Continua il viaggio a bordo del volo 180 della Bara Volante Airlines, in attesa dell’uscita di “Bloodline”, oggi tocca ad uno dei miei capitoli preferiti della saga di Final Destination, si, l’ho detto, il terzo capitolo è uno dei miei preferiti.
Lo preferisco di gran lunga al secondo, che inizia con un mega incidente con tronchi d’albero e morti ammazzati ma poi si perde tra personaggi scritti maluccio e dialoghi abbastanza terribili. Il bello di questa saga? Molti elementi, tra cui il divertente passaggio di palla tra i registi che si sono alternati alla regia, in un scambio in puro stile cestistico, esce David R. Ellis e torna in campo il titolare, il regista del primo capitolo, James Wong.
Lo so, bisogna un po’ affrontare la vecchia idea per cui dopo il primo capitolo, in una saga, sia per forza tutto da buttare, in cui al massimo può essere ancora tollerabile il secondo film, eppure il ritorno di James Wong coincide con uno dei migliori capitoli tre di sempre o giù di lì, un film girato e montato molto bene, che si gioca le sue carte alla grande, se poi vi dovessero servire altre buone motivazioni per convincerci ad andare avanti con la saga, come direbbe il mio compare Quinto Moro, per voi ne ho tre: Mary. Elizabeth. Winstead.
Qui giovanissima, non al suo primo e di certo nemmeno ultimo Horror, giusto perché il suo contributo al genere è sempre stato sottovalutato, resta uno dei volti più riconoscibili di tutta la saga, ben più dei personaggi del secondo capitolo, a funzionare è proprio la convinzione con cui Winstead recita, in un film dove tensione e paura devono tenere banco, guardandola recitare risulta sempre autenticamente terrorizzata, tutta robetta che gioca a favore di un film che ha la testa ben avvitata sul collo.
Avete presente chi valuta un film horror sulla base di un solo parametro, il suo, di solito riassumibile così: «Non fa paura!», ecco “Final Destination” spesso intrattiene, perché ammettiamolo, lo si guarda, forse principalmente per le morti spettacolari e sempre più barocche e ricercate di capitolo in capitolo, certo, ma questa è la prima chiave di lettura, quella superficiale, perché basta scavare – nemmeno molto per la verità – per trovare sotto un Horror spudoratamente onesto nel suo giocare a carte scoperte, nel ricordarci quando il nostro corpo sia fragile, quanto ogni vangoncino delle montagne russe o lettino abbronzante potrebbe ucciderci mettendo fine a sogni, piani, accumuli di ferie o collezioni di fumetti che ci lasciamo dietro. Viene quasi da ringraziare che l’approccio sia così “leggero” altrimenti sarebbe qualcosa da depressione cronica.
Sapete cosa mi colpisce di “Final Destination 3”? Un piccolo stupido gioco di parole che piace tanto agli americani e che qui torna utile citare, quasi evocato dal film. Quando gli Yankee vogliono descrivere qualcosa di particolarmente folle ed eccitante, parlano di fare un giro sulle montagne russe, ed è proprio così che inizia un film che pur essendo un seguito, sembra quasi un rilancio della saga, se non proprio un remake, via il volo 180, dentro le montagne russe, in un inizio volutamente fotocopia, in cui torna tutto quello che abbiamo già visto, la premonizione descritta come un flashback, i giovanotti e le giovanotte riprese in un momento di piena vita, proprio quando sono più gustosi come bersagli per la Nera Signora.
“Finale Destination”, si gioca il cameo vocale di Tony Todd, qui impegnato a doppiare il ciarliero Diavolone che dà il nome alla giostra, proprio i vari vagoncini, grazie all’abilita di James Wong e ad un ottimo montaggio, anche sonoro (gli scricchiolii generano più di metà della tensione), prima del massacro, la tensione procede per accumulo e la trovata delle fotografie, sono una piccola arma a favore dei protagonisti, che riesce a rinfrescare un formato che già al secondo film, iniziava ad odorare già di vecchio, non dico di cadavere, visto il tema del film.
James Wong riesce a muoversi alla grande, in ottimo equilibrio tra intrattenimento e trovate ricercate, se dovessi pensare ad alcune delle morti più memorabili di questa saga, parecchie arriverebbero da questo capitolo, basta guardare la doppia sepoltura con cottura nelle bare, ehm scusate, nei lettini abbronzanti. Non solo abbiamo l’intrattenimento facile, quello istintivo, di primo livello, di panza, anzi di poppe visto che rappresenta una rarità, un horror del 2006 con scene di nudo come se fossimo ancora negli anni ’80, ma allo stesso tempo la scena svolta velocemente, qualcosa di quotidiano come farsi la tintarella si trasforma in una doppia morte orribile, con tanto di inquadratura ricercata di Wong sulla doppia sepoltura delle ragazze, un finale visivamente ricercato per una scena che parte caciarona, non riesco a trovare un riassunto migliore di tutto il film.
James Wong firma un film così brillante da iniziare come un’operazione fotocopia per poi sparigliare le carte, come detto lo fa con la trovata delle fotografie, ma ancora di più modificando la struttura stessa del film. Dalla morte non si scappa, al terzo film dovremmo saperlo, anche se è una verità talmente chiara e lampante che il cervello di noi viventi continua a rifiutarla, proprio per questo Wong, tornato al timone, vince concludendo questo terzo capitolo con una scena spaccatutto che non avrebbe sfigurato nemmeno all’inizio del primo atto, il fatto che sia ambientata sui vagoni della metropolitana, non fa che gettare legna secca nel fuoco della mia teoria sulle scene in metro dei film.
Ma prima devo ripetevi una cosa, anzi tre: Mary. Elizabeth. Winstead. Perché come detto lei da sola fa reparto, l’autenticità della sua prova la rende una protagonista così sinceramente terrorizzata da rendere tutto attorno a lei credibile il triplo, un gran modo di caricarsi il film sulle spalle, per puro terrorizzato divertimento, perché questa saga ha un’arma letale nella sua manica: il suo giocare totalmente a carte scoperte.
«Horror films are a rehearsal for our own deaths», i film dell’orrore sono le prove generali per la nostra stessa morte, forse per questo Stuart Gordon ne ha realizzati di bellissimi, perché in nove parole il regista di Chicago aveva riassunto tutto, dimostrando di aver capito ogni cosa. La costate di tutti gli esseri viventi pensanti è quella di negare l’unica certezza che abbiamo nella vita, che prima o poi finirà, logico no? Altrimenti che senso avrebbe scendere dal letto ogni mattina, o in generale, vivere, se tanto sappiamo che l’unica variabile è come – e quando – tireremo i calzini?
L’idea stessa, il solo pensarci sarebbe annichilente, ogni volta che ci mettiamo seduti davanti ad un horror non solo risulta essere l’equivalente del giro sulle montagne russe che tanto piace agli americani, ma una piccola sfida a quel non voler pensare all’inevitabile, una prova di coraggio, un allenamento mentale che si ripete ad ogni nuovo horror ma che per “Final Destination” è un modo di giocare a carte scoperte, qualunque cosa farai, potrai ingannare la morte anche tre volte di fila, ma sarà sempre lei a vincere. L’esposizione finale del secondo capitolo era un riso liberatorio ma nervoso, amaro, quasi isterico, mentre il grido della regina dell’urlo, Mary Elizabeth Winstead, che conclude questo film, sa di presa di coscienza di fronte all’unica verità concreta della vita: che finisce.
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing