Bisogna dirlo: è stata una lunga svolazzata, ma purtroppo
siamo arrivati alla fine… Benvenuti all’ultimo capitolo della rubrica… Above
and beyond!
Il piano di Mick Garris era quello di continuare la sua Masters of Horror a lungo, molto più
delle due stagioni che è riuscito a mettere insieme, ma il calo degli ascolti e
la difficoltà di collocare nel palinsesto un prodotto che oggi, sui canali di
streaming farebbe furore, portarono alla prematura chiusura della serie, non per
questo il nostro Mick si diede per vinto.
Con lo stesso tipo di formato e intenti, Garris bussò alla
porta della NBC e il risultato fu “Fear itself”, una serie nata da una costola
di “Masters of Horror” il cui titolo arrivava dritto da una celebre frase di Franklin
D. Roosevelt: «L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa». Armato
dell’ipnotica Lie Lie Lie di Serj
Tankian (cantante dei System of a down) come sigla, Mick Garris da enorme
studente e conoscitore del cinema horror, ebbe una seconda occasione per
dispensare orrori al pubblico americano che per un po’ rispose anche piuttosto
bene, almeno fino alle olimpiadi di Pechino del 2008.
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L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa serie antologica di Mick Garris (quasi-cit.) |
Per dare spazio alle competizioni Olimpiche, la NBC mise in
pausa la serie con la promessa di riprenderla dopo la fine dei giochi, per
trasmettere anche gli ultimi cinque episodi (dei tredici totali della prima
stagione) che tutt’ora, anno di grazia 2021, devono ancora andare in onda sul
popolare canale americano (storia vera) che semplicemente uccise la serie
prima del tempo, usando i giochi olimpici come scusa.
Mick Garris era riuscito a radunare nomi niente male per
questa serie: Brad Anderson, Ronny Yu e da proprio da Masters of Horror, gli unici due registi
a timbrare sempre il cartellino sono stati il mio amico John Landis
(gustosissima la sua “In Sickness and in Health” in italiano intitolata con
l’anonimo “Il messaggio”) e il nostro Stuart Gordon, uno che quando aveva
l’occasione di dirigere, non si è mai tirato indietro.
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Stuart (di spalle) spiega al suo assassino come strangolare… |
Questa Bara aveva già incrociato la rotta della serie
televisiva “Fear itself”, infatti l’ultimo dei nomi noti a fare in tempo a
vedere il suo episodio in tv, prima della falce olimpica è stato Larry
Fessenden, del suo “Sking and bones” avevo già parlato un pochino in precedenza ed era la prova che Garris
voleva offrire la possibilità anche a registi horror indipendenti di
conquistarsi la visibilità che un canale come NBC poteva garantire. Purtroppo,
il sogno di gloria (horror) di Garris è durato poco e senza saperlo è stata
anche l’occasione per regalare a Stuart Gordon la sua ultima regia, l’episodio
1×05 intitolato “Eater”, modificato in italiano come “Il suono della morte”, forse
perché il sinistro salmodiare del cattivone, aveva calamitato l’attenzione dei
responsabili dell’adattamento.
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… un bravo studente che ha imparato la lezione. |
Non so come siano stati assegnati i singoli segmenti di
“Fear Itself”, ma a differenza di Masters of Horror, mi immagino il lancio di magliette tipo partitella tra amici del
giovedì sera: toh Stuart! Beccati “Eater”! Scritto da Richard Chizmar e
Johnathon Schaech l’episodio ribattezzato “Il suono della morte”, sembra
apparentemente ben poco in linea con la poetica di Stuart Gordon, a ben guardarlo
la trama sembra un incrocio tra Distretto 13 e The Hidden, ma il nostro
Stuardo non si è mai tirato indietro davanti a nessuna regia, infatti, i limiti
della produzione televisiva non lo spaventano, al massimo quelli spaventati
saranno gli spettatori e gli sbirri del suo distretto.
“Eater” si gioca il tema (sottolineato malamente un paio di
volte dalla trama e presto dimenticato) della donna sola in un mondo di uomini,
Danny Bannerman (Elisabeth Moss prima di The
Handmaid’s Tale, ma dopo “Mad Men”) è una recluta con la passione per
l’horror, che ragiona proprio come una di noi, nelle pause legge fumetti
dell’orrore e quando il comandante presenta l’ospite in arrivo al distretto,
immediatamente Danny tira fuori il paragone con Il silenzio degli innocenti, perché il cervello di un appassionato
del macabro ragiona per paragoni e come dicono i suoi colleghi: «Non c’è niente
di peggio di un fanatico degli horror».
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Sempre meglio la divisa del paralume da ancella, no? |
L’ospite illustre è Duane Mellor (Stephen R. Hart) una sorta
di Joey Ramone con la passione per l’omicidio, il cannibalismo e la violenza
brutale sulle donne anzichè la musica Punk. Questo soggettone, come Hitchcock,
ha una predilezione per le bionde ed è stato beccato in casa sua con paralumi
fatti di pelle umana e altre prove dal fatto che invece di arredare casa
dall’Ikea, Duane sia era ispirato allo stile di Ted Bundy.
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20, 20, 20, 4, hours to go, I wanna be sedated (cit.) |
Una sola notte da passare nel distretto, prima del
trasferimento in un carcere di massima sicurezza prima di un giretto sulla
sedia, “Il suono della morte” del titolo italiano deriva
dall’incomprensibile salmodiare dello spilungone, una nenia di morte che fa
tipo zuzo zuza zuzo o qualcosa così, che grazie alle sue conoscenze e ai poteri
oscuri del Voodoo, permette al feroce assassino si spostare la sua chiamiamola
anima per comodità, da un corpo all’altro, divorarli, invece, è un gustoso
passatempo per Mellor.
Stuart Gordon ci trascina per quaranta minuti in un clima
tesissimo: prima nessuno si fida di Danny in quanto ultima arrivata e per di
più unica donna tra agenti maschi. Dopodiché nessuno le crederà quando inizierà
a dire che i colleghi si comportano in modo strano, a partire da Mattingley
(Pablo Schreiber prima del pornobaffo di Orange is the new black, ma dopo “The Wire”) che non solo è alto quanto Mellor, ma
inquietante quasi allo stesso modo.
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Qui era prima di finire a fare il secondino (baffuto) a Litchfield. |
Difficile trovare tracce della poetica di Gordon in questi
quaranta minuti, di certo non nel tema della storia, una variazione con sbirri
del solito The Hidden molto riuscita,
proprio perché il mestiere di Stuardo è tutto qui da vedere, con la minaccia
potrebbe arrivare da tutti i lati e indossando le facce di quelli che fino ad
un minuto prima erano (quasi) amici, la tensione non manca e in quel clima
Gordon prospera, tirando fuori il meglio dalla prova di Elisabeth Moss, che in
tempi non sospetti diretta dal regista di Chicago, era già una perfetta “Final
Girl” sola contro un mostro.
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“Ma perché questi lavori schifosi toccano tutti a me?” |
Trattandosi di una storia dell’orrore autoconclusiva,
“Eater” porta avanti la tradizione dei finali a sorpresa non per forza lieti,
ma d’altra parte le storie horror servono anche a questo: avere paura fino ai
titoli di coda e a volte anche oltre. Inutile aggiungere altro, la
cancellazione anticipata di “Fear Itself” non ci ha permesso di assistere a
nuove storie da brivido, magari dirette proprio dal nostro Stuardo, ma
soprattutto ha rappresentato l’ultima regia per il regista di Chicago.
Gli artisti muoiono due volte, quando terminano il loro
lavoro e poi ancora, quando sopraggiunge la morte fisica che per Stuart Gordon
è arrivata nel marzo del 2020, nel mezzo di una pandemia globale e
nell’’assordante silenzio anche di molti appassionati di cinema di genere. La sua morte artistica è stata rappresentata da questo episodio, non di certo per
la sua qualità, ma per l’annoso problema che affligge molti dei maggiori maestri
del cinema Horror americano degli anni ’80: l’impossibilità di trovare fondi
per portare avanti le rispettive filmografie.
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Il racconto dell’ancella della sbirra. |
Ci sono tanti grandi nomi fermi al palo da anni, il Gordon
artista, ad esempio, ci aveva già lasciato nel 2008, proprio lui che è stato uno
tra i più influenti maestri del cinema Horror, ma che in carriera, è stato
spesso dimenticato anche dagli appassionati. Quello che ho sempre amato del suo
cinema e che spero di essere riuscito a far arrivare anche ai lettori di
questo blog dal nome macabro, è l’amore di Gordon per il cinema di genere, da Lovecraft alla fantascienza il regista di Chicago ha dimostrato che si possono
fare film con pochissimi soldi a patto di avere talento e parecchio sale in
zucca.
Ma è l’autentico entusiasmo con cui Gordon ha realizzato
film ad essere un esempio, senza il minimo di puzza sotto il naso nei confronti
della famigerata serie B cinematografica, la sua filmografia è stata costellata
da gioiellini che spero aver minimamente contribuito a farvi venire voglia di
recuperare, il contributo di Stuart Gordon è stato inestimabile per ogni
appassionato di cinema di genere, lasciar scivolare nell’oblio del
dimenticatoio un tale talento sarebbe il crimine peggiore, ma sono sicuro che per
le Bariste e i Baristi non sarà così.
Capolinea gente! Siamo arrivati alla fine anche di questa
cavalcata, vi ringrazio per avermi seguito anche nei titoli più contorti e
oscuri in cui Gordon ci ha condotto per mani, ma il ringraziamento speciale va
proprio al buon vecchio Stuart: ci vediamo nei film!