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Elle (2016): Guanti di velluto (da boxe)

Mi sembra l’altro
giorno che ho iniziato questo giro della morte con la Bara Volante ed ora che cielo e terra sono tornati al loro
solito posto, quasi mi spiace imboccare la pista d’atterraggio, benvenuti all’ultimo
capitolo della rubrica… Sollevare un Paul Verhoeven!

In realtà, ho un
po’ barato (avete capito? Barato perché… Ok, la smetto!) tra il successo di Black Book e l’ultima fatica di
Verhoeven “Elle” c’è un altro titolo di messo “Steekspel” (2012) che,
però, non sono riuscito a reperire, uscito un po’ in sordina probabilmente solo
in Olanda, me lo tengo nel taschino, chissà che in futuro non possa aggiungersi
a questa rubrica, nel dubbio “Elle” è davvero il modo miglior per concludere
questa rassegna dedicata a Polveròn.

Sì, perché analizzando
una filmografia si finisce sempre a parlare dei titoli più moderni che tante
volte sono lontani dai fasti del passato di un regista, invece “Elle” come
molte cose nella carriera di Verhoeven, segue una strada tutta sua e mi
permette di concludere con una storia di trionfi, due Golden Globe come miglior
film e come miglior attrice che ricordano anche a quelli che necessitano di
premi per certificare il talento che Verhoeven è stato dato per disperso troppo
presto, invece è vivo, vegeto e pure bello pimpante.
“Elle”, oltre ad
essere il diminutivo della protagonista Michèle (Isabelle Huppert) in Francese
vuol dire “Lei”, gioco di parole che pone subito l’attenzione sulla
protagonista, ma se dovessi dirvi cos’è “Elle” in una manciata di parole, io direi
che è un guanto di velluto. Morbido, elegante, ma non per questo se qualcuno ti
schiaffeggia con la mano che sta dentro il guanto fa meno male, al massimo ti
lascia con una sensazione strana sulla faccia, una roba tipo: “Ma mi ha
colpito?” o ancora meglio “Cos’ho appena visto?”, un’elegante carocchia in
pieno volto di cui cominci a sentire gli effetti solamente dopo i titoli di
coda.


“Questa sarà ottima da lanciare contro gli spettatori”.

Tratto dal
romanzo di “Oh…” (2012) di Philippe Djian, “Elle” è un soggetto che
Verhoeven avrebbe voluto dirigere negli Stati Uniti, problema, nemmeno piccolo:
dove la trovi un’attrice di Hollywood disposta ad accettare un ruolo tanto complicato?
Esatto, non la trovi, l’unica che per stessa ammissione di Verhoeven, era
disposta a rischiare perché è davvero senza paura era Jennifer Jason Leigh che sarebbe
stata perfetta anche in quanto vecchia conoscenza del nostro Paul, ma ritenuta un nome non abbastanza grosso dagli
studios americani. Poco male, si va tutti in Francia, Paese dall’enorme
tradizione cinematografica, sfida che Verhoeven accetta con il suo solito
piglio.

Polveròn si cala
nell’esperienza di dirigere film in Francia in pieno, cast di attori e tecnico
sono tutti quasi tutti transalpini, tranne il montatore del film Job ter Burg
che fa un lavoro elegantissimo. Per superare i problemi linguistici e
poter dirigere i suoi attori nel modo più naturale possibile per loro,
Verhoeven ripassa il Francese, forte del fatto di aver passato qualche tempo in
una scuola parigina da ragazzo, non so quanto tempo quel discolo in libertà in
terra francese abbia davvero passato a studiare (immagino non troppo), ma
questa storiella dovrebbe dirvi tanto di che razza di cervello sta nel cranio
dell’Olandese.
Avete presente la
famosa storia dei primi cinque minuti di un film di cui parlo sempre? Ecco, “Elle”
inizia con la protagonista che sotto gli occhi del suo impassibile gatto, viene
violentata in casa sua da un tizio vestito da Diabolik. Pronti? Via! Subito una
scena di stupro. Grazie Paul, con questa rubrica mi hai dato un sacco di botte
da questo punto di vista.


“Tranquilla Isabè, questa è solo la prima scena del film, dopo iniziamo a fare seriamente”.

Michèle raccoglie
i cocci, si fa un bagno per cercare di lavare via la violenza e la schiuma
della vasca si macchia di rosso sangue che la protagonista nasconde subito come
a voler occultare i fatti e, a proposito della vasca da bagno, lasciatemi l’icona
aperta che più avanti ripasso.

Elle è una donna
moderna, non avrebbe nessun problema a chiamare la polizia e a denunciare il
mascherato aggressore, d’altra parte a cena con gli amici, ammette candidamente
di essere stata violentata come se non fosse niente, costringendo l’amante Robert
(Christian Berkel già visto in Black Book)
a rimandare il brindisi, in una scena di nerissimo umorismo (“Aspetti prima di
stapparla”).


“Facciamo un brindisi, yuppi-du come mi diverto…”.

Michèle è a capo
di una casa di produzioni di videogiochi e come molte donne nel mondo del lavoro,
per ricoprire un ruolo di comando, è costretta a comportarsi come e pure peggio
degli uomini, infatti la vediamo sbraitare che vuole più sesso e violenza nelle
animazioni dei videogames, mentre tiene in riga una banda di programmatori che
hanno circa l’età di suo figlio. Trovo significativo che per difendere la sua
arte, ad un certo punto, Elle pronunci la frase «Sembra che abbiano paura del
sesso», difficile non pensare proprio a Verhoeven e al contenuto di tutto il
suo cinema.

La faccenda si
complica quando l’ammiratore mascherato (se così vogliamo chiamarlo) di Elle si
fa sempre più invadente, introducendosi in casa sua e tornando a farle delle
visite di certo non di cortesia ed è qui che il film piazza il suo primo
colpo: Michèle non fa niente per evitare le aggressioni, in mano ad un altro regista
“Elle” sarebbe scivolato velocemente nel cliché della fantasia da stupro, una
cazzata maschilista e retrograda che, per fortuna, non ha alcuna cittadinanza nel
film e nella filmografia di Verhoeven che, come suo solito, qui non moralizza, lavora
nelle zone grigie che stanno tra il giusto e il palesemente sbagliato per raccontarci
una storia che, alla faccia della dura scena d’apertura (una delle tante del
film), in un certo senso, è quasi ottimista, anche se ti gonfia di schiaffoni per
tutti i suoi 130 minuti di durata.
Non ho idea come
se la sarebbe cavata Jennifer Jason Leigh in un ruolo così, sicuramente bene,
ma per nostra fortuna non avremmo mai il dubbio, perché Isabelle Huppert è
veramente fenomenale, già musa di Claude Chabrol e Michael Haneke qui l’attrice
francese è davvero perfetta nel caratterizzare un personaggio che punisce il
mondo con i suoi sguardi scuri, nascondendo turbamenti dietro una faccia da Monte Rushmore.


“Tu com’è che ti chiami? Cassidy? Mi stai sulla palle pure tu”.

Importa davvero
pochissimo che la Huppert non sia bionda come tante delle protagoniste Verhoeveniane,
davvero, fotte una sega, perché Elle è davvero la continuazione di un discorso su
personaggi femminili forti consapevoli della loro femminilità iniziato prima in
patria con filmoni come Il quarto uomo
e continuato successivamente negli Stati Uniti. La Huppert, da parte sua, si presta sempre benissimo a questo tipo di
ruoli dalla sessualità esplicita e spesso tormentata e ci restituisce una “Lei”
reale e credibile che, per fortuna, non fa davvero niente per risultarci
simpatica a tutti i costi, ma ci si affeziona comunque al suo destino e
al suo tormentato arco narrativo. Ci voleva un’attrice senza paura per una
parte così e il regista giusto per farla brillare.

La reazione di Michèle
alla violenza può sembrare anomala come il rapporto che intreccia con il suo
violentatore, ma, come detto, l’ottimismo qui brucia sotto le ceneri di un
film dall’umorismo nerissimo, sì perché, in realtà, Elle sfrutta gli “incontri” con il suo aggressore per fare un lavoro interiore su se stessa, per tornare all’origine
del suo trauma, quella che la resa l’algida stronza per la quale, però, viene naturale
tifare.


“Come lo dite voi dare calci nella palle in francese?”.

Verhoeven ci
racconta il passato di Elle, il suo tormentato rapporto con un padre pazzo e
violento, che con le sue azioni di crudeltà insensata ha rovinato la vita della
figlia per sempre, in un solo giorno maledetto, Michèle si è ritrovata
marchiata dalla lettera scarlatta dell’essere la figlia del mostro, un ruolo
che lei, traumatizzata dai gesti del padre non ha mai fatto nulla per
nascondere, prendendosi per tutta la vita insulti e offese che non merita, in
quanto la sua unica colpa è quella di essere la figlia di un locale Charles
Manson.

Questo l’ha resa
una donna insensibile, lo stupro che subisce in casa è drammatico nella
realistica messa in scena, ma, di fatto, è solo un’altra pietra nel muro (come
avrebbero detto i Pink Floyd) che la donna ha eretto contro il mondo, la sua
prima violenza, non fisica, ma emotiva Elle l’ha subita dal padre e da allora
non si è mai volutamente ripresa, finché le visite di un Diabolik erotomane non
le hanno offerto una via d’uscita.
Michèle è
diventata insensibile a tutto, quindi anche al sesso che, ovviamente, non
manca mai nei film di Verhoeven, anzi è il vero barometro di tutti i suoi
personaggi, basta vederla a letto con l’amante (Christian Berkel) che si finge
morta per capirlo e quello (scemo) dimostra pure di apprezzare!


“Questo è il blog di cui le parlavo, La Bara Volante”, “Mi fa schifo cancellalo dai server”.

Quando la donna
provoca involontariamente la morte dell’odiato padre, allora la sua vita
ricomincia, Elle comincia a fantasticare una soluzione diversa al suo stupro,
in cui è lei a trionfare, ma soprattutto raggiunge finalmente un liberatorio
orgasmo che mancava evidentemente da anni e che lascia basito persino il
violentatore mascherato che vede la donna godersi il momento senza nemmeno
bisogno di lui, povero sfigato.

Stranamente il
film non è stato accusato quasi di niente, non sono arrivate le solite accuse
di fascismo, di maschilismo o di misandria, anche perché non solo avrebbero
avuto meno senso del solito, ma Verhoeven non spende nemmeno un minuto a sminuire
gli uomini, non ne ha alcun bisogno, ha un’intera filmografia in cui ribadisce
che per lui le donne sono in tutto e per tutto superiori ai maschietti che,
come sempre, per Verhoeven sono ridicoli e grotteschi, schiavi dei loro (Basici)
istinti.
Attorno ad Elle
ruotano una serie di maschietti uno più pirla dell’altro, il figlio è un “Servo
della gleba” (per dirla come avrebbero fatto gli Elii) talmente rincoglionito
da una biondina che nega persino l’evidenza quando quella partorisce un figlio
(nero) dicendo che “sì sì, sei tu il padre!”.


“Signora dovrebbe sparare alla testa del bersaglio non all’inguine”, “Zitto, è una metafora”.

I suoi colleghi
sono dei ragazzini incapaci di approcciarsi ad una donna vera e sicura della
sua sessualità come Elle, l’amante come già citato è un altro gran fenomeno,
mentre l’ex marito un omino da niente che ancora la ama, ma non ha avuto
problemi a prenderla a sberle per futili motivi, a questa banda di fenomeni
aggiungete il violentatore che in mezzo a tutti è soltanto patetico nel suo
essere convinto di avere il controllo, di essere lui quello dominante della
coppia.

Visto che la
protagonista è Isabelle Huppert, durante la visione mi risulta impossibile non
pensare ad un altro film dalla sessualità esplicita e disturbata interpretato
dalla Huppert, sto parlando de “La pianista” (2001) di Michael Haneke, quindi lasciatemi
riprendere quell’icona lasciata aperta lassù relativa, mi era rimasta una vasca
da bagno sulle spalle e vi assicuro che pesa dover scrivere con sto coso di
ceramica in groppa.
Ora se avete
visto il film dell’ALLEGRISSIMO Haneke (e lo dice uno che apprezza farsi
prendere a calci dai suoi film, sul serio) ricorderete di certo il finale di
quel film, una scena bella tosta in cui la Huppert sanguina nella vasca da
bagno, vi risparmio i dettagli perché mi viene già voglia di portarmi le mani
all’inguine per la sofferenza, però l’allegrone Austriaco conclude l’arco
narrativo della sua protagonista nell’unico modo che conosce: con la tragedia e
uccidendo la speranza nel modo più crudele possibile.


Cambio di regista, stessa vasca da bagno.

Verhoeven
fa sanguinare la Huppert nella vasca da bagno anche lui, ma all’inizio del
film e poi offre alla sua protagonista la possibilità di uscire dall’incubo
che vive da un’intera vita e lo fa usando il sesso (in questo caso violento
degli stupri) come modo per scavare dentro se stessi nel tentativo di trovare
il modo per risolvere l’irrisolto paterno e trovare una via per tornare a “Sentire”
qualcosa, un modo per trasformare la più drammatica delle circostanze in un
evento positivo, cavare fuori il bene dal male, il tutto, senza nemmeno
disdegnare quello che per Hanake è vietatissimo, ovvero un po’ di ironia.

Un’ironia
nerissima, un cinismo che somiglia molto a quello di Elle con cui Verhoeven ci
fa, però, ridere di certe situazioni, il parto del figlio nero, le situazioni
grottesche che vedono protagonisti questi stupidissimi maschietti, il tutto
senza certo mandarle a dire e senza nemmeno dimenticarsi l’ossessione di Polveròn
per la religione.


“Perfetta! Così ci scomunicano di sicuro, va benissimo!”.

Un dettaglio su
cui mi sono ritrovato a riflettere a film molto terminato, proprio perché “Elle”
è un guanto di velluto che ti fa sentire la guancia bruciare a distanza di
tempo: Elle durante la cena di Natale si prende gioco del messaggio festivo di
Papa Francesco trasmesso alla televisione e per essere proprio sicuro che il
messaggio arrivi forte e chiaro, l’identità del violentatore (che è volutamente
la NON sorpresa del film) ci viene rivelata mostrandolo alle prese con delle
enormi statue del presepe, anzi, a dirla proprio tutta, un personaggio in
particolare che, per certi versi, mi ha ricordato il Cattolico di Black Book, proprio con il suo fanatismo
religioso giustifica, non agisce e di fatto dà il via libera al male che Elle
subisce, restituendoci così un violentatore che in davvero poco spazio di
tempo, passa dall’essere lo spauracchio nero (vestito) della protagonista, ad
un uomino da niente, uno sfigato incastrato nei precetti della sua religione e
di un perbenismo di facciata. Tutta roba non urlata, suggerita, ma molto
chiara, ribadisco: essere presi a schiaffi con un guanto di velluto.

In tutto questo,
Verhoeven è fantastico, si muove agilmente tra scene di umorismo nero, momenti
violenti e crudi nel loro realismo, ma anche scene vive, attive, di genuino
sesso in cui tutto sembra prendere vita, persino le finestre della casa di
Elle che, pure loro, sembrano tutte in fermento.


La casa dalle finestre che ehm… Vabbè lasciamo perdere!

Da vero pirata
dei generi cinematografici Verhoeven impone al film il passo giusto, se con una
mano porta in scena la rivelazione sull’identità dello stupratore più
prevedibile di sempre (anche perché non è poi così importante ai fini della
trama), con l’altra si diverte a risolvere in maniera anticlimatica i passaggi
chiave (la morte del padre di Elle), per poi mostrarci alla grande le reazioni
della sua protagonista. Un pesce che sguazza a suo piacimento nelle zone
grigie, del tutto privo di moralismo, ma armato di grande cinema.

Ho trovato “Elle”
un film bellissimo che ci restituisce in modo chiaro, un autore che troppo
spesso è stato sottovalutato o dato artisticamente per defunto, un film che ti
fa riflettere a fine visione per elaborare le immagini appena viste: una serie
di schiaffoni guantati che bruciano a scoppio ritardato, proprio per questo,
forse, ha sollevato più giudizi positivi che il clamore e i polveroni che
non mancano mai con i film di Paul Verhoeven.
Sì, perché il
nostro Olandese preferito non può fare un passo senza sollevare un polverone e
sapete chi altro fa così quando si muove? I giganti. Ecco, Verhoeven è
sicuramente un gigante del cinema, è stato un enorme piacere poterlo omaggiare
su queste pagine.


“Abbiamo finito Cassidy? Mi tieni in ostaggio da settembre posso tornare a casa?”.

La rubrica è
finita! Scrollatevi la polvere di dosso e andate a casa, ma prima permettetemi
di ringraziarvi, non ero sicuro che questa rubrica avrebbe potuto funzionare,
ne ero certo! Infatti, vi siete confermati dei lettori attenti e curiosi, grazie
per avermi dato la possibilità di divertirmi un sacco esplorando la filmografia
di un regista che prima di questa rubrica conoscevo e apprezzavo solo la metà
di quanto merita. Muchas gracias!

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