Il nostro predicatore delle sabbie, il fremente Quinto Moro strafatto di Spezia ci accompagna nel viaggio definitivo (?) sul sabbioso Arrakis.
Lo volete un consiglio? Non accettate consigli. Non leggete recensioni. Questo Dune Parte Due andate a vederlo e basta, anche se avete saltato il primo.
Siete ancora qui? Allora facciamo un ripassino. Il primo Dune di Denis Villeneuve aveva la sfiga nera di uscire nel post pandemia. Pur coi cinema ancora falcidiati dal calo degli ingressi era riuscito a fare bottino, anche se la produzione del sequel nei deserti cinema post-Covid non era così scontata.
Dei pregi e difetti del primo film avevo già parlato e confermo tutte le vecchie impressioni. Da affezionato dei libri e di quell’amabile disastro che fu il film di Lynch, mi sono fatto una ragione dello stile rigoroso e sin troppo freddo di Villeneuve. Il regista canadese sa come confezionare film visivamente notevoli, spendere un budget faraonico e dirigere un cast di stelle. E’ un Christopher Nolan con meno seghe mentali e un gusto simile per le cose fatte in grande, ma meno votato all’intrattenimento puro.
Riassuntino della parte prima: Arrakis, detto Dune, è l’unico pianeta della galassia in cui si trova la leggendaria Spezia, necessaria per i viaggi interstellari, oltre che apprezzata droguccia mescalina per viaggi mentali e ottima per impepare le cozze. L’Imperatore Shaddam Hussein IV (Christopher Walken), toglie il controllo di Arrakis alla casata degli Harkonnen (brutti e cattivi) per darlo agli Atreides (bellocci e buoni), così da farli entrare in guerra e indebolire le casate. In mezzo ci sono i Fremen, nativi del deserto in attesa di un messia che possa liberarli. Intorno ci sono le Bene Gesserit, streghe che cospirano da millenni per crearlo davvero, quel messia, e che contro ogni previsione potrebbe essere il giovane Paul Atreides. Paul e sua madre sopravvivono allo sterminio della casata e trovano rifugio presso i Fremen.
Non era scontato vedere questo secondo capitolo, ma sarebbe stato un delitto non vedere l’ascesa e la vendetta di Paul “Muad’Dib” Atreides, anche perché di ciccia ce n’era ancora tanta da vedere (non solo quella del Barone Harkonnen). Riunita la combriccola, confermato il cast sopravvissuto alla mattanza del primo film, abbiamo un’altra infornata di attoroni sulla cresta dell’onda: Léa Seydoux, Austin Butler, Florence Pugh e il sempre vecchio Christopher Walken che non si butta mai via.
Stavolta Villeneuve ha preteso la distribuzione esclusiva in sala cinematografica (senza l’uscita in concomitanza su HBO Max come nel primo film). Sacrosanto, perché al netto di qualunque difetto, film del genere vanno visti in sala, e questo è ancor più spettacolare e ambizioso dell’altro. Aspettarlo in streaming sarebbe un peccato mortale. Guardatelo nella sala più grande che riuscite a trovare.
Questa doveva essere la parte più epica e spettacolare, per grazia divina lo è: lode a Lisan Al-Gaib! Il primo film riusciva nella non facile impresa di apparire freddo in un assolato deserto, e lento pur andando con l’avanti veloce rispetto alle fittissime trame del romanzo, comunque impossibili da sviscerare interamente.
Il cambio di passo più evidente è stato nella sceneggiatura, la struttura è lineare, il ritmo parte blando per poi salire nella parte finale – anche se i passaggi frettolosi non mancano, ma nelle tre ore scarse (che non pesano, anzi) il minutaggio dei vari personaggi è ben distribuito in base alla loro importanza nelle dinamiche del racconto.
Il tormento di Paul per il suo oscuro destino da Messia e il delirio religioso dei Fremen sono la colonna portante della storia, così come il senso di scommessa sulla credulità dei Fremen. È forse questo l’aspetto meno immediato ma più rilevante del romanzo originale, ed è la cosa che emerge via via nella pellicola. Gli intrighi politici, i piani delle Bene Gesserit, l’ecologia di Dune, sono solo un fitto contorno alla vera natura del racconto: gli equilibri tra fede e potere, e come attraverso questi le persone riescano a costruire da sé le proprie gabbie e le proprie rovine, dall’Imperatore, agli Harkonnen, allo stesso Paul, trasformando il mondo e se stessi.
Parlando di trasformazioni, il pelatone qua sopra è Austin Butler nei panni di Feyd-Rautha, lo psicopatico na-Barone Harkonnen. Non gli avrei dato due lire e invece si mangia il ruolo, gode di una delle scene più grandiose del film, un combattimento tra gladiatori sotto il sole nero. Feyd è un personaggio poco esplorato e funziona come villain, persino meglio del Rabban di Bautista e il Barone Harkonnen di Stellan Skarsgård. Purtroppo, questi Harkonnen non riescono a farsi odiare abbastanza, scavalcati in importanza e peso politico dalle Bene Gesserit e dall’Imperatore.
Lo script è sempre concentrato sui Fremen, sui protagonisti “buoni” che finalmente vediamo evolversi (cosa che non accadeva nel primo film). Anche a questo giro Rebecca Ferguson dà una pista a tutti mostrandoci una Lady Jessica diversa, un personaggio nuovo e trasformato e più sinistro. Anche Stilgar, il guerriero Fremen solo accennato nel primo film, si evolve nel fanatico religioso ciecamente fedele al Messia, e Javier Bardem centra il personaggio. La Chani di Zendaya è un personaggio monolitico, che si distingue dalla controparte cartacea soprattutto nel finale, dove promette grandi cose per un possibile (anzi probabile) terzo capitolo.
E Timothée Chalamet? Ha la sfiga nera di essere al centro di una storia in cui tutto è più grande e interessante del protagonista stesso, almeno sino al momento in cui si trasforma in ciò che sperava di non diventare. Paul appare più maturo e tormentato, in bilico tra ciò che vuole e ciò che deve fare. Nel finale, Chalamet ci regala un Messia invasato e oscuro, che sfida i fedeli per imporsi su di loro, puntando tutto sul rosso del sangue che è pronto a far scorrere. Quel “accompagnateli in Paradiso” è il suo momento badass, anche se non brilla nei combattimenti, che abbiamo capito non essere il punto forte nella regia di Villeneuve.
Il film è visivamente spettacolare, anche se Villeneuve non fa un cinema d’azione convenzionale: non c’è una costruzione coreografica nelle battaglie che funzionano solo nella magnificenza delle grandi inquadrature, delle musiche e i dollaroni e pixel ben visibili a schermo. Comunque Villeneuve ha alzato parecchio l’asticella, regalandoci momenti grandiosi ed epici, con una cifra di scene tese e coinvolgenti. Ha finalmente imparato che Dune è un pianeta desertico, e come tale deve sembrare caldo, giallo, e molto, moooolto sabbioso. La sabbia è onnipresente, vibra all’arrivo dei vermi, è il manto che nasconde i Fremen, sembra sbatterti in faccia mentre le dune si infrangono al passaggio dei vermoni. Anche il sonoro è strepitoso, sembra di sentire ogni singolo granello di sabbia, ma stare ad elencare i privilegi di un comparto tecnico perfetto non serve. Hans Zimmer – a cui voglio un gran bene – fa quello che sa fare, riempire le scene con sonorità potenti, ma senza costruire un tema musicale riconoscibile, una melodia, una sequenza di note che rimanga in testa.
Continuo a trovare discutibile la scelta di design dei vermoni del deserto, con quelle boccucce da tenia, ma nelle scene in cui compaiono (ahimè poche) c’è da tenersi ben saldi alla poltroncina. Assolutamente da brividi la prima cavalcata sul verme di Paul, per quanto mi riguarda vale da sola la visione. L’altra scena madre è il combattimento in un’arena da gladiatori con Feyd, sotto il sole nero che brucia tutto e spegne i colori. Peccato che la battaglia finale sia invece frettolosa, anche se l’entrata in scena dei vermoni è tanta roba, si procede con l’avanti veloce e ci si ritrova in un finale che è quasi un cliffhanger.
Con le sue tre ore scarse, che filano via lisce tra un assalto a un carico di spezia e una bevuta di acqua della vita, tra uno sgozzamento e un’esplosione, tra un intrigo e una battaglia, il film chiude la storia del primo romanzo ma si lascia aperta la via a un terzo film basato su Messia di Dune, il romanzo che di fatto chiuderebbe la storyline principale di Paul “Muad’Dib” Atreides. I segnali ci sono tutti, dal finale con la Zendaya furiosa, alla scelta di escludere un personaggio cruciale ma buttando lì un cameo di tre secondi netti con “Alia” Taylor-Joy, messa lì per far crescere il fomento.
Difetti? Direi che dipende più dai gusti che altro. Dei difetti oggettivi lascerei parlare gli infedeli, io sono uscito dalla sala con le braccia al cielo gridando “Lisan Al-Gaib! Lisan Al-Gaib!”, perché stavolta ho visto e vissuto uno spettacolo degno di chiamarsi Dune.
Villeneuve ha ormai definito il suo stile, che non è quello dei grandi Blockbuster, non fa cinema popolare per tutti i palati, e non cerca di ingraziarsi il pubblico con qualche trovata facilona. Non è un maestro nella costruzione del racconto, ma è un maestro della confezione e a questo giro è riuscito a coinvolgermi e tenermi incollato allo schermo dal primo all’ultimo minuto. Sì, la storia e i personaggi sono privi di qualunque ironia, tutto è serio, grave, ma ci sta. Questo è un gran bel film di fantascienza, che non ridefinisce né inventa niente di nuovo, anzi prende un racconto vecchio e imitato per decenni perché solido e sempre attuale, gli mette un bel vestito e ci fa godere di un grande spettacolo. Da vedere, e rivedere.
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