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Femme fatale (2002): la donna che sognò due volte

Ogni genere cinematografico ha elementi distintivi che lo
caratterizzano, uno di quelli chiave nel noir è il ruolo della “Femme fatale”,
quindi oggi più che un film affrontiamo una presa di posizione registica,
benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Life of Brian!

Davanti alla prospettiva di continuare a lavorare,
stritolato dal sistema di Hollywood, annoiandosi a dirigere altri titoli come Mission to Mars, Brian De Palma reagisce
come molti Autori con la “A” maiuscola, andando là dove gli artisti come lui
possono essere apprezzati, avete presente Woody Allen che ringrazia i Francesi?
Stessa cosa.

Non è nemmeno un caso il fatto che dopo un film su
commissione, in cui De Palma ha fatto il suo compitino, per reazione arrivi
forse il suo titolo più giocoso (concedetemi il termine), sempre fedele alla
sua doppia strategia: un titolo per incassare, anche se con il viaggio su Marte
non è andata proprio come da programma, seguito da uno più personale, se un
thriller meglio.

Per fare le cose in grande, stendiamo il tappeto rosso.

“Femme fatale” viene messo su grazie ad una larga iniezione
di denaro transalpino, la maggior parte messo a disposizione dai produttori
Tarak Ben Ammar e Marina Gefter, per un film che sceglie di omaggiare fin da
subito la Francia che ha deciso di ospitare il regista, con una scena d’apertura
ambientata nella culla del cinema francese, ovvero il festival di Cannes. Per
quanto riguarda i protagonisti si va sul sicuro: Antonio Banderas rimbalzava da
un ruolo all’altro ed era ancora uno dei prediletti di buona parte del pubblico
femminile, mentre Rebecca Romijn (allora ancora Stamos, tanto che il marito
John compare nel film in un ruolo non accreditato come agente di polizia,
storia vera) era in quel periodo della sua carriera dove nuda o vestita, stava in
tutti i film, bionda fatta da sarto per il cinema di De Palma (la passione
per le bionde è uno dei tanti elementi che ha ereditato dal suo Maestro Alfred
Hitchcock).

«Sedetevi che ci vediamo un pezzetto di “Nodo alla gola”, l’ho visto tre volte solo questa settimana»

“Femme fatale” è legato a filo doppio all’altro titolo
estremamente cinefilo del nostro Brian da Newark, ovvero Doppia personalità, guarda caso sono i suoi due film più liberi da
vincoli produttivi, più giocosi, quelli che fanno emergere al meglio il lato
post-moderno del regista del New Jersey che, non a caso, parlando del suo film
francese, ha dichiarato quanto apprezzasse fare film su pure idee
cinematografiche, anche se la sua visione generale era spesso complicata, per i
suoi film deve imporsi di lavorare in modo lineare. Purtroppo, “Femme fatale”
con il suo budget attorno ai 35 milioni di fogli verdi con sopra facce di ex
presidenti spirati, non è stata una produzione economica come Doppia personalità, con poco più di 16
milioni raccolti nel mondo, non è stato un gran successo, ma ho la sensazione che sia un film piuttosto apprezzato da
chi lo ha visto (nel caso smentitevi voi), anche se finito presto tra i
dimenticati della filmografia di De Palma al pari proprio del film con doppio e
triplo John Lithgow.

Un gioco cinematografico di specchi a cui non tutti sono
riusciti a stare dietro? Strano perché l’imporsi di lavorare in modo lineare di
De Palma qui ci restituisce un film molto rigoroso e, a mio avviso, anche molto
riuscito che mette in chiaro fin da subito, dai fatidici cinque minuti
iniziali (quelli che determinano sempre tutto l’andamento della pellicola) le
sue intenzioni.

I primi cinque minuti, quelli con cui De Palma dichiara subito le sue intenzioni.

Laure (Rebecca Romijn) si riflette in uno specchio oscuro, quello
del televisore della sua camera da letto, il volto della donna si sovrappone a
quello Barbara Stanwyck nel film trasmesso alla tv, ovvero “La fiamma del
peccato” (1943) di Billy Wilder, l’inquadratura si allarga per rivelare il
corpo, ben poco coperto di Rebecca Romijn in una posa identica a quella del
dipinto “Venere allo specchio” di Diego Velázquez. Il film è iniziato da due
minuti e De Palma si sta già divertendo a suggerire le tante vite della sua
nuova donna che visse due volte,
oltre ad offrire reinterpretazioni di non uno, ma di due capolavori e non
abbiamo ancora finito, infatti siamo solo all’inizio.

Non conosco tanti quadri famosi, quindi assecondatemi per una volta.

Quando comincia la scena ambientata durante la cerimonia di
inaugurazione, lungo il tappeto rosso del festival di Cannes, il compositore Ryuichi
Sakamoto (al suo secondo film con DePalma) mette a sua volta in chiaro gli intenti, rielaborando a suo modo un
classico come il Boléro di Ravel, qui ribattezzato Bolerish e utilizzato come tema portante della scena e del film.

See lallero! Mi risparmio proprio la fatica di scriverla questa didascalia.

Il regista Régis Wargnier e la star del suo film Sandrine
Bonnaire, entrambi nel ruolo di loro stessi giusto per mescolare ancora un po’
realtà e finzione come piace a De Palma, sfilano sul tappeto rosso dell’edizione
del 2001 del festival di Cannes, accompagnati da una bellissima modella di nome
Veronica che indossa solo un gioiello d’oro a forma di serpente, tutto
tempestato di diamanti e pietre preziose. Laura fingendosi una fotografa ha il
compito di rubare il gioiello seducendo la modella, in un inizio che sta a metà
tra la trama di un porno e quella di un episodio di Lupin.

Oppure una puntata porno di Lupin, così, per risparmiare tempo.

De Palma, sul set di Mission to Mars si sarà anche annoiato, ma qui deve essersi proprio divertito,
anche a rimescolare le carte del suo cinema, infatti si “cita addosso” mettendo
dentro complicati trucchetti alla Mission: impossible, ma anche un limone duro tra le due donne che parte nel bagno
più stiloso credo della storia del pianeta, con ladra e modella avvinghiate
insieme contro il vetro, in un inizio che ricorda molto la scena d’apertura
della doccia di Vestito per uccidere.

Questa vale come scena della doccia.

Quando la luce salta, Laura fugge con il visore notturno e
De Palma ci dà dentro con il suo fidato “Split screen”, tecnica che solo in
questo film compare tre volte, giusto per ribadire la voglia del regista di
giocare con il cinema, anche quando il piano non fila come da programma e Laura
deve fuggire, inseguita dal resto dei suoi ormai ex complici.

Qui il gioco cinematografico messo su da De Palma si
complica, Laure in fuga viene scambiata per una sua socia, una donna di nome
Lily, sconvolta per la recente morte del marito e del figlio, la vera Lily si
suicida fornendo a Laure l’alibi perfetto, l’opportunità di prendere la sua
identità per sempre, lasciando la Francia in favore degli Stati Uniti. Ma se di
noir si tratta, con una femme fatale in giro, non può mancare il pollo
protagonista maschile che resta invischiato nella ragnatela della donna che
poi è uno dei temi classici del cinema Depalmiano: maschietti vittima delle
loro stesse ossessioni, apparentemente in controllo, in realtà in balìa di
personaggi femminili ben più tosti di loro.

Un minuto da protagonista in un film di De Palma è già spia da un obbiettivo.

Qui il maschietto di turno è il papa-paparazzo spagnolo Nicolas
Bardo (Antonio Banderas) che scattando una foto alla nuova moglie dell’ambasciatore
americano in Francia (Laure nei panni di Lily) mette in moto gli eventi, la
ritorsione degli ex compari della ladra e tutto il sogno, dentro al sogno
(dentro al sogno) che è “Femme fatale”.

Una riuscita rielaborazione e allo stesso tempo, un sentito
omaggio al genere noir che è forse il più grosso (e rischioso) gioco di specchi
messo su da De Palma in carriera. Avete presente tutte quelle teorie in rete,
quelle che di norma si traducono in tanti begli (si fa per dire) articoli
acchiappa click dai titoli strombazzati tipo: «Grease: e se la trama fosse
tutto un sogno di Sandy». Pezzi che di norma citano come attendibilissima fonte
quasi sempre un utente anonimo di Reddit o roba così? Ecco, la spiegazione per
cui tutto quello che stiamo vedendo sarebbe un sogno del personaggio principale
di un film, resta sempre quotatissima, credo che sia un imprinting che noi
pubblico occidentale abbiamo ricevuto al cinema da “Il mago di Oz” (1939)
quando Dorothy si risveglia al sicuro nel Kansas e tutto, per un attimo pare
essere stato frutto dei suoi neuroni a riposo.

Niente doccia? Abbiamo la vasca da bagno!

Non credo che sia un caso, se un altro regista poco, ma poco
poco in fissa con il mago di Oz, ovvero David Lynch, qualche mese prima di “Femme
fatale” avesse sfornato la sua versione della donna che visse due volte,
ovvero “Mulholland Drive” (2001), sta di fatto che per giocarsi la carta, era
tutto un sogno della protagonista, senza far saltare il banco perdendoti il
pubblico, devi essere un regista con le palle fumanti, per usare una tipica
espressione francese. Brian De Palma con “Femme fatale” non solo ci riesce
benissimo, ma ha saputo non far incazzare nessuno spettatore, visto che
ribadisco, dal mio punto d’osservazione, la sensazione che ho è che questo film
sia comunque stato apprezzato, da quei pochi che hanno pagato un biglietto per
vederlo.

È logico che Laure stia facendo un sogno, nella nostra testa
quando sogniamo, lo facciamo usando piani sequenza, tagli di montaggio e
inquadrature che per noi sono istintivi, ma che sono pura grammatica
cinematografica. Laure inizia il film correndo, in fuga, inseguita dai suoi ex
compari, se ci pensate è un sogno ricorrente (e rincorrente) quello di
essere inseguiti, no? Trovandosi in uno stato già molto vicino a quello dei
sogni, nel corso della storia accadono eventi che cercano di avvisarla di
quello che accadrà, tipo sogni premonitori, ovvero la scena della ragazza in
mimetica e del camion in avvicinamento.

Si intuisce che De Palma gradisce dirigere belle donne? Fa parte del canone del genere.

Laure si rende conto che tutto sta accadendo come in un
sogno e capisce che se riuscirà a salvare Lily, impedendole si suicidarsi,
forse potrà cambiare anche il suo destino che poi è il “giocoso” (l’aggettivo
del giorno) obbiettivo di De Palma, ovvero quello di sovvertire le sorti del
noir classico, genere che storicamente finisce male per i protagonisti. Di
fatto è un gioco molto pericoloso quello a cui sceglie di prendere parte Brian
da Newark, il pubblico ipotizza spesso che il mistero di un film si risolva
scoprendo che è stato tutto un sogno, ma il più delle volte non gradisce
scoprire di essere stato manipolato, De Palma, invece, ci conduce per mano dentro
questa sua partita con lo spettatore, giocando spesso a carte scoperte.

Guardate gli orologi nel film, hanno le lancette che segnano
sempre la stessa ora (quella della morte di Lily), oppure in bella vista,
troviamo momenti quasi surrealisti, come l’acquario di casa di Lily da cui
cadono valanghe d’acqua, che nella realtà è l’acqua che straborda dalla sua
vasca da bagno. Un po’ come quando nei sogni sognate che vi scappa, perché il
vostro corpo sta cercando di evitarvi di farvi bagnare il letto, ecco stessa
cosa, però gestita con più garbo da De Palma.

Messaggi subliminali, nemmeno troppo velati.

Adesso io non vorrei metterla giù troppo dura, però nel
cinema di De Palma lo scontro è spesso all’interno dello schermo, in
orizzontale, ma anche più spesso in verticale. Uno dei film dove i drammi,
accadevano sempre sull’asse verticale dello schermo era proprio Doppia personalità, l’altro dove questo
senso di urgenza è sempre descritto seguendo la direzione di questo ideale asse
è proprio “Femme fatale”. Fateci caso, ogni volta che Laure si risveglia è
perché, come nei sogni, sta cadendo nel vuoto, ad esempio la caduta dal ponte la
fa risvegliare dentro la vasca da bagno e così via.

Splash, ma la sirena qui non sta a Manhattan.

Ci sta anche che il suo personaggio viva un altro tipo di
sogno, uno erotico, in cui abbraccia in pieno il ruolo che dà il titolo al film
seducendo Banderas, anche perché, parliamoci chiaro, io sto qua a descrivere
alto basso, assi verticali, sogni, indizi, ma tanto di questo film vi ricordate
tutti principalmente lo spogliarello di Rebecca Romijn, quindi è inutile che io
stia qui a menare il torrone, le regole del gioco di De Palma sono tracciate e
molto chiare, se il suo obbiettivo era di essere rigoroso, missione compiuta
Brian.

Grazie ‘Becca, mi risparmi tante didascalie da scrivere.

Il finale di “Femme fatale” colpisce lo spettatore, lo
prende di sorpresa come la mano dalla tomba nel finale di Carrie, la scena che abbiamo già visto nel corso del film, questa
volta si risolve in modo differente per via di un piccolo dettaglio che nel
frattempo è cambiato. Mi dispiace soltanto che questo film sia stato fin troppo
frettolosamente gettato nel cestone dei titoli minori, quando, invece,
rappresenta non solo una bella lezione di cinema, ma anche un thriller tanto
efficace da potersi permettere, ad un certo punto, di sfilare da sotto il sedere
dello spettatore la poltrona comoda delle certezze e dei canoni che il genere
noir si porta dietro, non è da tutti mandare a segno un film come questo e
farlo con tanto stile.

«Shh non dire nulla, Cassidy ha blaterato per tutto il post, mi fischiano le orecchie»

Il fatto che abbia incassato poco e che in parte, sia stato
apprezzato dopo è un po’ un peccato, ma per certi versi segna anche un po’ la
spaccatura che si era creata tra uno dei padri della New Hollywood e la Mecca
del cinema americano. Se con “Femme fatale” De Palma è dovuto volare in Francia
per dire la sua su un genere che è in parti uguali sia europeo che americano
come il noir, per il suo lavoro successivo ha fatto anche di più, ha proprio
dichiarato guerra ad Hollywood, ma di questo parleremo tra sette giorni, nel
prossimo capitolo della rubrica, non mancate!

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