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Fargo (1996): molte cose possono capitare nel bel mezzo del nulla

Si può avere un po’ di musica epica, magari composta da Carter Burwell? Sarebbe bello vedere questa Bara Volante spuntare fuori dal muro bianco della pagina da cui scrivo e della neve che ben conoscono i protagonisti del nuovo capitolo della rubrica… Coen, Storia vera!

I fratelli Coen saranno anche “il regista a due teste” e per uno stupido cavillo legale della Directors Guild of America, abbiamo dovuto attendere fin troppo tempo per vederli entrambi accreditati alla voce “regia”, che poi è come hanno sempre lavorato, perché il loro modo di ragionare è quasi da gemelli separati alla nascita, per distinguerli una volta per tutte, Joel è quello più alto e ricciolo (o più ricciolo), sposato con Frances McDormand e con l’aria da serial killer, o per lo meno, quello che poi ti affetta e ti tagliuzza uccidendoti male come i personaggi nei film che dirige. Ethan è l’altro, quello con l’aria sembra da serial killer, ma del tipo che prima ha pianificato il tuo rapimento dal tuo caldo letto per lasciarti nelle mani del fratellino. Perché vi dico questo? Perché so bene cosa vuol dire crescere nella provincia nel mezzo del nulla più nulla mai visto, in un posto del genere, avere un fratello, quasi gemello, con cui comunicare senza bisogno di aprire bocca, può fare la differenza.

Ricordate la battuta di Marshall di “How I met your mother”? Per descrivere il Minnesota riassumeva così: «Non ci sono persone di colore in Minnesota?», «No, mi risulta che Prince sia in tour in questo momento». Il Minnesota è una landa infinita di neve per quattordici mesi l’anno o giù di lì, popolata da immigrati dalla Scandinavia dall’accento ancora nordico in cui, uno come Steve Buscemi, alto 1.75 è considerato un piccoletto. Da quelle parti, essendo comunque americani e quindi propensi all’arte di dare un nome a tutto, hanno coniato un termine per definire la popolazione, “Minnesota Nice” è il tipico atteggiamento gentile, fin troppo gentile, al limite ed oltre il passivo aggressivo di chi asseconda sempre il prossimo, tipico di chi ha poche interazioni sociali o che semplicemente risulta congelato dal freddo, il personaggio di Jerry Lundegaard, impersonato da William H. Macy (specialista del ruolo) lo riassume alla perfezione, un tipo di persona che dietro a quella facciata, potrebbe poi pagare qualcuno per rapire la moglie o peggio, farla fare a pezzi in una cippatrice.

I due criminali più pazzi del mondo… Ancora!

Immaginate di crescere in un posto del genere, bianco, bianco a perdita d’occhio, avendo nella testa e nel cuore il Noir di Raymond Chandler e Dashiell Hammett, il vero Nord, geografico ok, ma dal punto di vista narrativo, quello magnetico della narrativa e della poetica dei Coen, che dopo il sonoro e immeritato tonfo al botteghino del loro progetto ad alto budget, Mister Hula Hoop, hanno fatto come i gruppi Rock dopo l’album in cui sperimentano, sono tornati alle origini, letteralmente visto che “Fargo” si trova in Nord Dakota ma il film è ambientato più che altro a Brainerd, nel Minnesota e zone limitrofe, per il Noir tra le nevi, ottime se hai qualcosa da nascondere anche se il rosso del sangue spicca due volte più visibile che in qualunque altro posto del mondo.

Il concetto è ben riassunto dalla sequenza di apertura di “Fargo”, una delle mie preferite, da quello che è il normale panorama del Minnesota quattordici mesi l’anno, emerge prima il titolo del film e poi un’auto, sulle note del tema principale composto dal sodale Carter Burwell, che trae spunto da un pezzo folk norvegese intitolato “Den Bortkomne Sauen”, traducibile più o meno come la pecorella smarrita. Grazie al loro compositore di fiducia, un gran occhio per la composizione e la fotografia di Roger Deakins (scusate se è poco), l’inizio di “Fargo” è già ipnotico.

A mani basse una delle migliori scene d’apertura di sempre (e senza nemmeno dover spalare la neve)

I fratelli Coen hanno reso popolare una trovata che chi guarda molti Horror conosce bene, il famigerato “Tratto da una storia vera”, che è il trucco con cui puoi fare più presa sul pubblico ma anche fargli digerire le trovate più matte. Per anni Ethan e Joel hanno continuato a “trollarci” tutti – se mi è concesso un giovanilismo che poco mi si adatta – sostenendo che sì, è tutto vero, salvo poi cambiare versione al grido di ci siamo inventati tutto, ma anche portando a supporto casi di cronaca nera di persone nel Minnesota, fatte a pezzi in una truciolatrice (Storia vera, è il caso di dirlo), d’altra parte i profeti non a caso cantavano: I’m looking California, and feeling Minnesota.

Tratto da uno storia vera così finta che è già pronta per il cinema.

Il confine tra realtà e finzione è labile, tanto che il mito di “Fargo” si è alimentato di leggende di persone morte congelate alla ricerca della valigetta con i soldi, sotterrata nella neve accanto alla paletta per il ghiaccio rossa, ma tutto questo fa parte del grande gioco cinematografico messo su dai Coen, una trama abbastanza realistica, anche nelle sue svolte più grottesche, da sembrare una beh, Storia vera, quando invece per quello che mi riguarda è Cinema (quindi finzione) allo stato puro, ed ora fatemi spargere un po’ di rosso anche a me nella landa bianca di “Fargo”, aprendo al film le porte del club dei Classidy.

La neve è fondamentale in questa storia perché sarà anche candida, ma non sai che cosa potrebbe ricoprire, in questo caso a mettere in moto gli eventi, colui che sotto la neve vorrebbe nascondere molto è Jerry Lundegaard (William H. Macy), un ometto pieno di debiti che è allo stesso tempo un marito terribile, un padre senza carisma e uno sfigato assurdo che fa (male) un lavoro che odia, un venditore d’auto, la quinta essenza del sogno americano storpiato visto che non riesce a vendere nemmeno auto che escono già zincate dalla fabbrica.

Per sistemare i suoi problemi economici, paga due professionisti (sfigati quanto lui) per rapire la moglie e far pagare il riscatto al ricchissimo suocero, quindi per certi versi un Arizona, anzi no, “Minnesota Junior”, in cui a muovere gli animi, come nella maggior parte dei film dei Coen, sono sempre loro, i soldi.

William H. Macy, il classico uomo medio bianco americano, Ned Flanders ad honorem.

A garantire il rosso del sangue, che sulla neve fa il doppio dell’effetto, ci pensano i due rapitori improvvisati, Carl Showalter (Steve Buscemi) e Gaear Grimsrud (Peter Stormare), uno parla troppo, l’altro parla poco e agisce parecchio, è lui quello che sparge il primo sangue (quello del poliziotto della stradale) dando il via al massacro, sono due agenti del caos a loro volta in balìa di esso, visto che i testimoni ignari che Gaear si mette ad inseguire e a giustiziare sul posto, passavano di lì per caso, così come passerà quasi per caso nella zona del lago la protagonista del film, l’unica forse che non ha nulla da nascondere, la poliziotta Marge Gunderson, ovviamente impersonata da Frances McDormand che con la sua magnifica prova qui ha iniziato una collezione di statuine dello zio Oscar di cui francamente, ho perso il conto.

Un elemento chiave nel cinema del regista a due teste è sempre stato il muoversi tra i generi, “Fargo” ad una prima occhiata potrebbe sembrare un Noir, un Thriller o una commedia nera, o magari tutte e tre le cose, ci sono tutti gli elementi classici, l’accordo tra mandante ed esecutori, la scena del rapimento che è un gioiellino di suspence, quasi all’limite della “Home invasion” tipica degli Horror, abbiamo lo scambio di soldi finito male, e i “cani da rapina” che finiscono per sbranarsi, uno di loro non a caso è Buscemi, segni di continuità.

Lui invece, non potete mancarlo (il mento non mente ah ah) è Bruce Campbell, sempre per la continuità.

I Fratelli Coen conoscono così bene i canoni dei generi cinematografici, da poterli smontare uno ad uno con il cacciavite, nel loro cinema la coppia di criminali è un classico (fin dagli esordi del loro cinema) ma qui Buscemi e Stormare impersonano la versione definitiva della presa in giro dei professionisti ultra preparati, infatti Carl e Gaear non lo sono per niente, protetti idealmente dall’iniziale “Tratto da una storia vera”, che rende credibile ogni assunto, anche il più grottesco.

L’altra spallata definitiva si cliché cinematografici arriva con la poliziotta impersonata da Frances McDormand, che si prende gioco del canone per cui una donna incinta al cinema debba per forza partorire o perdere il bambino in un momento molto concitato della storia. Il suo personaggio ha le intuizioni più brillanti nel momento delle nausee mattutine, procede con la sua indagine spedita come un vero (ma gentilissimo) mastino rallentata solo dalle numerose pause per pranzi e spuntini, volete un gioco alcolico? Si beve ogni volta che McDormand qui mangia, non arriverete sobri a metà film.

«Sbrighiamo questa faccenda della posa delle eroine della Bara, ho fame!»

Non solo l’agente Gunderson non partorisce, ma risolve il caso rimandando tutto alla tranquillità della neve che ricopre tutto, in attesa della vera rivoluzione, quella che pronuncerà nel finale a suo marito Norm (scelta brillante per il nome), i due famosi mesi alla fine della sua gravidanza. Anzi a ben guardare, l’unico momento in cui la trama sembra prendere una direzione realistica, quindi casuale, è nell’entrata in scena di Mike Yanagita (Steve Park), in qualunque altro film una vecchia fiamma dal passato avrebbe turbato un personaggio femminile, quindi, sempre stando ai cliché, più sensibile, Marge invece non fa una piega, al massimo l’incontro le serve per dubitare della parole dell’altro marito della storia, Jerry Lundegaard, insomma come succede in un modo più vicino alla realtà, quando le idee più brillanti ti vengono in mente per assurde associazioni di idee.

Questa storia di banalità del male, sconfitta dalla banalità del bene, ci viene raccontata in modo millimetrico dal copione ottimamente portato in scena dal cast, anche se i fratelli Coen non si limitano ad aver scritto una bella storia, i nostri la raccontano alla grande per immagini, sfruttando un’idea di composizione impeccabile e uno dei migliori direttori della fotografia disponibili a loro sostegno.

Ci sono un paio di scene che apparentemente non portano avanti la storia, ma che invece sono soluzioni brillanti per giocare con le aspettative del pubblico, quando Marge esce molto presto di casa, suo marito Norm (John Carroll Lynch) le prepara la colazione, poi i due si salutano, nella stessa inquadratura vediamo da un lato il marito ancora seduto a fare colazione e la moglie, che esce dalla porta di casa. La palette cromatica tra l’interno e l’esterno della casa è la stessa, quando Marge rientra ci aspettiamo un «Ho rotto le acque», invece i Coen giocano con le nostre aspettative e tutto quello che ci concedono, è una batteria a terra per il freddo, eppure i due personaggi sono separati ma uniti, nella composizione e nell’uso dei colori che li avvolgono.

Che schifo questi Coen eh? Non hanno la minima idea di composizione.

Allo stesso modo Jerry Lundegaard sembra sempre fuori posto, oltre al sorso ogni volta che Marge mangia, bevetene un altro ogni volta che l’uomo torna a casa e sulla soglia non trova nessuno ad accoglierlo, fuori posto anche a casa sua. Per non parlare del posto di lavoro, il suo ufficio è una monocromia di grigi da cui il rosso William H. Macy spicca come il sangue nella suddetta neve, quando poi cerca di mascherare i suoi intrallazzi usando numeri di telaio che mal si leggono inviati via fax, i Coen lo inquadrano dietro alle veneziane che sembrano una profezia di sbarre future per il destino del personaggio, che giova ricordarlo, mente sempre, non sappiamo nemmeno perché si sia indebitato o come abbia fatto, lo vediamo agitarsi per racimolare soldi, ma non sappiamo come li abbia persi, anche se la sua palese idiozia potrebbe essere un ottimo indizio in tal senso.

Previsioni di un futuro ormai dietro l’angolo.

Sulle esplosioni di violenza io non ho quasi nulla da aggiungere, sto con Spike Lee quando sostiene che nessuno al cinema ammazza la gente come fanno i Coen, ho poco da dire anche sul lascito, la serie tv ispirata a “Fargo” è ancora in onda, un caso più unico che raro. Per il film i premi si sono sprecati così come le lodi, l’esimio Roger Ebert ai tempi lo definì uno dei miglior film che avesse visto, e non si riferiva a quelli dell’anno 1996, uno dei miglior film che avesse visto, punto e anche qui, storia vera.

A distanza di quasi trent’anni dalla sua uscita, “Fargo” è un film più fresco della neve, niente male per una cosetta girata nell’attesa che Jeff Bridges e John Goodman si liberassero dai rispettivi impegni lavorativi, per girare il titolo che avrebbe dovuto uscire prima di “Fargo” e che arriverà sulla Bara tra sette giorni, non mancate, ci sarà del White Russian.

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