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Dragon – La storia di Bruce Lee (1993): sì, ma non per forza quella vera

Vi avevo promesso che la traiettoria di volo di questa
Bara avrebbe incrociato ancora la via del Maestro Bruce Lee, visto che nel
corso della rubrica questo film è stato citato molto spesso mi sembra giusto
concludere così, bentornati a … Remember the dragon!

Rob Cohen è uno di noi. Non viene citato molto spesso
forse perché quella “H” nel cognome lo avvicina più a Larry Cohen che ai fratelli del Minnesota, ma la sua carriera è di
tutto rispetto, da produttore esecutivo ha tenuto sotto la sua ala Black & Dekker, Arnold e anche zio Wessy,
da regista ha firmato parecchi titoli in grado di coprire la gamma che va dal
bruttino al film di culto, ma sempre rigorosamente di genere. Perché tutto
possiamo criticare a Rob Cohen ma non che il suo cuore non batta dal lato
giusto, infatti come tutte le personcine a modo, il nostro è sempre stato un
grande appassionato di Bruce Lee.

Tanto appassionato da riuscire a mettere le mani sui diritti
di sfruttamento non di uno, ma di due biografie dedicate alla vita del Maestro,
ed è proprio qui che iniziano i casini, perché i due libri in questione sono
stati scritti da persone molto vicine a Bruce Lee ma per certi versi ben poco
affidabili, “Life and Tragic Death of Bruce Lee” (1975) è il ricordo della
moglie Linda, mentre “Bruce Lee: The Biography” (1988) scritto dal famigerato Robert
Clouse, il regista che avrà anche diretto Lee
ma resta uno dei più maldestri cagnacci mai visti dietro una macchina da presa, evidentemente in grado di fare danni anche sulla tastiera dalla macchina da scrivere.

Le due biografie da cui il film è stato tratto, che fanno a pugni tra di loro (ah-ah)

Bisogna mettere subito un punto fermo quando si parla di “Dragon
– The Bruce Lee Story”, penso che sia proprio il passaggio chiave per
interpretare tutta questa biografia: quello che vediamo nel film è il punto di
vista americano sulla vita del Maestro, quindi mettendomi in scia al
sottotitoli italiano, questa sarà anche “La storia di Bruce Lee” ma non è detto
che sia quella reale, perché il cinema in fondo non ha il dovere di esserlo
(per quello esistono i documentari) e inoltre, resta un punto di vista sulla storia
di Bruce Lee, concludo il capoverso, metto un punto e procedo ad argomentare.

Quello che vediamo nel film ignora quasi completamente tutta
la parte cinese della vita del Maestro, roba da niente no? Di fatto è la storia di un orientale
che come Fievel sbarca in America e conquista il Paese della torta di mele (che
non è un dolce Americano), imponendo la sua volontà, combattendo con
testardaggine un razzismo imperante, arrivando a raggiungere il sogno di gloria
(Americano) dell’uomo che si è fatto da solo, da zero a mito come direbbero i
nostri cugini Yankee.

Una ragazza incontra un futuro Maestro e icona mondiale delle arti marziali ragazzo.

A ben guardarlo “Dragon – La storia di Bruce Lee” è un film
romantico, dove ogni tanto qualcuno si mena, fateci caso: la voce narrante è
quella di Linda Lee (Lauren Holly), una ragazza che incontra un giovanotto
esotico e innamorandosi di lui, si porta a casa tutto il suo mondo di arti
marziali, insofferenza alle vecchie dottrine delle arti marziali e con la sua fluidità
predicata in palestra. La ragazza sta al fianco dell’uomo della sua vita nella
buona e nella cattiva sorte e giunti alla fine del film, per precisa volontà di
Linda Lee (quella vera), Rob Cohen non ci racconta nulla della sua misteriosa
morte, lasciando noi spettatori con il personaggio al massimo del suo splendore
(in un film co-prodotto dagli Yankee), un po’ come faceva Michael Mann in “Alì”
(2001).

La scena finale è una forza, ma il logo di Italia 1 la migliora.

Ecco perché il Bruce Lee di questo film sarà anche testardo
e propenso a qualche (giustificato) scatto d’ira durante le liti in famiglia
(momenti in cui Jason Scott Lee fa un po’ il Nicolas Cage della situazione), ma
a ben guardarlo è un marito amorevole e un padre presente. “Dragon – La storia
di Bruce Lee” non mente, semplicemente racconta la verità di Linda Lee perché è
il frutto dei suoi ricordi, questo spiega perché in più di un passaggio il film
si smentisce da solo, ad esempio nel finale Linda dice a Bruce (vestito da
Diabruceleek sul set di Enter the dragon): «Credo che sia la prima volta che me lo dici», quando invece un “Ti amo” era
già scappato a Bruce all’inizio del film. Tutta questa parentesi sbaciucciosa
ben poco adatta a questa lugubre Bara, solo per dirvi che la memoria non è
tutto, e quella di Linda Lee ha dimostrato di fare difetto in parecchi punti, sulla vita del suo celebre marito ma anche sulle sue azioni, potrei spendere un
post intere a descrivere le nefandezze perpetrate dai discendenti del Maestro,
in cambio di tanti, sfruscianti e subito, ma sarebbe un inutile spreco di tempo
e bile. Linda qui ci racconta di un uomo e padre dei sogni, uno che si vestiva da Mago Zurlí per far ridere i bambini, ignorando la fama di sciupa femmine amante delle risse che invece Bruce Lee aveva in Cina.

“Vuoi tu Linda prendere come marito il qui presente Bruce”, “Lo voglio… Menare”

Parliamoci chiaro, chi è davvero appassionato di Bruce Lee
in vita sua ha visto ogni possibile film, letto ogni possibile libro e guardato
ogni documentario sul Maestro su cui è riuscito a mettere le mani, di certo non
ha bisogno di una biopic targata
Hollywood per conoscere le gesta del personaggio, ma il film di Rob Cohen se
non altro quando tradisce prendendosi grosse licenze poetiche per romanzare (a
volte molto, come il metaforone del Samurai che perseguita il protagonista nei
suoi sogni, nemmeno fosse Brazil di Terry Gilliam), lo fa non per sciatteria ma per precisa scelta, il più delle volte per assecondare i desideri di
Linda Lee, che sarà anche stata discutibile per molte sue scelte, ma ha comunque a cuore l’immagine del marito e ha trovato in Rob Cohen qualcuno con
lo stesso tipo di passione, o per lo meno di interesse.

“Questo è per te Sam Lowry!”

Poi è inutile negarlo, essendo tratto da due biografie diverse, in
alcuni momenti la narrazione del film va incontro a contrasti interni, ad
esempio è vero che Bruce Lee era un Maestro che non veniva riconosciuto dagli
altri Maestri di arti marziali, ma non si è infortunato alla schiena colpito a
tradimento da Wong Jack Man, anzi secondo Bruce e Linda, pare che il loro incontro
sia durato meno di un minuto (come vediamo nel film, nella “rivincita”
cronometrata) oppure che sia finito sostanzialmente in parità, ma questo lo
dice Wong Jack Man quindi tendo a credergli ancora meno di quanto già io non
creda a Linda Lee.

Ma è fallo arbitro dai! Gioco sleale, non si fa!

Inoltre “Dragon” è talmente americano nell’indole (lo stesso
Bruce nel film risponde alle provocazioni razziste dicendo «Io sono
americano!») da ignorare quasi completamente i film girati in Cina dal Maestro. Se soltanto questo film avesse inserito una, non dico tanto, una sola scena con
Bruce Lee con indosso la tutina gialla di Game of death, la cultura popolare occidentale sarebbe stato un minimo diversa
da come la ricordiamo ora, forse qualcuno tra gli spettatori generici, non per
forza impallinati con le arti marziali, avrebbe associato quella tuta al
personaggio di Bruce Lee, invece che alla bionda Tarantiniana di “Kill Bill”
(2003). Perché senza nemmeno saperlo, “Dragon – La storia di Bruce Lee” ha
avuto una responsabilità non da poco, per anni è passato ad orari accessibili
sui nostrani canali televisivi, rappresentando per un enorme fetta di pubblico
l’unico momento di contatto con un film legato in qualche modo a Bruce Lee, probabilmente se
Rob Cohen lo avesse saputo, avrebbe fatto qualche scelta differente per la sua
biografia.

“Dragon – The Bruce Lee Story” comincia in Cina con il
giovane protagonista impegnato ad allenarsi con il suo Maestro, che nel film
nessuno chiamerà mai Ip Man perché
tanto agli Americani non frega nulla di questo tizio oggi, figuriamoci nel 1993, erano sicuramente più interessati a
vedere il ragazzino già impegnato a fare gli urletti da gatto che hanno reso
celebre il personaggio al cinema. In un’ellisse narrativo che non è proprio
esaltante come quello di Conan che spinge la ruota, il protagonista cresce, prende il suo attestato di nascita, va a
San Francisco e diventa Bruce Lee.

Violenza contro gli appendiabiti.

Siccome bisogna introdurre subito il tema del razzismo, Rob
Cohen lo fa in un modo un po’ barbaro, una sorta di “Festa delle medie” cinese
dove non si trova nemmeno una birra come vorrebbero i marinai americani
imbucati, cosa fanno? Temporeggiano bevendo spuma questi cinesi? Ma basta un
attimo e sembra di guardare la rissa alla festa di 1941 allarme ad Hollywood, perché se il film tutto sommato, anche
procedendo con l’avanti veloce e senza approfondire quasi niente, tutto sommato
rispetta la filosofia di vita applicata alle arti marziali del Maestro,
raccontando anche un po’ l’origine del Jeet Kune Do, quando si tratta delle
scene di lotta sembra che Rob Cohen non abbia mai visto un film di Bruce Lee in
vita sua.

“Jason! Falla più alla Bruce Lee… Ecco dai, abbastanza bene”

In ogni combattimento il Bruce Lee di questo film, non è il
fenomeno in grado di adattare la sua lotta all’avversario, avendo la meglio per
manifesta superiorità, velocità oppure capacità di essere fluido (“Be water my
friend, be water”), sembra più che altro un personaggio propenso a salti e
capriole spettacolari, uno che raggiunge la vittoria sempre all’ultimo secondo,
una scelta che sarà anche molto cinematografica, ma che ha ben poco a che vedere
con l’idea di cinema e combattimento del vero Bruce Lee.

Questo non vuol dire che nel film non ci siano scene di
combattimento anche di un certo livello, ad esempio lo scontro nel vicolo, in
equilibrio su pali e traverse (e sulle note della mitica “Green Onions” di Booker
T & the MG’s) non è niente male, ma questo forse spiega perché per il ruolo
del protagonista non sia stato scelto un artista marziale, ma un ballerino, per
altro palesemente Hawaiano anche se di origini cinesi come Jason Scott Lee.

“Ferro e piastrine tutto ok, ma il colesterolo è un po’ alto”

Per il ruolo pare che sia stato scartato Donnie Yen ma anche
il figlio del Maestro, Brandon Lee che rifiutò perché già impegnato sul set di Il Corvo – lasciatemi l’icona aperta, più
avanti ci torneremo – alla fine venne scelto Jason Scott Lee non per
l’omonimia, ma per la sua esperienza come ballerino, il fatto che l’attore
abbia poi imparato davvero il Jeet Kune Do, addestrato da uno dei veri allievi
di Bruce Lee, Jerry Poteet (storia vera), cambia davvero poco al netto del
risultato finale.

Nel mare magnum di imitatori di Bruce Lee che abbiamo visto
in quintali di film della Bruceploitation, Jason Scott Lee non sceglie di fare
l’imitazione di uno dei bipedi più inimitabili che abbiano mai solcato questo
gnocco minerale che ruota attorno al sole, ma sceglie di interpretare un
personaggio che se non altro resta coerente dal primo all’ultimo minuto del
film e questo è molto apprezzabile, anche perché evita scarti di tono quando il
film manda a segno anche riuscite scene che servono a puntare il dito contro il
razzismo imperante negli Stati Uniti, come ad esempio nell’efficace scena al
cinema, con Linda e Bruce impegnati a guardare “Colazione da Tiffany” (1961), una sala piena di persone che ridono per il cliché dell’orientale interpretato
da Mickey Rooney, tutti, tranne Bruce.

“Se questo film non ti piace, nell’altra sala proiettano il cowboy con il velo da sposa”

Quando poi si tratta di mostrare gli altri film del Maestro,
Rob Cohen conferma quanto questo film sia il punto di vista americano su Bruce
Lee, basta dire che viene dato più spazio al mancato telefilm ideato da Bruce
Lee, ma assegnato ad un non cinese come il David Carradine di Kung Fu, piuttosto che ai film cinesi del Maestro, ad esempio
di Il furore della Cina colpisce ancora,
si vede solo quello che ha davvero colpito gli Yankee, ovvero Lee che trasforma
blocchi di ghiaccio in granita con un pugno.

Potrei andare avanti così descrivendovi ogni scena del film,
facendovi notare dettagli come Bruce Lee che chiede un analgesico per il suo
mal di testa (occhiolino-occhiolino), oppure l’allievo di colore del Maestro,
che non somiglia molto a Kareem Abdul-Jabbar ma poco importa, preferirei non
dire niente invece sul doppiaggio italiano che sceglie di chiamare il grande
film americano in cui arriva a lavorare Bruce “Operazione drago”, dimostrando
di non aver fatto nemmeno una ricerca sul titolo corretto.

Ecco magari potrei farvi notare che nella parte dedicata a Green Hornet, il vero calabrone verde Van
Williams interpreta il regista dell’episodio, mentre Rob Cohen (in vena di auto
critica) si è ritagliato il ruolo del regista Robert Clouse, mentre alla festa
dove Linda annuncia al marito di aspettare una bambina, sul palco potrete
notare la vera Shannon Lee, quindi i momenti meta cinematografici non mancano,
ma uno in particolare merita un paragrafo tutto suo, anche perché vi ero
debitore di un’icona da chiudere.

Nunchaku a caso per la rubrica di Lucius.

Nello scontro finale con i suoi demoni interiori a forma di
statue di samurai, Rob Cohen non resiste dal rendere omaggio alla leggendaria
scena degli specchi di Enter the dragon,
ma il tempismo è sinistro, se nello scempio meglio noto come L’ultimo combattimento di Chen, il
proiettile a salve sostituito nel tamburo della pistola dalla Mafia-Cinematografica, anticipava in maniera
inquietante il destino di Brandon Lee sul set del suo film più famoso (e purtroppo anche l’ultimo), “Dragon – La storia
di Bruce Lee” ha una sfiga abominevole, nella finzione cinematografica di
questa presunta “Storia vera”, il padre salva suo figlio dalla maledizione
garantendogli così una lunga e felice vita. Nella realtà invece Brandon Lee moriva il 31 marzo del
1993 mentre il film di Rob Cohen usciva nelle sale americane solo due mesi dopo la tragedia, sta a voi decidere se questo è qualcosa
di cinematograficamente romantico oppure un tempismo di cattivo gusto, dipende
da come voi vedete il bicchiere, mezzo pieno oppure mezzo vuoto, ma comunque di
acqua (be water my friend).

“Ok ho visto Enter the Dragon, il trucco lo conosco”

“Dragon – La storia di Bruce Lee” è una biografia che mente
sapendo di mentire, a volte lo fa perché padroneggia in pieno lo strumento
cinematografico altre volte, solo per assecondare precisi ordini di scuderia,
il risultato finale è accurato e apocrifo in parti uguali, di sicuro non un
film sciatto e poco curato, questo si vede dai dettagli come la bellissima
colonna sonora di Randy Edelman, che ha dentro dramma, epica e romanticismo in
parti uguali e che avete ascoltato tutti, anche quelli tra di voi che non hanno
mai visto questo film, perché la traccia più sognante è stata riciclata dalla
Universal per numerosi trailer di film (storia vera).

Erano anni che non rivedevo “Dragon – The Bruce Lee Story”,
la costante è che ogni volta che finisco per guardarlo, in molte scene scuoto
la testa perché l’enorme romanzare della storia non può essere considerato
reale per davvero, ma in generale resta comunque un film curato ma non accurato, che
per tanti è stato il primo vero incontro con la leggenda del Maestro Bruce Lee,
se siete stati tra quelli, mi auguro che abbiamo approfondito, perché Rob Cohen
tra alti e bassi ha diretto un omaggio che comunque ha il cuore dal lato
giusto, sta poi al pubblico svincolarsi dalle manovre di Linda Lee, se dovesse
servirvi qualche dritta per farlo, trovate la rubrica dedicata al Maestro, invece per quello che mi riguarda esco di scena con un calcio
volante… Uah-taaa!

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