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Dumbo (2019): elefanti analcolici

Dico sempre che il giorno in cui riuscirò a scrivere un commento come si deve di “I sette samurai” (1954) di Akira Kurosawa, appenderò la tastiera al chiodo e mi ritirerò a vita privata su una montagna, a tagliere legna, a dar da mangiare ai cerbiatti, ad insegnare alla progenie ad usare i gomiti nel modo più letale possibile, insomma… Le solite cose che fanno gli uomini arrivati quando sono… Beh, arrivati.

Ma la via verso la saggezza è un percorso lungo, sono migliorato, eh! Ho quasi totalmente smesso di far uso di trailer, eppure ci sono altre lezioni che dovrei imparare, ad esempio, quando annunciano un remake, io dovrei sfruttare l’occasione per rivedermi l’originale ed ignorare il nuovo arrivato, se avessi fatto così con Dumbo, sarei stato un passo più vicino alla montagna sacra della pace interiore del cinefilo blogger taglialegna.

Ma anni passati a leggere fumetti hanno fatto di me uno di quelli che non può avere un buco nella collezione, causa crisi ossessivo compulsive, accendi la luce cinque volte, spegni la luce cinque volte, e niente… Alla fine il remake con attori quasi in carne ed ossa e veri elefanti (in CGI) di Tim Burton me lo sono visto, perché Minchio Dumbo non è mai stato uno dei miei preferiti di casa Disney, ma ormai mi sono votato alla sua causa, quindi niente… Tocca affrontare Disney e Tim Burton, di nuovo insieme, più letali di caffè e sigarette per il colon.
«Venghino signori venghino! A vedere l’incredibile bimbo elefante!»

Parliamo subito dell’elefante nella stanza (ah-ah) “Dumbo” non fa schifo come “Alice in Wonderland” (2010) che è un po’ come dire: “Ti ho solo dato uno schiaffo, quando potevo colpirti con i miei gomiti letali… UA-TAA!”. Fatta questa doverosa premessa, passiamo al film, anzi mi tiro su le maniche perché i gomiti ho intenzione di usarli.

Cos’abbiamo capito di Tim Burton in tanti anni di frequentazione? Tante cose, non come fa ad acconciarsi i capelli in quel modo, ma di sicuro abbiamo capito che Tim adatta cose, cercando di renderle il più aderenti possibile alla sua poetica dei “Freaks” e quando dico che adatta cose, intendo dire di tutto, con un’altra grande costante: lui se ne frega del materiale originale, cioè tante volte nemmeno lo conosce.
Tim Burton cerca di corrompermi con una scimmia in CGI, ma non basterà!

Batman? Lui prende l’Uomo Pipistrello, inserisce delle robe che farebbero venire un infarto ad un Nerd (Joker che “crea” Batman con le sue azioni), ma lo rende uno dei suoi scherzi della natura. Il pianeta delle scimmie? Da una lettura veloce e sommaria al racconto originale di Pierre Boulle, ne tira fuori un film dal finale senza alcuna logica. Big Fish? Il libro è bello, il film molto di più proprio perché Burton lo ha riempito di circhi e strambi personaggi portando la storia dove interessava a lui. Avete capito il gioco, no? Tim Burton adatta cose, non importa cosa, tanto lui la ignora se ne sbatte e cerca di trasformare tutto nel suo circo. Con la piccola discriminante che quando entra in zona favola, il suo cinema diventa più plastico e caramelloso, ecco perché Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato è molto più “Burtoniano” (e cattivello) della versione di Burton e con “Dumbo” è successo ancora.

«A grandi linee? Una roba su un elefante che vola, avrai preferito una bara ma questo chiede Disney»

Ehren Kruger (autore della sceneggiatura originale) è uno che in carriera ha firmato tante cose celebri, se poi vai a ben guardare, non tutte pesche e crema, ma tanto Tim Burton se ne frega, perché tutto il primo atto della sua versione di Dumbo, non è altro che un modo per sbrigare la pratica, l’originale durava 64 minuti? Bene, noi in meno di quaranta lo rifacciamo tutto e poi passiamo a fare altro.

Quindi, s’inizia con la stessa scena del treno, ma in versione minore e velocizzata, giusto per essere sicuro che nessuno si lamenti, ci mettiamo anche il topo Timoteo in CGI, zitto, muto, perché non c’è spazio nel film i Burton per animali che cantano, ballano e rompono i coglioni, qui si fa tutto dal punto di vista degli esseri umani, quindi il ruolo di allenatori e motivatori personali di Dumbo, lo affidiamo a due bambini, che hanno anche dei nomi e sono interpretati da dei piccoli attori (Finley Hobbins e Nico Parker), ma siccome a Tim Burton non frega nulla, chiameremo soltanto: il bambino e la bambina. La seconda, in particolare, la potete riconoscere facilmente, perché è quella che millanta conoscenze scientifiche, ma ha una fronte più grande delle orecchie di Dumbo. Io capisco la tua tanto amata poetica dei freak Tim, ma questa era la bimba più carina che sei riuscito a trovare?
Però è il momento di inserire il colpo del grande autore, la novità assoluta, il bambino e la bambina hanno un padre, la madre no perché è morta e questo non fa di loro una famiglia tradizionale (weekend di Verona Docet) in compenso, il loro papà era un abilissimo cowboy del circo che torna dalla guerra senza più un braccio. Ad interpretarlo è Colin Farrell nella parte di Johnny Depp ed io me lo immagino Tim Burton sul set che dice cose tipo: «Bravissimo Johnny sei stato perfetto!», «grazie Tim, ma io mi chiamo Colin», «Ah già, vero.Ok, passiamo alla prossima scena Johnny».
L’espressione di Colin, non riesco a guardare altro, è il riassunto del film.

Voi direte: “Un elefantino volante sbeffeggiato per le grandi orecchie e un umano con una menomazione fisica è la stessa dinamica del primo “Dragon trainer” (2010)”. No, perché Tim Burton se ne frega di tutto, tanto che per il suo Cowboy protagonista, la perdita di un braccio non è un problema, fa esattamente le stesse cose di prima, al massimo ogni tanto ci scherza su, quelli che sentite in sottofondo sono gli scricchiolii della poetica dei freak di Burton, ma il vero colpo di genio arriva adesso.

Avete presente la scena delle cicogne del film originale? Quella che spiegava L’UNICO modo approvato da Disney per far nascere i bambini? Ecco, qui si vede un pennuto sconosciuto, si vede talmente in fretta che potrebbe essere un piccione troppo cresciuto, posarsi sulla gabbia della signora Jumbo e via, nasce il piccolo protagonista in CGI che, però, ha le orecchie sproporzionate rispetto a quanto promesso dal capo del circo Max Medici (l’immancabile Danny DeVito) al suo pubblico, ovvero un cucciolo di elefante bello bello in modo assurdo.
Fatemi capire, la cicogna no, ma la parata degli uomini vestiti da pene sì?

Già, perché la fissazione di sostituire con degli umani, gli animali antropomorfi del film del 1941, crea situazioni assurde. A partire dal cattivo cattivissimo che, per pura e semplice malvagità, le tenta tutte per far arrabbiare la signora Jumbo facendola finire in catene, salvo poi, scomparire per sempre dal film (giuro! PUFF! Sparito) lasciando tutto il pubblico a chiedersi: “Perché quel biondo dalla faccia butterata odiava così tanto gli elefanti? Era rimasto traumatizzato da Dumbo da bambino?”. Non lo sapremo mai.

Ne ho vedute tante da raccontar, giammai gli elefanti i Tim Burton volar!

Allo stesso modo: perché la donna cannone (che nell’umorismo di Burton è la donna sirena in versione “Curvy”, meno male che sei sensibile con l’altrui diversità Tim!) dovrebbe cantare “Bimbo mio” il pezzo strappalacrime che fa sudare le palpebre anche ai Rambo là fuori? Quella era la canzone con cui mamma Jumbo consolava il suo piccolo, ma qui da contratto tocca esibirsi in tutte quella scene che non possono mancare in un film su Dumbo, quindi tocca fare anche sta pantomima della canzone.

Venendo a mancare le cornacchie sosia di Adriano Celentano dell’originale, ci sarebbe la questione delle piuma da risolvere, presto fatto in questa versione del film, l’elefantino vola solo dopo aver sniffato con la sua proboscide una piuma svolazzante. SNIIIIF! Tiratona di naso e via… Si volaaaaa! Siamo sicuro che di nome faccia Dumbo e non Lapo, vero?
Passato dallo champagne allo sniffo. Gioventù bruciata.

Tra una sniffata svolazzata e l’altra, Dumbo supera la scena dei clown e dell’incendio, diventa l’attrazione numero uno del circo e gli spettacoli fanno il tutto esaurito, un bellissimo spettacolo vecchia scuola che piace tanto al pubblico. Peccato che siamo al minuto quaranta del film e ci sarebbe un’altra ora da riempire ed è qui che Tim Burton mena il suo colpo più duro.

Orfano del suo attor feticcio del cuore, Tim Burton si ricorda che c’era vita anche prima di Johnny Depp e fa tornare l’altro suo attore feticcio del cuore, quello con cui tutto è iniziato, Michael Keaton che interpreta un ricco magnate di parchi di divertimenti di nome Walt Disney John Hammond V. A. Vandevere e della sua amante tromboamica principale star Colette Marchant, interpretata da Eva Green nella parte di Lisa Marie Helena Bonham Carter.
«Hai finito con ste piume? Ma tu hai un problema serio ragazzo mio!»

L’offerta è unica: “State facendo soldi a palate con il vostro circo che presto diventerà uno spettacolo fuori moda, perché non venire a fare meno degli stessi soldi che potreste fare da soli, lavorando alle mie dipendenze, cari amici del circo?”.

Nessuno accetterebbe tranne Max Medici che nel giro di una scena diventa un piccolo borghese ripulito, il tutto mentre si organizzano le prove del grande numero: una donna che cavalca un elefa… NOOO! Non in quel senso! I bambini! Qualcuno pensi ai bambini!
Ci sono così tante di quelle battutacce che potrei scrivere qui sotto, che è meglio se evito.

Eva Green nei panni di Colette Marchant ci viene presentata come una ex trapezista di strada (eh?) e se non bastasse questo, fa riflettere il fatto che Eva Green abbia speso l’intera carriera a ricordare al pianeta di essere fondamentalmente più figa degli altri quasi sette miliardi di abitanti di questo gnocco minerale che ruota attorno al Sole e qui sia costretta a recitare avvinghiata sopra un elefante ricostruito in CGI davanti ad uno schermo verde, un po’ come se stesse domando un toro meccanico. Anzi per dirla ancora meglio, vi riporto l’affermazione della mia Wing-woman: «Sembra Valeria Marini sopra la mortadella». BOOM! Mic drop!

Una scena del film (certo che con gli effetti speciali fanno proprio di tutto ormai)

Inutile girarci attorno, Tim Burton è più svogliato del solito nel dirigere tutta questa roba, si vede che inserisce dentro scene “alla Dumbo” solo per motivi contrattuali, in questa versione, poi, la faccenda del nome del personaggio, un crudele gioco di parole con la parola “Dumb” (muto, ma anche scemo) che avevo, con la solita classe che mi rappresenta, suggerito di tradurre con Minchio, qui torna di stretta attualità.

Nell’economia di un film d’animazione, in cui tutti gli animali parlano, uno che non lo fa come l’elefantino dalle grandi orecchie, viene etichettato come “Dumb”, ma che senso ha che degli umani se la prendano con un elefante per le dimensioni delle sue orecchie, volete dirmi che i contadinacci del Wyoming ora sono tutti esperti di elefanti?
La domanda del cretino (IO): Non sarebbe stato più logico realizzarlo in stop motion?

Quando il pubblico inizia a sbeffeggiare l’elefantino, nella versione doppiata del film, viene fuori l’incomprensibile coro «Dumbo sei un dumbo!» che comunque non ha senso, anche se uno dei personaggi un attimo prima afferma qualcosa tipo «Dumbo, vuol dire che è scemo». Voi avete mai messo la testa fuori dal finestrino e urlato a quello che vi ha tagliato la strada: «cosa fai ma sei Dumbo?!?» io personalmente no e visto che trovo improbabile il fatto che le prossime edizioni del film per l’home video verranno rieditate con il titolo di “Minchio” (…un classico Disney), faccio la proposta contraria: adattiamoci noi all’incomprensibile doppiaggio italiano del film e iniziamo ad usare “Dumbo” come insulto, sentite come suona bene… Testa di Dumbo! Vaffandumbo! Grandissimo pezzo di Dumbo! Dài, è fantastico, il mondo diventerebbe subito un posto più tenero e caruccio se ci insultassimo tutti così.

«Siamo rimasti solo noi Danny, ormai anche Johnny Depp si rifiuta di lavorare per Burton!»

Eppure, la falce moralizzatrice che nel 1941 per Disney non era certo un problema, nel 2019 è un fattore, secondo voi possono mancare i Rosa elefanti in un film che esce con il titolo “Dumbo”? Proprio no, però non possiamo certo dare degli alcolici ad un elefantino, no? Cioè finché si tratta di dare della “trapezista di strada” ad Eva Green nessun problema, ma gli alcolici? Ed ecco perché nella versione di Tim Burton i Rosa elefanti si riducono ad un semplice esibizione con le bolle di sapone. No, sul serio!? Siamo davvero a questo!? I Rosa elefanti analcolici!? Non serve nemmeno inserire battutine – che in realtà sono strizzatine d’occhio – sul tenere gli alcolici lontani dai bambini, perché porco mondo, ormai è un’espressione di uso comune, vedere gli elefanti rosa è sinonimo di essere ubriachi, puoi creare una versione analcolica? Ditemi una singola cosa nella vita che diventa divertente quando gli aggiungo l’aggettivo “analcolico”, ci provo io: Tim Burton se ti incontro per strada ti tiro una gomitata analcolica, grandissimo testa di Dumbo.

Rosa elefante che cosa ti hanno fatto? CHE COSA TI HANNO FATTO!?!?

Il film continua a procede nella noia, anche perché lo sappiamo che fine fanno i parchi di divertimento al cinema, quindi il “Dumbo” di Tim Burton termina senza guizzi come tutto è iniziato, con Max Medici che acchiappa il denaro e torna a fare il suo circo senza più animali – trovata che approvo in pieno, ma proprio come i Rosa eleganti analcolici è figlia dei nostri strambi tempi – ed è qui che tutto mi diventa chiaro. Se il primo tempo di “Dumbo” è Tim Burton che adatta cose senza nessuna vera voglia di farlo e dimostrando di non aver capito il materiale originale, il secondo tempo è una grossa metafora sulla piega presa dalla carriera del regista dai capelli buffi.

Prendere i soldi di un miliardario stile Disney, per continuare a fare quello che faceva prima, portare in scena i suoi circhi guidati da Danny DeVito, sempre più patinati, edulcorati e se possibile analcolici. Tanto a Tim Burton di adattare cose non frega niente, interessa solo la sua poetica che è quasi solo più estetica e basta, una volta avrebbe trasformato il circo di Dumbo in una versione con elefanti di Freaks oggi, invece, Rosa elefanti analcolici per tutti!

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