Fandango [fan-dàn-go] – 1. Danza andalusa, di origine secentesca, a ritmo binario e movimento lento, poi a ritmo ternario e movimento rapido, per lo più accompagnata dalle nacchere.
È così che inizia “Fandango” [fan-dàn-go], il film di Kevin Reynolds che siamo qui a festeggiare oggi, con una definizione da vocabolario del titolo per mettere in chiaro le sue origini, i suoi intenti e anche il suo andamento, perché questo film ha gli stessi cambi di ritmo e gli stessi movimenti, quasi folli, della danza da cui prende il nome.
All’origine di tutto, il cortometraggio di Kevin Reynolds intitolato “Proof”, un lavoro giovanile in più di un senso di questa parola, che traeva ispirazione da “Animal House” del mio amico John Landis, insomma, una serie di momenti goliardici tra amici che però impressionò uno che negli anni ’80 – e ancora oggi – era un Mammasantissima, mi riferisco a Steven Spielberg che con la sua Amblin, finì a produrre un film che alla sua uscita incassò il giusto, ma che divenne di culto con il tempo, merito di Kevin sì, ma l’altro.
Malamente (o giustamente) tagliato dal montaggio finale de Il grande freddo, Kevin Costner ebbe l’occasione di rifarsi con Lawrence Kasdan quando questo gli affidò uno dei pistoleri di Silverado, segnando per sempre i destini della carriera del KEV e molti dei suoi beh, orizzonti, di lì a venire. Nel mezzo però, è stato proprio “Fandango” il primo film da vero protagonista del KEV, una srana danza lungo le strade d’America, direzione Messico, quindi sì, quegli echi da Western un po’ ci sono anche se lo stesso personaggio di Costner, Gardner Barnes, è sulle piste dell’eroe della generazione precedente, James Dean.
La storia è molto semplice, alla consegna dei diplomi dell’università di Austin nel Texas nell’anno 1971, Kenneth (Sam Robards) e Gardner (il KEV) oltre al foglio di carta ne hanno ricevuto un altro molto meno ambito, la lettera di arruolamento per il Vietnam.
Kenneth intanto ha rotto con la sua fidanzata Debbie (Suzy Amis), niente più matrimonio quindi i ragazzi sono pronti all’ultima estate della loro gioventù prima che l’età adulta li richiami a loro a gran voce, la situazione è quella che molto cinema americano aveva già battuto, da Un mercoledì da leoni fino ad American Graffiti, anche se a questo va aggiunto un altro film “adolescenziale” fondamentale, mi riferisco a Breakfast Club.
Sì perché il viaggio di Gardner e soci, sulle orme dei luoghi dove James Dean ha girato i suoi film («Vi rendete conto che James Dean è stato in questo posto di merda?»), procede a bordo di una Cadillac serie 62 del 1959 alla volta del confine col Messico, dove il gruppo era già stato anni prima e dove hanno intenzione di tornare per disseppellire un certo Dom, un loro amico? Dovrete vedere il film per scoprirlo.
Parte della compagnia è anche il pedante Phil, quello che sogna invece di marciare in divisa, un’idea balorda per chi come Gardner vorrebbe solo non aver mai ricevuto quella maledetta lettera, ma anche Phil ha le sue motivazioni e a dare corpo al personaggio ci pensa Judd Nelson, che nello stesso anno ha firmato tutta la sua “Trilogia Nelson” sulla gioventù, prima che me lo chiediate sì, arriverà anche l’ultimo atto qui sulla Bara.
Judd Nelson impersona qui un personaggio che se il suo John Bender di Breakfast Club avesse mai incontrato, probabilmente lo avrebbe menato come rischia di fare più volte il KEV, anche perché buona parte di “Fandango” è tutto così, scemenze tra coscritti, quel tipo di idiozie uniche, fatte con gli amici giusti, che, specialmente tra maschietti, diventano ricordi mitici, perché parliamoci chiaramente, prima o poi abbiamo avuto tutti il nostro Don, quel nome, quella parola in codice che rievoca qualcosa di importante sì, ma solo nella mente di chi era lì, in quel momento, a quell’età, a quel livello di sana (più o meno…) e sacrosanta stupidità prima dell’arrivo dell’età adulta.
Ecco perché viene dato così tanto spazio al salto nel vuoto con il paracadute, una lunga sequenza comica piena di improvvisati “NO GO” e “GO ON”, perché “Fandango” è un po’ tutto così, Kevin Reynolds firma una serie di scene ben dirette e tutte a cavallo tra la goliardia e la nostalgia, il risultato è un film che come la danza da cui prende il nome, non si capisce che andamento abbia, a tratti nemmeno cosa abbia da raccontare, salvo quelle stoccate mitiche, come ad esempio la trovata del treno che vince sulle viti che tengono imbullonato il paraurti.
La parte migliore di “Fandango” resta il modo in cui la sotto trama amorosa, venga raccontata senza quasi dialoghi, si inizia con il lancio di freccette sulla foto della ex (mai dimenticata) fino ovviamente a quel ballo finale, anzi Gardner a parole dice una cosa («Mai amato una donna, lo sai») e i flashback traditori dei suoi ricordi, ci fanno capire invece che la verità va tutta in un’altra direzione e quella direzione, un po’ ritmata, un po’ scomposta, folle come il fandango, ci viene raccontata solo per immagini, quindi attraverso il cinema.
Se già non fosse un film avvolto nel culto così, “Fandango” ha una colonna sonora mitica, in cui la selezione dei brani evita la scelta più facile (e banale) del mondo, ma è invece impreziosita dalle composizioni originali di Alan Silvestri, più noto per le sue bellissime fanfare trionfali, quindi come al solito, provate a spararvi in cuffia il suo lavoro.
Per quanto riguarda i due Kevin invece, si sarebbero incontrati ancora e avrebbero lavorato insieme, anche per un titolo che rimando da troppo e che non sarebbe esistito senza la loro collaborazione in “Fandango”, tranquilli! Sta nella lista dei compleanni anche lui, stiamo lavorando per voi.
Una spanna sopra tutti, proprio il KEV, a sfoggiare tutto il carisma che lo avrebbe reso di lì a poco IL DIVO, con tutte le lettere maiuscole, degli anni ’90, menzione speciale però la merita proprio Judd Nelson, nello stesso anno, pronti via, tre ruoli grandiosi, tre sfaccettature dello stesso tema, a cui nessun attore avrebbe potuto resistere, forse anche per questo la sua carriera è rimasta là, congelata al 1985 come succede a Don in questo film, per il finale della sua personale trilogia, a breve su queste Bare, per ora… Auguri Fandango!
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