Home » Recensioni » Fight Club (1999): fidatevi, andrà tutto bene

Fight Club (1999): fidatevi, andrà tutto bene

Prima regola del Fight Club: non essere da solo a scrivere un post su Fight Club. Ecco perché oggi, Tyler Cassidy e Quinto “Durden” Moro hanno iniziato a scazzottarsi per il vostro giubilo, il risultato è la rissa a pugni e parole che segue, buona lettura ed ora… scivolate.

DISCLAIMER

Questo commento doveva essere un dialogo, un gioco, uno scherzo tra il vostro amichevole Cassidy di quartiere e il vostro occasionale Quinto Moro da marciapiede. C’eravamo proposti di dialogare su questo film, ma nello spirito dell’opera a un certo punto ci siamo fusi. Ci siamo lasciati andare a quegli stessi dialoghi sui massimi sistemi che il film esplora. Riga dopo riga ci siamo lasciati diventare… Tyler Durden! Un’entità unica per raccontarvi una storia che ci ha tirato cazzotti in faccia, lasciandoci lividi dello stesso colore.

Ed ora prima di iniziare, prima regola di questo post: non si parla di questo post.
Intro

Nebbia. Puzza di plastica bruciata. Gasolio. Cassonetti traboccanti d’immondizia indifferenziata e grasso di vecchia liposucchiato, e quell’aroma stantio simile al pollo fritto. Strada piena di buche in una zona industriale di capannoni abbandonati. Poco più in là un quartiere residenziale dei tempi del boom economico, col cielo visibile dietro gli scheletri dei muri senza infissi né soffitti sopra, come dopo i bombardamenti.

Due figure nella nebbia. La prima porta un secchiello con birre tra palline da golf come fossero cubetti di ghiaccio, l’altra un grappolo di mazze sulla spalla. Attraversano la strada coi volti lividi e tumefatti fino a una poltrona reclinabile color blu fiordaliso e un tavolino a forma di Yin Yang straordinariamente nuovi, come freschi di consegna dall’Ikea. Tirano a sorte, forbici-carta-sasso-Lizard-Spock: uno si lancia sulla poltrona, l’altro balza sul tettuccio di una Fiat Panda incendiata che sta lì dalla prima metà degli anni Ottanta.

Tyler Cassidy ingolla un sorso di birra, Quinto Durden fa roteare la mazza sparando palline contro le rovine della città immersa tra smog e luci che vanno e che vengono. “Allora, dobbiamo infrangere le prime due regole del Fight Club”. “Infrangerle a cazzotti sui denti, la parte migliore del lavoro. Ma per farlo come si deve, dobbiamo parlare di Chuck”.

«Chuck è quello che ha detto di vestirti così?», «Pensavo avesse detto lo stesso anche a te»

Quinto ondeggia la mazza da golf, sussurra: “scivola” e scocca il tiro. Da qualche parte a due isolati di distanza un vetro va in pezzi. Una gatta strilla. Un cane abbaia di rimando. “Ti dico una cosa su Chuck, lui sì che sa scavare sul fondo. Smembra pezzo a pezzo la realtà. Chi l’aveva mai visto un film parlare dei gruppi di sostegno del cancro? Niente lacrimucce spremute, niente bon-ton politicamente corretto. No, turismo nei bassifondi delle miserie umane. Ti metti una maschera e diventi “Jack”, spione dalla vita qualunque che deve nutrirsi di disgrazie per sentirsi vivo. Siamo figli di Romero amico mio, ciondolanti zombie in cerca di carne succulenta da rosicchiare per ricavarne un po’ di vita e sangue. Te ne vai ai gruppi di sostegno del cancro come una turista, dagli avanzi dell’altrui sofferenza ne prendi un po’ per te stesso, perché sei diventato così apatico e insensibile da aver bisogno d’una botta di realtà per endovena, di riflesso dalle flebo di chi è già fottuto. C’è tutto un sottotesto politico se ci pensi”

“Fanculo il sottotesto politico. Va tutto a fondo bello. Succhi un po’ di dolore dalle vite degli altri per uscire dalla tua apatia. Non capita spesso che un film ti prenda a pugni in faccia”. Tyler mi guarda fisso: “E’ l’apatia del protagonista bello, non hai bisogno di farla tua: sei tu. Puoi essere un grigio burocrate di carta o un assicuratore di celluloide. Sei un insensibile insonne, uno per cui la morte degli altri è lavoro, freddi numeri. La tua vita è Brazil senza nemmeno la musica fuori contesto, al massimo un po’ di Pixies sui titoli di coda. Passi i tuoi giorni in ufficio davanti allo schermo. In un periodo di tempo abbastanza lungo, l’indice di umanità scende a zero. Puoi anche vivere porta a porta con la disgrazia, ma se non è la tua non ti tange. Non ti fa né caldo né freddo. La guardi dall’altro lato del corridoio. Ti chiedi come sia viverla, ma non fa parte del tuo mondo a meno che non scegli di immergerti tu stesso. Ti ci devi avvicinare in qualche modo. Guardi il vuoto che hai dentro ma devi fartelo raccontare da qualcun altro. Da qualcuno che lo soffre sulla sua pelle, o qualcuno tanto bravo da scriverci sopra un libro.”

Tyler Cassidy e Quinto Durden, durante la stesura di questo
post (seeee uguali!)

Mi sovviene una spiegazione spicciola per chi non ha ancora visto il film né letto il libro. Perché di cosa parla Fight Club in sostanza? Della deriva personale di un uomo invischiato in un lavoro mediocre, tormentato dall’insonnia e dall’apatia, che trova nella violenza delle scazzottate in un club l’àncora di salvezza dall’oblio e dal desiderio di suicidio. Allegro no? In realtà il film è condito da sprazzi di humour nero che rendono sopportabile la palude emotiva del protagonista, che si trasforma in un romanzo di de-formazione e distruzione. Più facile capire di che cazzo parlo se avete letto anche solo una decina di pagine di Chuck Palahniuk.

La prima volta che ho letto un romanzo di Chuck ho pensato che ora anche la nostra generazione avesse il suo DeLillo. Fino a “Ninna nanna” (2002) solo libri uno migliore dell’altro. “Rabbia” (2007) sarebbe stato perfetto per un film, ed è un peccato che quel capolavoro di “Soffocare” (2001) sia stato adattato al cinema in modo così scialbo.

La filmografia completa dei libri di Chuck suonerebbe col tonfo sordo d’incancreniti testicoli da golf sparati a mezz’aria, tra la tangenziale e il confine oscuro dei quartieri spettrali dei capannoni di aziende fallite. Colpi di tosse in sottofondo, fino a soffocare…

Curioso che di tutte le trame deliranti e folli dei suoi inizi letterari, a Chuck sia toccato il successo col suo lavoro più lineare, perché Fight Club lo è, per quanto sia nitroglicerina pura fatta in casa. É un falso esordio, se il mondo non era pronto al suo primo vero romanzo “Invisible Monsters”. Troppo bizzarro, tosto come solo sa essere la realtà che supera la fantasia.

L’idea per Fight Club nacque da un diverbio per schiamazzi con i vicini di piazzola al campeggio, una situazione da romanzo di Palahniuk risolta alla Palahniuk: una randa di botte incassate, e il giorno dopo al lavoro nessuno dei colleghi chiedere dei lividi in faccia. Realtà che supera la fantasia, in un mondo di personaggi reali, alienati, umani disumani in una società che come Martha Stewart sta lucidando le maniglie sul Titanic. Un reale, farraginoso meccanismo oliato solo per schioccare nello sparo a vuoto dell’empatia mancata, che suona sorda come i pugni negli scantinati del Fight Club. O come la colonna sonora di Titanic.

Aperta parentesi: nei deliri a cavallo tra il mondo reale e quello di fantasia c’è gente che gode nel pestare gli altri al suono di “My heart will go on” di Celine Dion, tutto documentato ne “La scimmia pensa la scimmia fa”, verace testimonianza made in Palahniuk. E tra i corsi e ricorsi storici più improbabili della storia del cinema, beccatevi la fiatella da freezer di Eddy Norton nella grotta della meditazione di Fight Club, clonata da quella di Leo Di Caprio che crepa sul Titanic, appiccicata in post produzione (storia vera!)

Problemi d’insonnia? Hai provato a contare i pinguini prima di addormentarti?

Due ombre se le danno di santa ragione in un parcheggio deserto. A un certo punto si avvicina un procuratore della 20th Century Fox in giacca e cravatta e chiede di partecipare per accaparrarsi i diritti del romanzo di Chuck. Il primo a schivare il cazzotto è Peter Jackson dal set di “Sospesi nel tempo” (1996), poi Bryan Singer si accascia spompato prima d’iniziare il combattimento, e si finisce sui pugni più duri, quelli di David Fincher. Certo ci avrei messo la firma per vedere un Fight Club diretto da Danny Boyle, ma tra due registi da Postalmarket patinato, c’è toccato quello che più si avvicina per compostezza e follia celata al nostro alter-ego Tyler Durden (avete mai visto in faccia Fincher? Non vi dà l’idea del buon ragioniere con un machete nel comodino e un cadavere nell’armadio?)

Fincher mette in vetrina mobili scandinavi, facce gonfie, elastici per lo scroto e omicidi con la stessa logica. Con Jim Uhls alla sceneggiatura cambia i connotati quanto serve alla trama di Palahniuk. Film e libro finiscono per diventare complementari, con le soluzioni di Fincher che finiranno per risultare le più anarchiche, rispetto a un racconto sì originale e bizzarro, ma piuttosto lineare nello schema di base.

Fight Club non l’ho manco visto al cinema, ma ero curioso di vederlo, avevo letto gli articoli promozionali sulle guide tv tipo “Sorrisi e Canzoni” e lo recuperai solo anni dopo in vhs. Mi piaceva la locandina con il sapone e i nomi coinvolti, la prima settimana penso di averlo visto almeno tre volte (storia vera). Me lo sparavo più volte al mese. Divenne… una droga. La mia sbronza settimanale per acquistare un po’ di lucidità.

We’re living in repetition / Content in the same old shtick again (cit.)

Edward Norton nei primi Duemila era l’attore caldo, quello che sembrava destinato a dominare la scena. Veniva da “American History X” e “Schegge di follia”. Ed io ero il piccolo centro dell’universo che bucava la scuola per vedere i film con Ed Norton e quelli con Denzel Washington. Avevo un amico in fissa che mi ripeteva “ma quant’è bravo Edward Norton?”.

Erano gli anni delle vecchie pay-tv pre Netflix. Si registrava su vhs alla mezzanotte prima, si bucava la scuola l’indomani per guardare il film e si andava in videoteca a cercare altra roba. Ho visto una miriade di suoi film, ciofeche incluse. Di Fincher invece, ogni volta mi garbava più la sceneggiatura e il cast della regia in sé. Magari è anche un pregio per un regista, non essere “invasivo”, puntando tutto sul ritmo dei dialoghi e sui personaggi. Certo sa come valorizzare gli script. Basti pensare a “Zodiac” e “The social network” che hanno un ritmo ipnotico, in altre mani non avrebbero funzionato così bene. Ha quella capacità che hanno solo i grandi, di saper cavare sangue pure dalle rape, portando gli attori in stato di grazia.

Pitt nel ruolo di Tyler fu una sorpresa. All’epoca avevo un certo pregiudizio su Pitt, tipico divo belloccio da film commerciali. Ma Pitt è diventato quasi un antidivo, nel senso che non ha il protagonismo ingombrante dello stare sempre da solo sullo schermo, alla Tom Cruise che si mangia tutto e troneggia su tutti. Brad ha recitato spessissimo accanto ad altri grandi attori, penso che abbia attinto molto dalla fama e dal talento altrui, dai primi film come “L’ombra del diavolo” e L’esercito delle 12 scimmie, fino a “Seven” e Spy Game. O perfino nella saga degli “Ocean’s”. Mi vengono in mente ben pochi film in cui lui sia protagonista assoluto, o comunque non i suoi maggiori successi. È un buddy actor, uno che dà il meglio in compagnia. Uno che voleva scrollarsi di dosso l’etichetta del belloccio, con l’apice della distruzione in Fight Club, da canticchiante e danzante merda del mondo che davanti al cartello pubblicitario di un maschietto dal fisico scolpito si stranisce: “così dovrebbe essere un uomo?”

Pitt, per essere uno universalmente riconosciuto come l’ideale maschile di figaggine, ha una gran propensione a rovinarsi. Per “Fight Club” si è fatto scheggiare il sorriso dal dentista per la parte, e ha davvero imparato a fare il sapone in casa, caso mai gli andasse di far saltare in aria la 20th Century Fox. Sean Penn, prima scelta di Fincher per il ruolo, non avrebbe funzionato allo stesso modo.

Questa immagine la dedichiamo alle lettrici della Bara Volante (tutte e quattro)

Ma alla fine, meglio il libro o il film? Ecchissenefotte, se il film è pieno di frasi che hanno plasmato la mia filosofia di vita: quando stai morendo la gente ti ascolta veramente anziché aspettare il suo turno per parlare, le cose che possiedi alla fine ti possiedono, siamo i figli indesiderati di Dio o il mezzo litro di sangue che puoi ingoiare prima di vomitare. Se ti ritrovi a sanguinare è molto comoda da ricordare. Ché tutti s’ha un po’ da sanguinare, se sette ottavi della tua vita adulta somigliano alla prima scena del film, con la pistola in bocca con cui ti esprimi solo a vocali, e non sai se parlando finirai per farti esplodere la testa.

Nel mare magnum di trovate, frasi ad effetto e Meat Loaf con le tettone si tende a dimenticare un’informazione chiave: il narratore, Jack/Ed Norton, che non riesce a dormire, chiave di volta per il colpo di scena finale. De Niro in “Taxi Driver” (1976) girava di notte tra monologhi interiori e strani incontri, e più il suo cervello macchinava, meno dormiva. Ma se Travis Bickle ha avuto una guerra a traumatizzarlo, Jack/Norton in quanto figlio di mezzo della storia è parte di quella generazione che non ha avuto la Grande Guerra, ma solo una grande depressione. Un personaggio che cerca una risposta fisica, un dolore reale in risposta a quello interiore. Una rottura con il sistema quanto quella di Travis in “Taxi Driver”. Ecco perché “Fight Club” è diventato un classico immediato: parla della crisi dell’individuo e della società, dell’isolamento, della solitudine. E nello specifico parla di solitudine maschile, in un mondo in cui il rovescio per la legittima emancipazione e riconoscimento dei traumi femminili sembra dover passare dalla negazione di quelli maschili, piuttosto che da un comune riconoscimento della società come male comune.

Ridi, e il mondo riderà con te. Piangi, e piangerai da solo (cit.)

Eppure, il film si presta alla critica sessista se nel libro il personaggio di Marla era tanto più centrale, e diventa qui una bizzarra icona secondaria. Il film si concentra sulla sola cresciuta spirituale di Jack, capace di lasciare nella più bieca indifferenza il pubblico femminile, visto che riduce Marla alla fidanzatina disadattata con un ruolo marginale. Fincher aveva bisogno di non destare sospetti sul colpo di scena, quindi ha ridotto all’osso l’utilizzo di Marla, che però entra sempre in scena risultando vistosa e ingombrante, ennesima conferma che quando Helena Bonham Carter sta lontana dal marito Tim Burton, brilla.

Marla è la sabbia negli ingranaggi del protagonista, quella che fa saltare per aria la sua mezza truffa dei gruppi di sostegno, e fa da cortina fumogena per il pubblico, ecco perché è così sopra le righe. Alle prime proiezioni di prova la sua frase “voglio un aborto con te” fu sostituita perché ritenuta troppo estrema. Fincher preferì farle dire “non mi scopavano così dalle elementari” (storia vera). Piccoli compromessi se vuoi mantenere un Tyler proiezionista che infila cazzi presi dai porno nelle pellicole per bambini (lui, novello Walt Disney), mentre Fincher lavora ai fianchi del pubblico stordito e ammirato da personaggi esagerati e frasi da imparare a memoria.

Helena Bòna Carter

Il Fight Club non è l’esaltazione di uno sfogo fisico e violento. È un percorso terapeutico per il recupero delle sensazioni umane giocato sulle manie dell’umanità moderna, dal nido IKEA alle illusioni guaritrici della meditazione autogena. La società che si fa malattia d’isolamento, l’isolamento da guarirsi nella ricerca della vicinanza con gli emarginati sociali, gli ultimi, i derelitti, i malati. Marla. Chloe. E non c’è spazio per invertebrate ricette d’ottimismo buonista. C’è il grottesco del dividersi i turni da turisti della sofferenza ai gruppi di sostegno. La scena in cui Marla e Jack si dividono i gruppi in base alle malattie (“non puoi avere l’intero cervello è troppo grande!”) è un asteroide di critica sociale scagliato nella gola di chi è abituato ad ingoiare solo pillole.

E’ un’umanità senza direzione in una società senza direzione, che trova da sé la strada ripartendo dalla brutalità viscerale dell’uomo: la violenza, il pestaggio, senza glorificazioni da maschi alfa. Non c’è vittoria. Nessuno vince niente. Menarsi è una risposta istintiva ad un problema più grande, la classica soluzione da portatori di cromosoma Y. Sono arrabbiato? Tiro un calcio al frigo. (Non vorrei che passi un messaggio di odio verso i frigoriferi, perfetti per conservare sapone e birra.)

I maschi del film cercano nel “Fight Club” un ritorno alle origini, la loro vita è tutta una copia di una copia di una copia. Saper fare a botte, usare le mani anche per lavori manuali (come fare il sapone), è un ritorno alle origini dopo essere diventati molli, polli d’allevamento sotto luci al neon da ufficio. Perciò il Narratore Jack, imbolsito e schiacciato da una vita esangue si aggrappa a Tyler Durden: sicuro di se, che segue le regole di nessuno ma crea le sue. Una gigantesca fantasia escapista: trovare se stessi, la ragazza giusta, fare qualcosa di grosso che vada oltre l’ordinario lavoro, una reazione a quel non sentire più niente.

Ed ancor più che una fantasia escapista, è una fantasia sovversiva. Nasci in un mondo che non ti rappresenta. Che tradisce tutto ciò che ti promette. Il mondo dei nostri padri col mito del posto fisso e della pensione è svanito prima ancora che potessimo conoscerlo. Il mondo che ci hanno promesso divorato dal mondo che ci ritroviamo davanti, allora cos’altro resta se non distruggerlo?

Sono la canticchiante e danzante voglia di spaccare la faccia a Jared Leto di Jack.

Se il film è ancora attuale è perché alla generazione di Tyler non basta più, e alla nostra generazione non spetta più. Così siamo di nuovo noi i figli di mezzo di “questa” storia. Di nuovo senza uno scopo – il posto fisso, la pensione – né un posto. Non è il nostro scopo perché ci hanno insegnato a volere più prima, ora che ce n’è di meno. E il nostro scopo non è più tale se il sistema non può più offrircelo oggi. Qual è la soluzione? Arredare la prigione con i mobili IKEA o provare a mandarlo a gambe all’aria? Fottere il sistema, questo è il senso del Fight Club prima e del Progetto Mayhem poi. Il fatto è che, crescendo in quel mondo lì, il senso di colpa avanza.

Le frasi di Tyler raccontano in modo crudo e brutale certi passaggi della vita di un ragazzo, il rapporto con la paternità, con le donne, o il racconto che vale per un paio di generazioni dell’essere i figli di mezzo della storia, senza uno scopo né un posto. Il film è uscito nel 1999 e quelle frasi valgono ancora per tutte le generazioni post crisi economica. Crisi sociale, famigliare, crisi di qualsiasi cosa. Qualcosa vorrà dire.

A livello di regia, Fincher ogni tanto si mette a fare il figo, tipo in uno dei miei monologhi preferiti “tu non sei il tuo lavoro”, fa tremare l’inquadratura, e ai lati si scorge la dentellatura della pellicola, come a creare quest’illusione metacinematografica del racconto. Ci sta facendo vedere un film montato da Tyler Durden. Durante il monologo di Tyler “siamo cresciuti convinti che saremmo diventati miliardari, divi del cinema, rockstar”, nel momento in cui dice rockstar Brad si trova giusto faccia a faccia col biondissimo Jared Leto, pseudo-rockstar all’epoca. Fincher ha flirtato col mondo della musica scritturando Jared Leto e Meat Loaf. Anche se pensando ai “30 seconds to Mars” faccio subito il tifo per Edoardo Anti-virus.

“Fight Club” è diventato un classico anche per queste trovate, poi avendo il DNA di Palahniuk nelle vene resta un animale guida molto strano, una bestia unica. Ora se guardate per un attimo qui sotto, potreste vedere come un bagliore rosso, veloce come un battito d’ali di un colibrì, crederete di non averlo visto ma è proprio qui, il logo dei Classidy.

Ed ora che ci siamo dati le pacche sulle spalle, infrangiamo la prima e la seconda regola del Fight Club a dovere, beccatevi un destro sui denti e un jab sinistro che significa… SPOILER! ..In Fight Club Edward Norton ha le turbe, non esiste nessun Tyler Durden (Cit.)

Ora, se lo avete visto, e poi rivisto, capite che il film si spoilera subito: “io questo lo so, perché lo sa Tyler”. Eppure quando il colpo di scena arriva è comunque un WTF enorme. Personalmente lo trovai poco convincente e meno scioccante de “Il Sesto Senso” per dire.

Ma se Shyamalan giocava coperto, Fincher andava all’attacco esponendosi molto di più, facendo sorgere dei dubbi grossi al protagonista (e al pubblico). L’auto rossa fiammante con cui Tyler lascia l’aeroporto, da dove è uscita? Oppure l’affermazione sul primo combattimento con Durden, quando il protagonista finisce per picchiarsi da solo nell’ufficio del capo. Indizi chiari, ma Fincher è bravo a dare ritmo al film e a non lasciare al pubblico il tempo per troppi sospetti. Per non parlare di certe robe che a rivederle oggi fanno un grande effetto: l’inquadratura in cui appare per la prima volta Tyler è un tocco di classe (quel movimento di MDP in aereo, in cui Norton sembra “sdoppiarsi” mostrando poi Pitt sullo sfondo: inquadratura quasi Leoninana, che mi ha fatto pensare a quando il cattivo Henry Fonda si rivela in C’era una volta il west)

Il “tema del doppio” in Fight Club è diverso dal solito: “tutti i modi in cui volevi essere, quelli sono io”. In una società spersonalizzante, in cui costruire la propria identità passa da un processo che non è più la costruzione granitica di se stessi, ma trovare il proprio posto in un mondo che non offre più direzioni e identità precise cui ispirarsi, l’identità diventa l’adattabilità del caos. Poi diciamolo, se avessimo dovuto sceglierci un alter ego vincente nel 1999, voi chi avreste scelto? Io Michael Jordan, ma sono sicuro che Brad Pitt sarebbe stato un articolo molto venduto. Tyler non è nessuno, diventa qualcuno nella sua reazione al mondo che lo circonda, e reagisce cercando di distruggerlo, nella speranza di raderlo al suolo per poterlo magari ricostruire più a misura di se stesso.

#AndràTuttoBene

E i difetti? Certo che ne ha, tipo che la voce fuori campo cita frasi a caso dal libro giusto perché sono fighe. Il peggior difetto è la trasformazione da romanzo di formazione autodistruttivo in storia d’amore fra Tyler e Marla, alterando in parte il senso della storia. Nel libro il rapporto tra Marla e Tyler era più equilibrato, le prime due ore del film invece sono concentrate nella relazione interiore di Tyler, e Marla è un elemento accessorio che riemerge solo nel finale. Svariate parti del libro che coinvolgono Marla (frasi, dialoghi, situazioni) sono traslate su Tyler. Fincher sapeva di aver bisogno di un espediente simile per rendere il film più spendibile, ma la favoletta d’amore tra disadattati non l’ho mai digerita fino in fondo. Anche se fanno effetto questi personaggi che per tutto il tempo sono stati asettici gli uni con gli altri, fottendosi, insultandosi o semplicemente ignorandosi, ma nell’ultima scena fanno un gesto umano, tenendosi per mano.

Questo finale così diverso da quello del libro, con l’esplosione finale dei palazzi mi ha sempre conquistato. Ha fatto invecchiare il film tristemente bene a causa dell’11 settembre e della grande crisi del 2007-2008. La canticchiante e danzante voglia di distruggere di Jack parla del mal de vivre in maniera pop, acida, e se uscisse oggi sarebbe un triste generatore di meme. Ma potremmo sempre procurarci del succo d’arancia e fare un po’ di Napalm. Ché c’è tanto da bruciare a questo mondo.

Your head will collapse
But there’s nothing in it
And you’ll ask yourself
Where is my mind?
Where is my mind?
0 0 voti
Voto Articolo
Iscriviti
Notificami
guest
0 Commenti
Più votati
Recenti Più Vecchi
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti
Film del Giorno

Il grande Lebowski (1998): un film che dava un tono all’ambiente

«Avevo una patata bollente in mano e la buttai prima di bruciarmi. Non volevo tornare in ufficio e mi fermai a giocare a bowling. Volevo pensare ad altro per un [...]
Vai al Migliore del Giorno
Categorie
Recensioni Film Horror I Classidy Monografie Recensioni di Serie Recensioni di Fumetti Recensioni di Libri
Chi Scrive sulla Bara?
@2024 La Bara Volante

Creato con orrore 💀 da contentI Marketing