars ho un rapporto tutto mio, oltre ad una frase di culto («Il caos reeeeegna!») lo ritengo ancora oggi un dei lavori più involontariamente comici che io ricordi, e anche leggerissimamente sopravvalutato, di sicuro nel 2009 e di sicuro da molti – no, i nomi non li faccio – anche nel confronto con Raimi, posso dirlo? Cazzate. Cazzate sì, perché non solo “Drag me to hell” è uno egli esempi perfetti di quello che io vorrei sempre trovare in un Horror, ma è un film spartiacque, tra quella porzione di pubblico che guarda un film così e lo trova, giustamente, una storia girata come Crom comanda e con una storiella di base ammonitiva, e chi invece lo guarda e ci trova dentro l’arte, una storia ammonitiva certo, ma disperata, nerissima, senza pietà e che non si riassume con, per favore non toccate le vecchiette dell’Est. Lo dico? Lo faccio? Mi schiero! Si perché penso e spero che lettrici e lettori della Bara facciano parte della seconda categoria di pubblico, quindi Classido!
È vero che ad una prima occhiata “Drag me to hell” risulta drittissimo, minimale, lineare, quasi semplicistico, ma sono profondamente convinto che i film giusti siano quelli che sanno intrattenere e parlare al grande pubblico e allo stesso tempo, mandare anche messaggi non per forza banali, il film di Raimi non lo fa è allo stesso tempo risulta un’operazione molto colta, che non si vergogna di divertire e disgustare, risultando completamente matta, cavalcando quelle trovate slapstick (l’incudine che cade sulla testa della protagonista, le sue capocciate sottolineate da effetti sonori tipo “SDONG!” e via dicendo) che Raimi ha sempre dimostrato di amare, oltre ad una certa oralità bella spinta. Volete un gioco alcolico? Ogni volta che in “Drag me to hell” ci sono oggetti, che siano avambracci, righelli, dentiere o insetti che entrano ed escono dalla bocca dei personaggi, fatevi un sorso, finirete sbronzi prima della fine del primo tempo e non serve Freud per capire che dietro tutto questo ci sta una mente bella vispa. Vispa e intelligente aggiungerei.
Di base “Drag me to hell” ricalca i modelli giusti, non si tratta affatto di un remake, perché prende la sua strada con personalità, ma è chiaro che Raimi abbia studiato i classici, in questo caso di Jacques Tourneur, dal suo “La notte del demonio” (1957), il regista del Michigan prende in prestito la struttura, le superstizioni, la seduta spirita, l’aspetto del demone che nelle scene in cui insegue la protagonista in casa, l’ombra che proietta ricorda volutamente il film di Tourneur, per non parlare del finale sui binari. Insomma una rielaborazione del tutto personale che funziona su più livelli, il primo, palese e manifesto, perché Raimi lo utilizza per riempire lo schermo, la sua estatica volutamente fumettistica (lasciatemi l’icona aperta su questo punto) che lo rende un gioiellino, pieno di menti sbavati, mosche dispettose e torte che “urlando” quando vengono colpite con la forchetta (puro Raimi!), però tutto davvero brillante.
Christine Brown è fatta a forma di Alison Lohman, chissà che fine ha fatto, a volte penso sia sparita insieme ai titoli di coda del film, ai tempi fu la sostituta volante della prima scelta, Elliot Page, ad oggi è una M.I.A. cinematografica perfetta, e dico perfetta per il personaggio che Raimi le veste addosso. Christine punta alla promozione in banca, ma il suo collega odioso e lecchino sembra più in rampa di lancio perché non si fa scrupoli e passare la lingua sul culo del capo, che da Christine vorrebbe più polso, più personalità nell’affrontare le “decisioni difficili”, che si manifestano nella sede della banca sotto forma della signora Sylvia Ganush (Lorna Raver).
Come si racconta per immagini, andando dritto al sodo, esagerando senza risultare didascalici io non lo so, so che Raimi lo fa più volte qui, equilibrista cinematografico di sconfinato talento, riesce a mostrarci la signora Ganush con le sue unghie nere che tamburellano sul tavolo, mentre si sfila la dentiera per mangiare e per altro, ha raggiunto la banca alla guida di “The Classic”, la Oldsmobile delta 88 colore beige che compare in tutti i film di Raimi. Appena Christine, per impressionare il suo capo, non le concede la proroga del mutuo, è terribile vedere Sylvia Ganush umiliarsi e pregare, ma è ben più terribile quello che succederà a Christine quando la Lamia (che abbiamo visto scatenarsi nell’ultra dinamico prologo del film, uno dei più belli degli ultimi quindici anni) si metterà sulle sue piste per trascinarla, beh, il titolo parla chiaro.
Potrei decidere si smarcare questo post con una facilità assoluta, snocciolando superlativi per OGNI scena del film, perché “Drag me to hell” è un gioiellino dal punto di vista visiva, lo lotta nel parcheggio coperto, che diventa una lotta nell’abitacolo dell’auto di Christine è un manuale di regia e montaggio, ma anche di utilizzo alternativo della pinzatrice. Il disgusto è una delle armi segrete di Raimi, che oppone la tipica fidanzatina bionda d’America a questa immigrata sgrammaticata che perde la dentiera come un cartone animato e ti aggredisce come Michael Myers.
La signora Ganush diventa una tale presenza, che funziona anche in assenza, quando Christine si presenta a casa sua per chiarire, trattare e farsi togliere la maledizione che la donna le ha lanciato, anche ritrovarla in una bara (non volante) sembra un suo trucco, che comunque non le impedisce si vomitarle roba disgustosa addosso alla protagonista. Insomma, “Drag me to hell” è un film volutamente sbilanciato in favore dei “buoni”, carini e di bell’aspetto e dei “cattivi” a cui Raimi applica la kalokagathia perché sì, ad una prima occhiata distratta “Drag me to hell” è un film semplice che vuole solo intrattenere il pubblico, peccato che dietro alla sua facciata piena di momenti pazzi e “schfiltosi”, ci sia un nero cinismo che non prende prigionieri.
“Drag me to hell” è pieno di elementi anticipatori, come la collezione di monete del fidanzato di Christine, l’impeccabile Clay (Justin Long), ma allo stesso tempo è un manuale di ottimo cinema, guardatevi la scena in cui la protagonista è sola a casa e la paura, rappresentata dall’ombra della Lamia, si manifesta quasi esclusivamente grazie al clamoroso lavoro di montaggio sonoro che sfrutta tutto, anche le pentole appese alla cappa della cucina.
Il film passa da una scena girata come si fa in paradiso ad un’altra che è ancora più gloriosamente disgustosa e se possibile, girata anche meglio, la CGI invecchiata così così non lo intacca minimamente, ma si sposa bene con il logo retrò della Universal in apertura, perché gli intenti di Raimi sono chiari, non lo sai cosa sarai disposto a fare quando la Lamia verrà a prenderti, non ci sono gattini che reggono (l’umorismo nero nei confronti dei gattofili di questo film è senza pietà come tutta l’operazione) e persino una capra, che in mano a chiunque altro risulterebbe uno scivolone sulla buccia di banana del buon gusto, qui diventa leggenda. Il suo urlo belato in italiano è uno spasso, ma in originale risulta ancora migliore, l’altra sera quando ho messo su il film, la Wing-woman a metà del prologo se ne uscita con: «Ah è quello della capra, bello!» (storia vera).
Ma siccome non voglio correre il rischio di finire a descrivere ogni scena, gasandoci tutti insieme sulla figaggine di questo film (anche se ne avremmo tutto il diritto), quello che mi preme è chiudere quell’icona lasciata lassù. Che Raimi sia un appassionato di fumetti lo sa tutto il mondo, che i suoi film siano fumettistici nel senso migliore del termine (e lo dice un enorme amante del formato) anche, eppure “Drag me to hell” riesce a portare in scena uno stile esagerato e ammonitorio, tipico dei fumetti Horror della EC Comics, giocando a carte copertissime fino alla fine, fino al dialogo tra Christine e Clay vicino ai binari che è una confessione, che Raimi ha saputo tenere nascosta fino all’ultimo, perché se avessimo anche solo sospettato dal minuto uno che Christine in realtà è una stronza, tutto il castello di carte sarebbe crollato.
Anche se in realtà è tutto molto più strutturato di così, i fumetti della EC Comics erano spesso storie ammonitrici (come le favole, che poi erano la prima forma di Horror) in cui i protagonisti risultavano degli odiosi bastardi che di essere puniti da mostri, zombi, vampiri e assassini vari, alla fine se lo meritavano anche. Christine non sembra mai una che si merita di essere perseguitata dalla Lamia, giusto nella tavola calda, quando pensa a chi potrebbe passare la maledizione passando in rassegna i bersagli, fa un po’ la spavalda con la cameriera, ma poi anche lì sfoggia più volte una coscienza, facendosi venire la buona idea che rende possibile lo scontro finale (spassosissimo) nella tomba sempre più allagata.
La verità è che Christine è una stronza nella misura in cui potrei esserlo io o voi, in maniera delicata Raimi utilizza bene gli elementi anticipatori e quelli rivelatori, gli basta una foto della sua protagonista da ragazza, contadinotta rotondetta alla fiera del maiale, per restituirci tutto il suo senso di inadeguatezza, che si ripercuote al lavoro, con la ricca famiglia del suo fidanzato e anche con Clay, il suo ragazzo, che è praticamente Mister Comprensione, un Peter Parker insomma interpretato da Justin Long.
Sarebbe troppo facile etichettare tutto con la confessione finale al binario di Christine, ma è chiaro che sia il frutto di pressioni esterne a cui una donna, nella nostra società (e sul posto di lavoro) è ancora più soggetta, ma a cui davvero nessuno è immune. L’essere accettati è un istinto naturale, chiunque nella scena della banca iniziale preferirebbe, se costretto a scegliere, il ruolo di Christine piuttosto che quello di Sylvia Ganush, ed è qui che Raimi mena il suo colpo più duro, le decisioni difficili sono ovunque e nessuno è davvero buono, perché nessun sa davvero cosa sarà disposto a fare quando la Lamia verrà a cercarlo, dentro questo film dall’oralità spinta e il montaggio serrato, dentro la sua storia “semplicistica” piena di capre sataniche che belano insulti, ci sta la più cinica critica alla natura umana mai vista in un film che pensate un po’? Vuole anche intrattenervi. Capra di Raimi batte volpe di von Trier dieci a zero.
Ma siccome non voglio passare per l’invasato con il prosciutto sugli occhi, chiudo con un difetto, anche molto grosso di questo film, per via di precedenti impegni, qui non compare il grande amico del regista Bruce Campbell, questa è davvero l’unica critica che posso muovere a questo nero gioiellino… Auguri Sam e per il resto della festa, passate a trovare Il Zinefilo e Vengono fuori dalle fottute pareti.
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