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Dunkirk (2017): assedio cinematografico

Non sono mai stato un “Nolaniano” convinto, penso che il regista inglese sia destinato ad essere ricordato come uno dei grandi, un giorno forse racconteremo di aver vissuto nell’era di Nolan come altri hanno potuto dire di aver visto in sala i migliori film di Spielberg o di Hitchcock, i due grandi nomi in equilibrio tra intrattenimento del pubblico e autorialità che vengono sempre fuori parlando di Nolan.

Malgrado la mia non-Nolantitudine, Nolantesimo, Nolan, oh insomma avete capito! Malgrado quello, sono andato a vedere “Dunkirk” nel primo weekend di uscita all’Arcadia di Melzo dove viene trasmesso in 70mm, ottima occasione per una rimpatriata con i vecchi soci (Saludos amigos!) e per gustarmi un film che davvero va visto sullo schermo più grosso che riuscite a trovare, con un impianto sonoro che vi faccia tremolare la sedia come quella dei piloti degli Spitfire.

Le premesse non erano facili, non ho letto recensioni sul film, cerco di non farlo mai, ma i pareri erano tutti all’insegna dei toni bassi, quello peggiore urlava al capolavoro, giusto per darvi un’idea. Forse “Dunkirk” era il film che stavano aspettando tutti, sì, perché per la prima volta Christopher Nolan si è tenuto lontano da uomini vestiti da pipistrello, maghi, trottole e viaggi stellari per firmare un soggetto serio e realistico come l’evacuazione dei soldati alleati circondati dai Nazisti e in rotta dopo la disfatta in Francia nel 1940.

Gradevoli gadget dal cinema Arcadia con aggiunta di dita umane.

Questo e il fatto che Nolan sia molto amato hanno fatto sì che i commenti generali fossero tutti dal capolavoro a salire, in tutta onestà, devo dire che “Dunkirk” mi è piaciuto anche moltissimo, potrebbe tranquillamente essere il miglior film di Nolan e quasi sicuramente uno dei migliori visti quest’anno, eppure io ci speravo nel fondo del mio cuoricino cinefilo che questo film di guerra, genere che amo moltissimo, fosse quello con cui anche io sarei diventato “Nolaniano”, “Nolanese”, insomma quella roba lì, invece sfiga: nemmeno questa volta riesco ad uscire dalla sala totalmente convinto e soddisfatto.

In “Dunkirk” ci sono i soliti difetti dei film di Christopher Nolan, si vedono molto meno, ma non vuol dire che non ci siano. Se dovessi fare la somma dei pro e dei contro mi verrebbe voglia di fare solo una cosa: dirvi di correre a vederlo. Sul serio, smettete di leggermi e correre a vederlo, se ne avete la possibilità in 70mm perché merita, visivamente potentissimo, un’esperienza cinematografica come raramente possono accadere nell’anno di grazia 2017. Sul serio, andate perché vale, ma siccome io l’ho già visto, intanto continuo.

Se “Inception” (2010) era Nolan che diceva la sua su “Matrix” (1999), “Dunkirk” è la risposta dell’Inglese a “Salvate il soldato Ryan” (1998), Nolan ha la spocchia di chi può permettersi di dire: «Spielberg ha fatto 40 minuti di soggettiva portandoci tutti in mezzo allo sbarco in Normandia? Bene, io farò tutto il film così!», peccato che abbia il talento per farlo, per la fortuna di noi spettatori.

«Ehm ragazzi, credo che stiamo per avere un problema…»

Dal 1998 quanti film avete visto con il protagonista stordito dall’acufene che si guarda intorno e vede i suoi compagni morire malamente come faceva Tom Hanks nel film di Spielberg? Ve lo dico io: tantissimi. E’ diventato talmente un archetipo narrativo che nell’ultima stagione di Giocotrono hanno rifatto la stessa scena… Due volte!

Molto probabilmente ora “Dunkirk” sarà il nuovo standard con cui i registi dovranno confrontarsi per mostrare la guerra al cinema, perché basta la prima scena, per portarti davvero dentro la storia, quando il Dobly Atmos fa tuonare il primo sparo del film come una cannonata, non solo ti ricorda quello che già sappiamo tutti (tranne i guerrafondai convinti), ovvero che la guerra è una merda, ma che i protagonisti sono davvero nei casini.

Ottima scelta quella di Nolan di aprire il film con la faccia dello sconosciuto (ma molto bravo) Fionn Whitehead, una scelta che aiuta lo spettatore ad immergersi in un film fatto di situazioni più che di personaggi, in cui per assurdo si prova un costante senso di ansia per il destino dei personaggi, ma molto probabilmente arriverete a fine pellicola senza ricordavi nemmeno il nome di uno di loro, una spersonalizzazione che ha cittadinanza in una storia del genere, ma va tenuta comunque da conto.

«Come ti chiamo soldato?» , «No Soldato è uno dei Pinguini di Madagascar»

Di fatto, Chris Nolan elabora alla sua personale maniera l’idea stessa del film bellico ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, un genere enorme fatto di titoli gloriosi, ma molti dei quali appartenenti ad un altro sottogenere molto vasto, quello dei film d’assedio. Ecco, “Dunkirk” è un enorme film d’assedio, i soldati inglesi in rotta devono trovare una nave per attraversare il canale della Manica, un tratto di mare così breve che guardandolo si vede casa laggiù in fondo, ma fosse facile cazzarola! Con i Tedeschi che manicano terreno i nostri sono schiacciati in una morsa e trovare una nave su cui imbarcarsi può essere un’impresa non da poco.

Dicevo dei difetti di Nolan, no? Ecco, il primo dei quali è la sua spocchia, caratteristica di quelli proprio bravi bravi come lui, ma sempre presente. Quella che lo porta a volersi giocare tutte le trame con quel tocco di complicazione che trasforma una trama normale in un “Ma che bravo che è Nooooolan”, non è una novità, no? Lo fa dai tempi del bellissimo “Memento” (2000) non dico nulla di nuovo.

Allo stesso tempo, però, il nostro Chris ha una fifa blu di perdersi il pubblico, quindi anche “Dunkirk” risulta un film teso all’autorialità a tutti i costi, per certi versi anche estremo per essere un film che verrà visto da gazzilioni di persone che, però, il suo momento spiegone lo deve piazzare.

Scegliete una vita, scegliere un film, scegliete lo spiegone… (And a lust for life).

Quindi, le tre trame portate avanti in contemporanea dalla storia, vengono spiegate da una bella didascalia, anzi nella versione 70mm, complice il fatto che probabilmente non è stato possibile tradurre in italiano i cartelli con le scritte, ad un certo punto parte fortissima la voce di Robin Williams (del suo doppiatore lo so, ma quando la sento io penso al vecchio Robin) che ci descrive tempi e luoghi, “1. Il Molo. Una settimana”, “2. Il Mare. Un giorno”, “3. Il cielo. Un’ora”… Per altro, ora che ci penso: Robin Williams è stato diretto da Nolan in “Insomnia” (2002) sarà per quello che hanno scelto il suo doppiatore?

Risultato: per un film d’assedio ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, troverete pubblicati in rete schemi e schemini per spiegarne la (COMPLICATISSIMA!) “timeline”, esattamente come accaduto per “Inception” venduto come il film con la trama più complicata della storia quando era tutto disseminato di spiegoni.

Il solito utente di Reddit ci assiste con una diapositiva.

Detto questo, Christopher Nolan fa un miracolo cinematografico per 90 minuti prima di sbavare qualcosa nel finale, in cui viene fuori il secondo grosso difetto di Nolan, ovvero la sua volontà di strafare a tutti i costi. Evidentemente ha temuto gli mancasse un climax, anche se, secondo me, l’affondamento del dragamine era già il suo finale con i botti, roba da brividi, ma brividi veri il silenti Spitfire di Tom Hardy che vola a motore spento sopra gli ultimi soldati in attesa di lasciare quella dannata spiaggia.

Invece niente, ha dovuto per forza ficcarci anche un altro attacco di un aereo tedesco della Luftwaffe a tutti i costi, però senza mostrarci Tommaso Resistente impegnato a fare manovra e ad intervenire (la sindrome “Che fine ha fatto Harvey Dent?” colpisce ancora), in una scena che fa il suo dovere, ma non riesco a non pensare all’enorme mal di testa del montatore che si è visto recapitare a casa quintali di girato da cui tirare fuori un secondo climax finale.

«Vai, vai, nel cielo vai.. lassù nel cielo vai vai!» (Cit.)

Ultimo difetto? Lo sciovinismo inglese. Quello che è stato il più grande impero del mondo ha sempre marciato a testa alta, trovo incredibile che in un film di guerra che si smarca dai canoni americani e dalla loro presenza nella storia, alla fine gli Inglesi ricoprano il ruolo degli Americani patriottici, roba che se lo fa Roland Emmerich partono gli sputi, ma se lo fa Nolan “Ma che bravo che è Nooooooolan”.

“Dunkirk” è potenzialmente un bellissimo film muto girato in IMAX a 65mm (motivo per cui proeittato in 70mm rende al suo meglio) in un paio di momenti azzoppato da frasette che suonano come la stonatura del grande chitarrista. Il personaggio di James D’Arcy sembra stare nel film solo per alzare l’assist con alcune domande sceme che nessuno direbbe MAI in quel contesto (“Cosa vede?”) a Kenneth Branagh che ha il compito di andare a schiacciarle a canestro producendo l’effetto barattolo di melassa (“La patria” pronunciato con gli occhioni lucidi).

Amanti della parola “Americanata” avrete le palle di dire anche “Inglesata”?

Queste problemi, a cui lascio a voi il compito di valutare se grandi o piccoli in base al vostro gusto personale, sono le sbavature che non mi hanno fatto diventare un Nolaniano nemmeno questa volta. Il resto, invece, è tutto da godere perché esclusi questi dettagli “Dunkirk” è un film pazzesco.

Per 90 minuti Nolan ci porta letteralmente in spiaggia, dentro l’abitacolo di uno Spitfire, tra i soldati, con una cura per il dettaglio ossessiva, ci mostra fino all’ultimo bottone delle divise ricreate con perfetta veridicità storica (per questo viene da mordersi le nocche per quel secondo climax).

Di fatto, Nolan prende una pagina di storia inglese, che forse gli Inglesi più di tutti hanno sentito come tragica, mentre per gli altri è semplicemente un “…E poi i soldati lasciarono Dunkirk in ritirata” e ne fa grandissimo cinema, un’idea di spazi immensi che si rifà a David Lean (se non si fosse capito è un gran complimento) per raccontare un pezzo di storia all’insegna del… Se fossi uno di quelli che usa parole inglesi a tutti i costi direi “understatement”, ma essendo io preferisco dire: «Lei forse non è al corrente dei recenti avvenimenti, ma siamo stati presi a calci nelle palle» (Cit.)

Nolan fa del grandissimo cinema utilizzando un montaggio sonoro impeccabile, per questo vi dico cercatevi la sala con lo schermo più grosso ed un impianto audio da terremoto per godere di questo spettacolo. L’Inglese è talmente bravo che può permettersi di rinunciare quasi a tutto, tipo ai dialoghi o alla facce dei protagonisti, ma riuscendo comunque a regalare un grande spettacolo visivo.

Lettori della Bara Volante, vi presento il grande Cinema. Signor Cinema, loro sono i lettori della Bara Volante.

In un film senza dialoghi la musica ha un ruolo fondamentale e anche qui, io non sono un mega fanatico di Hans Zimmer, però cosa gli vuoi dire? Il grande compositore sforna una colonna sonora a cui manca il pezzo che ti canticchi in testa a fine visione, ma è piena di tracce pensate per esaltare le singole scene, una mi ha impressionato moltissimo: quando i due portano il ferito sulla barella e Zimmer s’inventa quel violino pizzicato ZIN ZIN ZIN che ti mette un’ansia esagerata addosso, ma ti fa anche capire l’urgenza della loro corsa disperata. Un pezzo che da ascoltare singolarmente dev’essere una specie di tortura, ma sul grande schermo vi farà aggrappare ai braccioli della poltroncina.

“Dunkirk” è tutto così, ogni scena una tensione costante e ribadisco, per 90 minuti un capolavoro che porta avanti tre sottotrame alla perfezione lasciandoci in ansia per ognuna di esse, ma potendo permettersi anche di intrecciarle, come la scena in cui alcuni dei protagonisti sono alla prese con la minaccia dell’acqua. I soldati presi di mira dal tiro a segno nazista che gli sforacchia la barchetta e il pilota che, invece, imbarca acqua sullo Spitfire, poi tra il bagno che faceva Di Caprio in “Inception” (2010) e le vasche d’acqua di “The Prestige” (2006), un giorno Nolan mi deve spiegare l’origine del suo trauma acquatico!

Acqua aria terra e fuoco, Nolan domina tutti gli elementi nemmeno fosse Capitan Planet.

Trattandosi di un dramma inglese tutto dal punto di vista dei soldati in spiaggia, ho trovato brillante l’idea di non mostrare MAI i Nazisti, che sono una presenza, una minaccia invisibile, proprio come le regole del film d’assedio insegnano. I Crucchi non si vedono mai proprio come invisibili erano i membri della gang che assediavano il Distretto 13, giusto per citare il più grande film d’assedio di tutti i tempi.

Nolan decide di giocarsela in maniera così complicata, da dedicare agli attori principali i ruoli più difficili, ero tutto contento che finalmente Cillian Murphy (quinto film con Nolan e il tassametro corre) avesse una parte rilevante in un film con tanta visibilità, invece? Invece ciccia, perché Nolan diabolico gli ha affidato un ruolo anti eroico, tutto all’insegna proprio dei toni volutamente non spettacolari di una storia così.

Intanto Ciliano nemmeno questa volta si becca il ruolo da protagonista.

La sottotrama della barchetta in mare, in cui il vero dramma si consuma ben prima di arrivare a Dunkirk potrebbe essere da solo un film, poi oh! Beccami gallina se Nolan non stava pensando a L’Orca del film Lo Squalo, quando ha piazzato l’inquadratura su quella barchetta, palesemente inadatta ad una missione del genere, che tutta sola punta verso il male aperto e verso il suo destino.

Nolan paga ancora una volta il suo debito con zio Spielberg.

Clamoroso il caso di Tom Hardy, in virtù anche dei suoi ultimi film, forse l’unico vero divo del cast a cui Nolan chiede di recitare per tutto il tempo con la maschera e gli occhialoni da aviatore sulla faccia. Tommaso Resistente cosa fa? Semplice! Si mangia il film praticamente recitando con un terzo del volto, a basket diremmo “Fare una finta con le sopracciglia” per fregare il difensore, ecco, hardy ha giusto quelle a disposizione, peccato che si mangi il film lo stesso. Molto probabilmente nel prossimo film Nolan gli farà fare la parte di un palombaro, mentre in quello dopo per alzare ancora il livello lo farà recitare direttamente con il burka!

“Dunkirk” è talmente orientato alle situazioni e ai generici personaggi che mi hanno detto che nel cast c’è anche un “One Direction”. Secondo il gergo giovanile, o almeno da quello che ho capito io, “essere un One Direction” vuol dire essere uno di quelli che canticchia e sgambetta in una boyband, il che di suo non è propriamente un complimento, insomma se vi dicono “Sei un One Direction” voi offendetevi. Malgrado tutto, io questo One Direction non l’ho visto, se l’ho visto non l’ho riconosciuto, il che mi viene da pensare è un’altra lancia da spezzare a favore del film.

Ho apprezzato moltissimo anche il crescendo finale, sempre all’insegna dello sciovinismo inglese e forse in contrasto con l’ansia e l’atmosfera mesta di quasi tutti il film, ma del tutto funzionale, se “Dunkirk” doveva raccontarci con dovizia di dettagli una pagina di storia bellica spesso descritta solo come una grande ritirata, il finale serve a prepararci a quello che verrà dopo, la storia di un’isoletta umida in cui si beve molto tè (quanto ne bevono in questo film? Sei traumatizzato? Tazza di tè!) che da sola ha resistito sotto i bombardamenti nazisti.

«Di chi hai paura dei TeTeschi??» (Cit.)

L’ultimo primo piano finale sul volto del protagonista che arriva dopo uno schermo nero, potrebbe voler essere la nuova “Trottola” Nolaniana, cosa vuol dire quello sguardo? La sorpresa di uno che ha capito di essere sopravvissuto all’inferno o l’espressione di chi realizza che la vera sfida inizia ora? Voi non abbiate dubbi, correte a vedere il film, che siate Nolaniani, Nolanesi o Agnostici questo film è da vedere per forza, se ne parlerà ancora molto a lungo.

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