Nel cinema di Michael Mann si corre, si è sempre corso, che sia su una pista d’atletica o contro il tempo e qualche volta, anche contro la Storia. Si corre molto anche in “Ferrari”, in strada, in pista e fuori e questa volta, tanto per cambiare, dovrò correre anche io, che da Manniano vi do il benvenuto al nuovissimo capitolo della rubrica… Macho Mann!
Scrivere di film in circolazione da un po’ e scrivere di film appena usciti potrebbe sembrare la stessa gara, in realtà non è nemmeno lo stesso campionato o sport. Per scrivere qualcosa di sensato su un film in circolazione da molto, devi avere il supporto di una buona trasmissione che ti permetta di studiare i precedenti, devi avere gomme resistenti in grado di macinare tanti chilometri perché si tratta più che altro di una maratona, una Mille Miglia. Scrivere di un film appena uscito invece è come correre i cento metri, una gara di velocità, devi avere un motore che sprigiona subito tutta la sua potenza, difficile, per i film di Mann per quello che mi riguarda, doppiamente difficile.
Ci sono film di Mann che mi hanno colpito al cuore subito, altri che mi hanno lasciato freddo alla prima visione ed ora, considero tra i più rappresentativi della sua produzione, perché l’emotività nei film del regista di Chicago è presente, anche se a volte i personaggi non hanno proprio il tempo di soffermarsi su di essa, quindi brucia come fuoco sotto la cenere, non per questo meno rovente. Poi ci sarebbe sempre la questione di “Infernet”, vasca degli squali in cui tutto corre velocissimo, anche i giudizi perché non abbiamo (anzi, non hanno) tempo per soffermarci su nulla, per assurdo quello che non è consigliabile fare con la produzione da regista del nostro Michele Uommo.
Sorvolo sui pareri Veneziani, per esperienza so che fare un pranzo o una cena decente al Lido è complicato, quindi credo che laggiù certi pareri (non tutti eh?) siano minati dalle fondamenta da cali di zucchero o beh, da eccessiva fretta, quella che non ha avuto Mann, paradossale lo so, uno che fa film dove si corre, per progettare, costruire e mettere in pista la sua Ferrari, si è preso il suo bel tempo.
Era dall’altrettanto ingiustamente bistrattato Blackhat che Michele Uommo non dirigeva nulla per il cinema, un pilota di una serie tv, un bellissimo romanzo e nel frattempo, fermo ai box a mettere a punto un’auto da corsa senza pilota, per un po’ Enzo Ferrari avrebbe dovuto interpretarlo Chris Bale, poi Hugh Jackman e sembra di sentirli i commenti sul fatto che nessuno dei due sarebbe stato somigliante, perché sono gli stessi che sentiamo oggi su Adam “Bellissimo” Driver, che almeno lui di cognome fa Guidatore (la freddura che vi aspettavate, pratica sbrigata) e che guarda caso, non è somigliante all’originale proprio come non lo era Will Smith per i panni di Alì, quando uscì quell’altro bellissimo, dannatamente sottovalutato capolavoro di Mann, che poi per altro è il titolo della sua filmografia che somiglia più a “Ferrari”.
Quindi no, mi dispiace, per quanto io abbia apprezzato il film di James Mangold, qui siamo in due campionati diversi, come scrivere di un vecchio film o di uno uscito da pochi giorni in sala. Giacomo Uomoro usava le corse come metafora del suo rapporto con Hollywood, parlava del costante sfidare la morte dei piloti e nella sfida Ford v Ferrari, era decisamente sbilanciato in favore del lato Detroit della Forza, inoltre, un problema che Mangold ha sempre avuto in tutta la sua carriera, quello di essere assoggettato allo “Star System” di Hollywood, problema che Mann ha sempre risolto alla sua maniera.
Se Fincher quest’anno come alter ego sullo schermo si è scelto un freddo assassino calcolatore ossessivo compulsivo e Ridley, lo Scott sbagliato, nella sua megalomania ha sfoggiato tutta la sua modestia puntando su Napoleone, Michael Mann ha aggiunto alla sua collezione un altro professionista dedito e definito dalla sua professione, un altro maniaco dei dettagli proprio come il regista di Chicago, in corsa contro il tempo e contro la morte, perché qui è il costruttore di automobili quello che come dichiara all’amante, ha eretto un muro senza la quale dovrebbe cambiare mestiere, perché il sospetto che sia lui stesso, già circondato dalla morte per via del suo passato, a creare automobili lucide e affilate come la falce della nera signora, anche se in scintillante rosso Maranello.
Mann se ne frega dello “Star System”, come Ferrari che sceglie Alfonso de Portago (Gabriel Leone) un po’ per esigenza un po’ per come guida, Mann affida il suo film ad un trio di attori che posso dirlo? Ho trovato perfetti. Sarebbe bello sapere quante ore ci ha impiegato Adam Driver prima di imbroccare quella camminata stramba che sfoggia qui, quante indicazioni gli ha dato Mann, prima di incanutirlo come già fatto con il Russell Crowe di Insider per quello che è il film più centrato sul suo protagonista di tutta la filmografia di Mann, per certi versi anche più di Alì, in cui Adamo Guidatore allo stesso modo, risponde presente con una prova impeccabile, confermando la sua fama di colui che quando sale a bordo di un progetto lungamente ricercato, lo porta a termine. Non a caso lo ha scelto anche Coppola per la sua prossima Chimera.
Parliamo di ricostruzione storica, con un professionista meticoloso come Mann il lavoro si vede tutto, e chi, posseduto dallo spirito di Stanis La Rochelle, vede tutto come troppo italiano, vi do un consiglio spassionato, anzi due, rivolgetevi alla concorrenza, ovvero il modesto “Lamborghini” (2023) con Frank Grillo o a parità di protagonista (impegnato in scene di sesso sul tavolo) sempre lui, lo Scott sbagliato, poi ne riparliamo eh? Anzi a questo proposito, il doppiaggio passa come pialla a sistemare molte pronunce, specialmente quelle dei nomi italiani, ma come vi dicevo, scrivere di un film appena uscito – per di più di Mann – è uno sport completamente diverso, tra cinque anni su “Ferrari” avrò molto altro da dire e anche la percezione attorno al film sarà diversa, per ora posso solo dirvi che è un film bellissimo, Manniano al 100% e per me, che prima di tutto valuto il singolo film, e poi lo valuto all’interno della filmografia di cui fa parte (come si dovrebbe sempre fare), posso solo consigliarvelo.
Definirlo una biografia è quasi fargli un torno, lo è più o meno come lo era Alì, anche qui si prende in esame una parte precisa della vita di Enzo Ferrari, la parte più in linea con i temi cari a Mann ma anche ricostruita in modo storicamente accurato, il risultato banale, la lettura di primo livello è che si tratta di uno di quei film che risulta avvincente anche se già conoscete i fatti, che non si perde in momenti espositivi per aggiornare il pubblico (la grande lezione di Alì applicata nuovamente alla lettera da Mann) e che fotografa in maniera plumbea, cinerea, un momento della vita di un uomo fatto di luci ed ombre perché al regista di Chicago non interessa sfornare agiografie ma al massimo, storie di anti-eroi che non hanno più tempo, il cui mondo sta morendo.
L’Enzo Ferrari di Mann inizia la sua giornata come tutti suoi protagonisti maschili, lasciando la propria amata nel letto per mettersi al lavoro, solo che qui nel letto bisogna lasciare l’amante Lina (Shailene Woodley) per tornare dalla moglie Laura (Penélope Cruz), ma solo dopo aver fatto visita alla tomba del figlio Dino, per ricordare, per la volontà dichiarata di voler “vedere” il volto del figlio o anche solo per aggiungere qualche mattone a quel muro. Lo stesso figlio segreto che Ferrari vede ogni giorno in Piero, nato fuori dal matrimonio a cui il commendatore spiega i motori, la loro bellezza, chiedendogli di vedersi all’interno di un collettore d’aspirazione, perché come ha molto ben spiegato Bocchi nel suo saggio sul regista, l’atto di vedere, di guardare per capire meglio è il gesto comune e fondamentale per tutti gli anti-eroi Manniani, custodi di un mondo al tramonto.
La casa di Maranello vende i suoi bolidi in tutto il mondo ancora oggi, ma nello spaccato di storia scelto da Mann, il protagonista è ad un passo dalla fine, un matrimonio in crisi, un’azienda in rosso nei conti come nel colore delle lamiere, cosa può salvare o distruggere per sempre tutto? Una corsa, ovviamente, come sempre per i protagonisti dei film di Mann, in questo caso la Mille Miglia da vincere per forza con il suo “Spring Team” di piloti e le sue auto, ma anche contro il tempo, perché c’è un assegno che se incassato, potrebbe mettere fine a tutto, perché c’è una telefonata con l’Avvocato da fare, se i suoi piloti corrono in strada, Enzo Ferrari corre fuori, in lotta contro il tempo.
Dal punto di vista estetico Mann rifila ancora diversi minuti sul secondo classificato, la Modena raccontata dal regista è un posto dove si predicano i motori, letteralmente, come fa il prete durante la sua omelia, in cui anche la Chiesa è al servizio della religione del motore a scoppio, ed è lecito tirare fuori il cronometro per verificare se la concorrenza della Maserati ci ha battuti, anche nel mezzo della funzione.
Allo stesso modo Mann ci ricorda di essere Maestro dello “Show, don’t tell”, nella bellissima scena dell’opera lirica, l’unica in cui torna un minimo di digitale per qualche primo piano, in un film orgogliosamente analogico, realizzato proprio come Ferrari produceva le sue auto, in modo quasi artigianale, alla vecchia maniera, tanto che la sceneggiatura è scritta da Troy Kennedy-Martin (a cui il film è dedicato, insieme a Sydney Pollack) che è lo stesso di “Un colpo all’italiana” quello giusto del 1969, non quella menata di rifacimento, ma anche di Danko (altro genere di utilizzo del colore rosso), più vecchia scuola di così non era proprio possibile.
Mentre sul palco si esibiscono i tenori, i ricordi dei personaggi vengono riattivati dalla musica, ogni primo piano stretto sui protagonisti, diventa un tassello dello stesso lungo mosaico in musica, un unico grande flashback che mette in chiaro le dinamiche e i rapporti tra i personaggi e il film è pieno di questi tocchi di maestria, come ad esempio la moglie tradita Laura, che spegne la tv proprio quando sente il marito, parlando di gare dire che nessuno vuole arrivare secondo. Tra cinque anni e più visioni, sarò pronto a farvene notare altri dieci di grandi momenti di cinema così.
Oltre ad essere un film più analogico, più vecchia scuola e più centrato sul suo protagonista, “Ferrari” è anche il lavoro più apparentemente classico di Mann, ad una prima occhiata magari dettata dalla fretta, dal correre troppo velocemente, potrebbe sembrare la solita “biopic” invece è un altro soggetto totalmente coerente con la filmografia di cui fa parte, anche qui sono le donne il vero barometro degli anti-eroi Manniani, spesso anche quelle con la testa più avvitata sulle spalle. Non ho visto molti film con Shailene Woodley, quindi sono privo delle sovrastrutture e dei precedenti che l’attrice si porta dietro, qui è una donna del futuro, che non si comporta da amante isterica ed è spesso più pragmatica del protagonista, le sue passioni, le tiene a freno, come il motore di una delle auto del suo amato sotto il cofano. Allo stesso tempo Penélope Cruz è la benzina che serve a generare lo scoppio, scheggia apparentemente impazzita, “caliete” e incline ad azioni violente nel suo ruolo di moglie, lucidissima, pragmatica, fedele a famiglia e fabbrica come socia d’affari, è letteralmente impossibile non rivedere gli echi di Vincent Hanna, che discute con la moglie nel soggiorno di casa, mentre lei gli ricorda che lui come marito è assente, sempre a correre dietro ai suoi fantasmi. Se il blu nel cinema di Mann era il colore calmante, portatore di pace, qui si vede poco, perché a dominare è il rosso (Ferrari) delle passioni brucianti dei protagonisti, che ovviamente, corrono.
Si potrebbe scrivere un post intero solo sulle gare, il rumore dei motori, la scelta di rendere lo “Spring team” parte del dramma, anche loro sono uomini e professionisti che rappresentano un mondo che sta morendo, quello delle corse eroiche, dei piloti con il posacenere in auto (menzione speciale per Patrick Dempsey, che temevo fosse un modo per portare spettatrici in sala, invece si mette al servizio di ruolo e film molto bene), anche loro combattono con la morte come il loro datore di lavoro e spesso, non ne hanno nemmeno tempo. So già che molti criticheranno la scelta di non dedicare un solo minuto al dramma di chi sopravvive, eppure è perfettamente coerente con lo stile di Mann non sfoggiare, gli addii sono messaggi in una bottiglia mandati sottoforma di lettere, di cui noi spettatori già conosciamo il contenuto, anche se Mann poi pudicamente stacca, lasciando il destinatario solo con il proprio dolore.
La morte è ovunque in questo film, per sopravvivergli, per portare avanti famiglia, affari e marchio, bisogna correre infatti tutta la porzione in corsa è avvincente, diretta come si fa in paradiso, portandoci spesso a bordo e a volte, a bordo strada, dove si consuma il dramma che a Mann interessa più raccontare rispetto ad un banale taglio di traguardo, quello in cui con una continuità tematica soffocante, il regista di Chicago si affida ancora una volta ad un pezzo che aveva già fatto capolino nella sua filmografia in un momento emotivamente intensissimo di Insider, mi riferisco a Sacrifice che poi potrebbe essere anche la parola migliore per descrivere il destino dei personaggi coinvolti.
“Ferrari” si risolve con una lunga corsa contro il tempo, e in un film così pieno di morte, l’ultima scena non può che essere ambientata in un cimitero, che però ha un valore liberatorio, quasi salvifico che Mann un tempo attribuiva alla spiaggia, al blu Manniano del mare, perché da preservare questa volta è il rosso delle passioni che muovono i personaggi, che li spingono a monologhi motivazionali a tavola diretti con intensi primi piani, bisogna salvare il rosso Ferrari in un film che è classico, forse più “accessibile” al grande pubblico rispetto agli ultimi lavori del regista (per questo molti cinefili stanno facendo a gara a darsi un tono smontandolo, poveretti) ma allo stesso tempo, coerentissimo tanto che può permettersi di sfoggiare primi paini a tre quarti o rallenty sugli occhiali infilati al volo che ci ricordano che otto anni, senza il cinema di Michael Mann sul grande schermo sono stati infiniti, si spera di non dover vederne passare altrettanti prima del prossimo lavoro, di sicuro per allora avrò molto altro da dire su un film che come tanti di Mann alla sua uscita lascia tanti freddini, ma solo perché non tutti hanno la pazienza di andare a scavare sotto la cenere, o il tempo.
Sepolto in precedenza lunedì 18 dicembre 2023
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