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Dune (1984): le deliranti dune di Dino e David
Non sono mai stato in Sardegna, anche se un giorno mi piacerebbe andarci. Eppure da quanto ho capito il clima in quell’isola non deve essere tanto differente da quello di Arrakis, visto che ormai Quinto Moro pare aver preso la cittadinanza sul pianeta. Non pago di aver scritto un gran post sul Dune di Denis Villeneuve, Quinto Moro ha pensato bene di esagerare, legato al vecchio film di David Lynch e benzinato con la Spezia, si è lanciato nell’impresa, quindi lascio il palcoscenico a lui, Quinto Moro, sei tutti noi!
Il mio primo incontro con Dune è stato fortuito. A 13 anni lo registrai dalla tv. La guida tv prometteva mostri e alieni in una galassia lontana lontana, più o meno tutto quello che ho sempre chiesto al cinema.
Mi andò subito di rivederlo. E giù di seconde e terze visioni, nel giro di una settimana, per capire le stramberie varie e godermi quel tripudio di scenografie, costumi, mostri, deformità e misticismo. Non era immediato e divertente come Guerre Stellari, ma esercitò sul me adolescente un fascino magnetico.
«Un film su Dune? Molti hanno tentato», «Hanno tentato e hanno fallito?», «Hanno tentato e sono morti»
Ma che roba è?
Dune è tante cose. È sia fantasy che fantascienza. Racconto di formazione e fantapolitica. Al centro di tutto c’è la Spezia, una sostanza psicotropa in grado di far viaggiare – occhiolino – nello spazio interstellare, di ampliare le percezioni e procurare visioni – occhiolino, occhiolino. La preziosa sostanza è sotto monopolio imperiale (e noi siamo ancora qui a discutere se legalizzare i cannoli giamaicani), il guaio è che la Spezia si trova su un unico pianeta: Arrakis, per gli amici “Dune”. Immaginate cosa sarebbe l’equilibrio geopolitico mondiale se la marijuana fosse una produzione esclusiva della Giamaica? Chisselinculerebbe più Biden e Putin? Diecimila anni nel futuro le lotte non si fanno più tra nazioni ma tra pianeti, e ciascun pianeta è dominato da una sola famiglia (se ci fosse anche la Terra, entro diecimila anni sarebbe sotto il controllo dei Toretto). L’Imperatore al governo è un fantoccio servo dei poteri forti (la Gilda), una sorellanza religiosa s’intromette nelle faccende di governo e vuol dire alle donne come figliare, mentre il popolo natio del più ricco pianeta dell’universo è sfruttato dai potenti. Arrakis sarà pure sabbioso e secco, ma i metaforoni piovono a secchiate. Si dice che senza Dune non esisterebbero le saghe di Guerre Stellari, Matrix, Alien, perfino Tremors. Ed è vero!
Dune è un’ammucchiata di archetipi narrativi: il messia buono, la perdita della famiglia e la ricerca del proprio posto nel mondo, l’amore per la straniera, fazioni in lotta che rappresentano il bene e il male, i dominatori e i ribelli, miti millenari, manufatti e sostanze che conferiscono potere.
La trama ordita tra Frank P. Herbert non manca di nulla, con baroni e duchi, computer umani e streghe, mostri giganti, intrighi di palazzo, vendette e profezie. Ogni personaggio abbastanza importante da essere nominato finisce per avere il suo ruolo nella storia, ogni storia è un filo che tesse l’immenso arazzo (arazzo, che fa rima con quanto si riesce a capire dal film di Lynch).
Ma l’anima di Dune si trova un po’ ovunque dagli anni Settanta in poi: l’eroe di buon cuore, destinato a diventare messia (Paul Atreides vs. Luke Skywalker) entrambi in un pianeta sabbioso (Arrakis vs. Tatooine) popolato da ostili beduini delle sabbie (sabbipodi Tusken vs. Fremen), un antico ordine religioso capace di influenzare le menti (Le Bene Gesserit vs. i Jedi, la Voce vs. la Forza). Potrei andare avanti per ore. Persino la parola Jedi viene forse da Giedi Prime, pianeta dell’Imperatore. Perché anche qui c’è un Imperatore. E una Gilda.
In “Matrix” invece, Neo è il messia “dormiente che deve svegliarsi” per citare il mantra di Paul Atreides. Neo che giunge in un mondo di cui non sa nulla (Matrix come Arrakis) e si innamora della donna combattente tra i ribelli (come Paul con Chani), e una spalla esperta a guidarlo (Morpheus come Stilgar). Per non parlare delle due o trentasette similitudini, anche solo estetiche, che si incrociano fra le trame e le scene di diversi film.
«Zion Arrakis, ascoltami! Corrisponde a verità ciò che avete sentito: c’è un fottìo di gente che ha copiato da Dune!»
Il meno Lynchiano dei film di Lynch
Per chi conosce e ama David Lynch come il sottoscritto, “Dune” è un’anomalia cosmica. C’è chi vuole a tutti i costi vederci la sua impronta, ma non è certo il film ideale per approcciarsi al regista. Ma si può dire anche di qualsiasi altro film di Lynch.
Bisogna essere onesti, se già ai tempi fu considerato un disastro deve sembrarlo ancor di più ai giovani occhi abituati a fantascienza ben più rifinita nella forma, nella messa in scena e nel racconto. Ma è un amabile disastro con astronavi, miti e battaglie in un tripudio di epica e bruttezze come solo i “bruttissimi di rete Classidy” sanno essere.
[Mi sembra doveroso ricordare che gli intenti di questa non-rubrica sono sempre gli stessi: parlare di quei film che sono ciambelle riuscite senza il buco, ma con carattere da vendere, capaci di fare a loro modo la storia, non una celebrazione del brutto fine a sé stessa, ma un modo per ricordarci che l’abuso di Spezia può portare anche a questo. Nota Cassidiana]
Le Dune di Dino e David
Dopo due tentativi di produzione falliti in cinque anni, compreso l’irrealizzato e irrealizzabile “Jodorowsky’s Dune”, nel 1976 Dino De Laurentiis acquistò i diritti per il romanzo di Frank P. Herbert. Lo stesso scrittore fu reclutato per lo script ma, per quanto la si riducesse, la sceneggiatura restava troppo lunga per il cinema. Nel ’79 De Laurentiis ingaggiò Ridley Scott fresco del successo di Alien, ma dopo sette mesi di tentativi per produrre una sceneggiatura che non fosse troppo lunga o troppo idiota (qualcuno ebbe la pensata di una relazione incestuosa tra Paul e sua madre, WTF?), Ridley uscì di scena, un po’ perché si era reso conto dell’enormità del progetto un po’ per sfighe personali.
Ma gli aborti e addii non finiscono qui: la colonna sonora fu commissionata a Brian Eno, che ne compose frammenti che sopravvivono nel film senza essere accreditati, e venne poi affidata ai Toto. Tutta gente che negli anni ’80 aveva l’argento vivo addosso. I Toto sfornarono un tema principale poderoso come solo nei migliori kolossal, ma l’unico brano accreditato a Eno resta il mio preferito, suggestivo come pochi. Ascoltare per credere.
Passetto indietro per capire la testardaggine di Dino De Laurentiis che s’era messo in testa di farlo ‘sto benedetto film: di lungaggine in lungaggine i diritti andavano in scadenza e li rinegoziò una seconda volta nell’81. Fu allora che ingaggiò David Lynch, forte dell’imprevedibile successo commerciale e della sbornia di nomination agli Oscar per “The Elephant Man”. Me lo immagino il buon vecchio Dino, col simbolo del dollaro stampato sulle pupille a sussurrare “ci facciamo una fortuna, con questo tipo” (quasi-cit.) Lynch aveva già schivato il proiettile rifiutando Il Ritorno dello Jedi ma ci cascò con tutte le scarpe quando andò a dondolare sulle dune con Dino. Lavorò alla stesura del copione per sette lunghi mesi (pure lui!), mentre la produzione era in stato avanzato: c’erano in ballo 4 troupe per circa 600 persone e qualcosa come 70 set diversi. Numeri che farebbero dare i numeri ai più ottimisti Peter Jackson dei nostri tempi. Frank Herbert si muoveva sullo sfondo in veste di consulente, bazzicava i set e guardava le riprese senza colpo ferire. Alla fine con centinaia di scene, effetti e dialoghi da montare, un’ora di girato fu tagliata via, trasformando il finale in quello che sembra il trailer di un film da 10 ore (come l’avrebbe voluto Jodorowsky).
Dai 38 milioni di ex presidenti stampati su fogli verdi la produzione arrivò a 45, come quando stai per pagare e ti dicono: “sì, ma più IVA”. Ci siamo cascati tutti una volta nella vita.
«Questo è il Gom Jabbar. Sai dove ti finisce quando superi il budget? O quando lasci al produttore il montaggio finale?»
Anche se viene additato come un flop il film riuscì ad incassare abbastanza da coprire i costi, e rifarsi una reputazione grazie al mercato Home Video che ne ha salvati più del 118. Questo non bastò a Lynch per farsene una ragione, non volle avere più nulla a che fare con le successive versioni estese – ce ne sono diverse, tutte intorno ai 180 minuti – a firma di Alan Smithee (il regista fittizio che raccoglie le vergogne dei film ripudiati). Ancora oggi Lynch lo considera l’esperienza più dolorosa della sua carriera, più un tradimento di se stesso e del suo mestiere che una colpa della produzione.
Io non credo che il regista fu vittima dei produttori, non più di quanto loro non lo fossero del progetto. Certo, Lynch aveva accettato – pentendosi – la rinuncia a dirigere il montaggio finale. Ma è difficile immaginare potesse imporre alcunché a una megaproduzione simile, nata da lontano. Forse ai De Laurentiis serviva più un abile tecnico rispettoso dei tempi e delle esigenze produttive (come un qualsiasi regista dell’MCU per intenderci), cosa che Lynch non era. Raffaella De Laurentiis – produttrice con papà Dino – raccontò di come Lynch fosse preso dal suo metodo di regista, a far primi piani nel deserto anziché sfruttare le riprese di massa e rimandare le sottigliezze ai teatri di posa. Smentì pure l’esistenza diuna mitologica “versione integrale” di tre o più ore. Sì, c’erano ore di girato, ma si trattava per lo più di effetti visivi. E sì, varie scene complete furono tagliate, qualcuna a ragion veduta mentre altre gridano vendetta – specialmente il finale effettivo del romanzo, accantonato per una farsa buonista sul Messia. Su questo ci torniamo.
Nonostante tutto, gran parte del film funziona. L’incipit introduce un milione di cose in modo didascalico ma efficace. Si inizia con la guardabilissima Principessa Irulan nel ruolo che in un Guerre Stellari sarebbe delle scritte scorrevoli.
Ho visto incipit assai peggiori. Virginia Madsen 1 – Scritte scorrevoli 0
primi 5 minuti introducono gli aspetti più importanti: il complotto per il controllo della Spezia, la “Voce”, e soprattutto la faida tra le casate Atreides e Harkonnen. Per capire chi sono i buoni e i cattivi basta guardarli: gli Atreides eleganti, nobili, fieri, generosi e belli contro gli Harkonnen volgari, lerci, malvagi e orribili. Con una manciata di scene e frasi ben piazzate la faida tra le famiglie risulta potente, e la caduta degli Atreides più malinconica che tragica, ma funziona. Il pensiero di una Lady Jessica affranta “com’è stato facile sconfiggerci” fa accettare con tristezza l’accaduto, mentre nel film di Villeneuve gli Atreides passano per un mucchio di deboli e idioti.
Paragrafo con Spoilerone per chi volesse avventurarsi nei romanzi:
la saga di Dune è una sfilza di tragedie una dopo l’altra. Bella eh, ma un filino esasperante quando si arriva all’ennesima disgrazia, anche se è il tocco tragico a far grande la storia. Il grande tradimento al centro del primo romanzo è reso bene in questo film, al sacrificio dei personaggi è data una certa dignità. Uno dei colpi più riusciti della sceneggiatura di Lynch è la mistica tecnica della “Voce” trasformata in un’arma distruttiva. Per i puristi del romanzo sarà una bestemmia, ma semplifica il giusto e la fa diventare un elemento cardine per la trama. Un buon modo di fare adattamento, là dove per spiegare tutti gli intrighi servirebbero ore e infinite spiegazioni. Anche la scelta di mettere voci fuori campo per farci sentire i pensieri dei personaggi è stramba, alla prima visione mi stranì parecchio, ma dà una profondità che altrimenti mancherebbe.
Non devo spiegarvi chi sono i buoni vero?
Ho sempre trovato che il personaggio più riuscito fosse il lercio Barone Harkonnen, interpretato da un Kenneth McMillan costantemente sopra le righe: viscido ed eccessivo in tutto, un cattivone da fumetto, di quelli che ami odiare. Il trucco sulla sua faccia è orridamente perfetto, scuola del body horror.
Iconica la Reverenda Madre dal volto arcigno e la testa pelata che rende benissimo l’idea delle streghe Bene Gesserit. I Fremen, fieri nativi di Dune schierano pezzi da novanta come Max Von Sydow e Patrick Stewart (munito ancora di capelli, pochi e brutti) ma i rispettivi personaggi non sono che comparse, proprio come nel film di Villeneuve, a dimostrazione che il problema di Dune è la vastità dello script. C’è pure Sean Young che tra questo film e Blade Runner è riuscita a conquistarsi un pezzetto d’immortalità nei corridoi della fantascienza.
Per gli Harkonnen giocano Brad “sempre cattivo” Dourif e uno Sting spiritato e messo lì a flettere i muscoli per il pubblico femminile. Fun fact: Sting aveva accettato di apparire nudo, ma la produzione ci ripensò all’ultimo, e dovettero inventarsi di fretta questa roba qui:
Ecco Sting con slippino Harkonnen corazzato da spiaggia. Segue la tradizionale e più castigata tuta Fremen.
Due parole sul protagonista, un Kyle MacLachlan all’epoca sconosciuto – scelta voluta – acerbo e un po’ ingessato, con pochi sprazzi del carisma che sfoggerà a Twin Peaks. Ma va detto che il personaggio di Paul è così, si lamenta anche nell’interpretazione di Chalamet (diversa, e direi migliore). MacLachlan ha quell’aria da rampollo aristocratico, quelli di buon cuore costretti a crescere in fretta. Peccato per la scena finale tagliata, quando Paul chiude il suo percorso diventando un personaggio più sinistro che salvifico. Di nuovo parentesi aperta sul finale, ci torniamo. A proposito di Twin Peaks, è cominciata qui la mania di Lynch di portarsi gli attori da un set all’altro.
Dale Cooper – Pete “Eraserhead” Martell – Big Head Hurley
Il comparto tecnico è notevole finché si parla di scenografie, costumi e scene di massa. Gli effetti speciali sono grezzi e datati, non sarebbe un problema ma ci sono brutture che si potevano accettare giusto nei primi anni Settanta. La prima battaglia con gli scudi mi causò un facciapalmo già da ragazzino, le scene spaziali – poche per fortuna – vanno sotto bevendo dall’idrante al confronto coi ben più datati “2001” e “Guerre Stellari”. La fantascienza non era troppo affine alle produzioni dei De Laurentiis, le cui uniche incursioni nel genere come “Barbarella” e Flash Gordon potevano almeno sfoggiare fieramente un tocco kitsch. Pure Dune sembrava nato per diventare una roba mezza new age mezza hippie e fantafilosofica, o così la voleva Jodorowsky. Qualcosina – poco – è sopravvissuto. Ci sono tantissimi dettagli e trovate che presi singolarmente sono ottimi. Purtroppo dei tanti talenti coinvolti nessuno riuscì a spiccare veramente. H.R. Giger che stava nel progetto dai tempi di Jodorowsky (raccomandato da Salvador Dalì in persona) doveva curare la sola estetica degli Harkonnen, il loro palazzo doveva riprodurre le grasse fattezze del Barone. Ne sopravvive un’impressione in due inquadrature sfuggenti. La sua estetica “malata” era perfetta per gli Harkonnen ma nel film emerge in modo discontinuo: un costume Harkonnen qui, una scenografia Atreides lì.
Le mostruose creature della Gilda, così come i vermi giganti, si devono a un Carlo Rambaldi in forma ma non all’apice. I vermi di Arrakis funzionano per la combinazione di effetti, fotografia e inquadrature, e fanno ancora la loro porca figura, ma i bozzetti di Giger erano tutt’altra cosa. I costumi sono incredibili, ogni gruppo ha la sua estetica particolare (Jodorowsky docet). Le corazze Harkonnen hanno quel tocco da armatura medievale, coi loro soldati nerovestiti metà macchine e metà organici. Poi ci sono le vesti delle Bene Gesserit e lo sfarzo vittoriano della corte dell’Imperatore. Riuscitissime le tute distillanti Fremen, fatte a mano e su misura (contro le porcate di gomma e fibbie nel film di Villeneuve) e si meritavano il loro nome, visto quando facevano sudare chi le indossava. Scomode e soffocanti, ma esteticamente fighissime.
Oh, e se le bruttarelle vesti della Gilda vi sembrano buste per cadaveri, è perché sono esattamente quello! Ed erano pure usate, storia vera.
«15 uomini sulla cassa del mostro, Oh oh oh, e una bottiglia di spezia!» quasi-Cit.
Nato vecchio o fuori dal tempo?
Fosse uscito con dieci anni di anticipo “Dune” sarebbe stato un cult leggendario, anche coi problemi di montaggio. Ha un look molto anni Settanta – ed è un complimento – ma usciva fuori tempo massimo. Il budget mostra i muscoli in gran parte delle scene, ci sono momenti iconici e per estetica e stile visivo ha qualcosa di unico ancora oggi. Vedere il Barone Harkonnen che svolazza, i grandi spazi aperti, gli interni di palazzo e le scene desertiche valgono tutto il prezzo del biglietto.
Certo non si campa di sola estetica e la fotografia si muove tra alti e bassi. Ben riusciti gli occhi azzurri dei Fremen, un lavoraccio di effettistica artigianale perché gli attori non indossavano lenti a contatto – che non davano la resa sperata. Discutibile la resa di alcune scene nel deserto: visto che su Arrakis non dovrebbe esserci traccia di azzurro nel cielo (capito Villeneuve?) ci volle un enorme lavoro di post-produzione, senza l’uso di filtri digitali. A volte funziona e a volte stranisce, tipo la scena della cavalcata sul verme.
Tipo Ben Hur. Con vermi lunghi 300 metri al posto delle bighe.
“Paul era un uomo che giocava a fare Dio, non un Dio benevolo che faceva piovere sul deserto.” Parola di Frank Herbert che disse di apprezzare il film, almeno per lo sforzo di tradurre in immagini l’universo da lui creato. Di certo la sceneggiatura perde tutta la dignità nel finale, non tanto per Paul “l’uomo-che-sussurrava-ai-vermi”.
I dieci minuti finali sono il crollo dopo che la baracca è andata a fuoco: stacchi casuali, azione illeggibile, una resa dei conti pasticciata a cui manca metà del girato. Il lieto fine con l’eroe che vince sui cattivi mi starebbe pure bene se avesse senso nel film. Ma non ne ha.
A questo giro sono scoppiato a ridere (storia vera) quando la voce narrante la spara grossa: «Dove c’era la guerra Usul portava la pace. Dove c’era l’odio, Usul portava l’amore.» Seeeeeee, uguale proprio!
Un saluto a tutti i Lynchiani e dunisti sniffaspezia della galassia. Lunga vita e prosperità!
P.S. Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film! Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.
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