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Forrest Gump (1994): una classica favola (anti) americana

Da qualche parte attorno all’inizio degli anni ’90, in una serata come tante, i coniugi Friedkin si preparano per andare a letto, pigiamoni e libri pescati dal comodino, il marito William, che in linea di massima dovreste conoscere per due cosette che ha diretto, lancia un’occhiata al libro che sua moglie Sherry Lansing sta leggendo, si intitola “Forrest Gump” ed è stato scritto da Winston Groom. La signora, pezzo grosso della Paramount è innamorata della storia e vorrebbe farne un film ed è a quel punto che Hurricane Billy fa la sua profezia: «È il titolo più stupido che abbia mai sentito in tutta la mia vita». Nella sua autobiografia “Il buio e la luce” è proprio William Friedkin a scherzare sul suo “contributo” ad un film che contro ogni pronostico è entrato a far parte della cultura popolare.

Winston Groom scrisse “Forrest Gump” partendo da una storia raccontata da suo padre, su un ragazzo della sua nativa Alabama, classico caso di idiota sapiente, preso di mira dai bulli che un giorno, seduto davanti ad un pianoforte, senza aver mai preso lezioni, cominciò a suonarlo come un professionista. Il romanzetto parte da questo spunto per raccontare una storia molto diversa da quella che il pianeta conosce: Forrest nel libro pesa centocinquanta chili, ha come amico un orango (ecco, questo mi sarebbe piaciuto vederlo!) e ad un certo punto, va anche nello spazio. Ecco, se volete vedere Tom Hanks nello spazio, riguardatevi “Apollo 13” (1995), perché tra Forrest e il popolare attore ci sono di mezzo ancora alcuni gradi di separazione.

Un libercolo amato dalle persone giuste, che è diventato un classico amato quasi da tutti.

“Forrest Gump” ha reso celebre una certa frase su una scatola di cioccolatini, ma proprio in una scatola era finito, quella dei copioni mai realizzati da cui ogni tanto Hollywood decide di pescare, lì dentro era finito anche quello di scritto da Eric Roth che va detto, aveva migliorato di molto il libercolo, con più cuore che altro, di Winston Groom. Proprio l’alto quantitativo di “Corazon” della storia fece colpo su un’altra produttrice, la tenace Wendy Finerman che con la sua casa di produzione, le provò tutte per vendere il copione alla Warner. Sembrava fatta, quando per seguire le mire registiche di Kevin Costner e dei suoi film post-apocalittici (che prima o poi mi deciderò a portare su questa Bara), finì per rimettere il copione di “Forrest Gump” nella scatola. Non di cioccolatini.

Ed è qui che tornò di moda la lettura serale di Sherry Lansing, che malgrado il parere del marito, era fermamente intenzionata a portare “Forrest Gump” al cinema, questa volta per la Paramount, bisognava solo trovare l’attore giusto per convincere i vertici ad aprire il portafoglio. Anche senza un copione definitivo approvato dai capoccia, quell’uomo poteva essere solo Tom Hanks, fresco della sua prova in Philadelphia, nel pieno della sua trasformazione da “Quello delle commedie scemone” a novello Jimmy Stewart 2.0 collezionista di premi Oscar. Al provino, grazie a quella parlata e lo sguardo allampanato, La Paramount si convinse di aver trovato il protagonista e stanziò cinquantacinque milioni di ex presidenti defunti (e forse incontrati dal vivo da Forrest), che rendeva il film un sontuoso “low budget”, decisamente troppo pochi per le mire del regista. Ed è qui che entra in scena Robert Zemeckis.

«Scusi, è già passato l’autobus?», «Non lo so amico, io giro in DeLorean»

L’uomo che sarà eternamente ricordato per Il-Film-Uno-e-Trino ma che si meriterebbe di essere celebrato anche per altri lavori incredibili della sua filmografia. Anche se indipendentemente dalle mie preferenze sui lavori di Zemeckis è inutile girarci attorno, “Forrest Gump” sarà eternamente ricordato come il suo secondo film più amato dal pubblico, in grado di portarsi a casa sei Oscar, in tutte le categorie principali, miglior film, miglior regia e miglior attore protagonista, diventando un classico, anzi, un Classido!

Alt! So cosa state pensando: «Ma come Cassidy? Questo coso caramelloso un Classido?», certo, perché il classicismo pervade “Forrest Gump”, ma è decisamente figlio del suo regista, il suo lavoro più Spielberghiano (anche più di 1941, anche se ci hanno lavorato insieme) e proprio per questo snobbato da molti, perché Spielberg è caramello, anche se poi sono tutti cresciuti con i suoi film, ma si sa, su “Infernet” bisogna atteggiarsi a super cinici e poi, parliamo dell’elefante in mezzo alla stanza, questo è il film che ha “rubato” (virgolette d’obbligo) gli Oscar a Pulp Fiction. Ma lo stesso Tarantino è stato più sveglio e lucido di molti appassionati, intervistato sul tema ha sottolineato quanto acido ci fosse nel film e in generale, nella filmografia di Zemeckis, dimostrando di aver capito il titolo rivale e il cinema del vecchio Bob molto meglio di tanti altri, ma lasciatemi l’icona aperta, su questo punto ci torneremo tra poco, prima abbiamo una travagliata storia produttiva da completare.

Il copione approvato prevedeva i momenti chiave che tutti ricordiamo, la porzione della tempesta in barca (quante volte in mezzo alla pioggia battente avete imitato l’urlo al cielo del tenente Dan? Io sempre. Storia vera) e tutta la fondamentale parte in Vietnam, problema: tutta roba che costa, se poi hai anche da gestire la cancellazione in CGI delle gambe di Gary Sinise, o gli inserti digitali, con Forrest impegnato ad incontrare tutti i presidenti Yankee o che so, John Lennon. Sherry Lansing costretta a mediare tra Zemeckis e la Paramount diventa portavoce di tagli brutali da fare, ma qui l’anima ribelle di Bob si è messa di traverso, parliamo di un regista che prima di arrivare al successo con Ritorno al futuro, ha fatto una gavetta infinita, piena di commedie, sceme quanto volete ma anche pungenti (avete visto “La fantastica sfida”? Male, rimediate!) quindi si è sempre sentito ben poco accettato da Hollywood, anche ora che aveva per le mani una storia perfettamente Hollywoodiana come “Forrest Gump”. Risposta di Bob: «Fanculo la Paramount, ce li metto io i soldi che servono» e così fece, lui e Tom Hanks anticiparono di tasca loro i verdoni necessari per girare il film come lo avevano pensato, rinunciando ad una parte del compenso anche se l’altro punto aperto su cui Bob si è preso a cornate con la Paramount, sono state le musiche.

Le premesse di Cassidy sono come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita ma nemmeno quando finiscono”

Lo dico? Se dovessi indicare un punto debole del film, sarebbero proprio le musiche, non vi racconto nulla di nuovo se vi descrivo un paio di scene, perché tanto “Forrest Gump” è una di quelle favole della buona notte che tutti quanti conosciamo: appena la trama accenna al Vietnam parte Fortunate Son dei Creedence, bella, bellissima, la mia canzone, ma didascalica usata così. Jenny canta la sua canzone con (solo) la chitarra? Deve essere il folk di Bob Dylan per forza. La bionda parte con i fricchettoni per la California? Nel trionfo della banalità parte San Francisco di Scott McKenzie. Tutto così, ma posso dirlo? Che altri pezzi avreste voluto sentire in questa storia che sa di classico? Nessun altro, bisogna essere onesti, perché solo quelle canzoni che fanno parte della tradizione americana potevano sottolineare passaggi di una storia che parla di sogno Americano, infatti Bob Zemeckis le inserì nel primo montaggio del film senza avere i soldi per pagare i diritti, ma quando i vertici della Paramount videro il film con quella musica, aprirono cuore e portafoglio perché “Forrest Gump” doveva uscire in sala con quella colonna sonora, al massimo, ulteriormente sostenuto dal tema firmato dal compositore preferito di Zemeckis, il solito Alan Silvestri che qui manda a segno un’altra magia.

Magari così apprezzerete di più le musiche (o Jenny, ma su di lei torneremo più avanti)

Io avrei finito, nel senso che cosa vuoi dire di davvero originale su un film che avete visto tutti quattordici volte? Io ve l’avevo già raccontato, lo vidi per caso, ero andato in sala nel mio cinemino di provincia per vedere Nightmare before Christmas, ma per un casino nel palinsesto, mi trovai davanti quella piuma svolazzante (storia vera). Mai pentito di averlo visto in sala, anche perché questo film è figlio di tante produttrici innamorate della trama originale, ma migliorato da un regista che lo ha reso satirico, in linea con al sua filmografia, anche se ammantato da un’aurea di classico che era il modo giusto per farla digerire a tutti, tanto che alla sua uscita, non venne capita.

Le prime recensioni entusiastiche “Forrest Gump” le ricevette dall’ala ultra conservatrice americana, pronta a saltare sul carro del vincitore di un film che a loro detta, puntava il dito contro i pericoli della controcultura Hippie, per una trama che ad una prima occhiata un po’ ottusa sembra celebrare famiglia, patria, andare in guerra per difenderla e in generale, i Sacri Valori dello stile di vita in Yankeelandia, ecco sì, ma anche no.

Eccolo qui, il perfetto Americano che tanti sognavamo (senza aver capito)

“Forrest Gump” ha una struttura quasi circolare, finisce come è iniziato, ovviamente con la piuma, ma per tutta la sua durata è caratterizzato da momenti ripetitivi, che Zemeckis sottolinea in modo ironico o tenero a seconda di dove vuole portare la storia, ad esempio il doppio «Corri Forrest!» di Jenny, quello dove prima le “gambe” del giovane protagonista vanno a pezzi e poi dove riesce ad entrare nella squadra di Football, per una satira sul livello medio di intelligenza degli sportivi professionisti. Così come il primo giorno a bordo del bus, dove da bambino incontra per la prima volta l’odiatissima (da molta parte di pubblico, Wing-Woman in primis) Jenny, fino alla scena gemella in cui fa la conoscenza di Bubba una volta tra le armi. Momenti gemelli, che sanno di ripetizione e di predeterminazione, e che camminano mano nella mano con molti momenti simili di Ritorno al futuro (a ben guardare, anche qui c’è il momento «Ehi tu porco levale le mani di dosso», solo meno centrale), perché “Forrest Gump” è un film più profondo di quello che una prima occhiata distratta potrebbe far credere, oppure meglio, Zemeckis è così bravo da riuscire a dire tanto, facendolo passare per poco, semplice e senza far arrovellar troppo il cervello al pubblico.

Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Ne determinano tutto l’andamento, succede anche qui, una piuma che svolazza casualmente verso il protagonista mette in moto la storia, mettendo in chiaro che se sei alla fermata ad aspettare i mezzi pubblici, fai in tempo a ripercorrere tutta la tua vita, chi usa i mezzi pubblici lo sa. Il film di Zemeckis mette in chiaro come gli esseri umani reagiscano ai capricci di quel grande caos che è l’esistenza umana, il modo in cui si reagisce a quello che il destino ci mette davanti, determina la creazione e la direzione della vita stessa. In parole povere ecco perché Forrest, con il suo approccio alla vita da personaggio “Oltre il giardino” (cit.) sembra il singolo essere vivente più fondamentale della storia degli Stati Uniti d’America: insegna al “Re” Elvis la sua mossa da “The Pelvis”, conosce tutti i presidenti Yankee e con gran candore, ad uno di loro mostra anche le terga, inventa lo Smile, l’espressione “Shit happens”, diventa principale finanziatore della Apple, porta a casa “Purple Heart” per il valore militare, contribuisce alla distensione con la Cina a colpi di Ping Pong e per non farsi mancare nulla, influenza anche testi leggendari della storia della musica, oltre che a mettere al mondo il bambino de “Il sesto senso”.

Oltre a diventare responsabile della mia imitazione di Forrest Gump proprio grazie alla scena del gelato, ma questo vi diventerà più chiaro nel corso della lettura.

Un Gastone? Un vero eroe americano? Forse, ma occhio, perché parliamo di uno che porta il nome di uno dei fondatori del KKK, che sarà anche legato alla famiglia, ma suo padre? Chi l’ha mai visto e sua madre (Sally Field che vediamo invecchiare al meglio qui) si scopa il preside per far ammettere il figlio a scuola. Devo andare avanti? Si perché sono qui per questo, quindi ora parliamo del personaggio più controverso del film, paragrafo su Jenny in arrivo sul binario uno!

Con tutto quello che ha passato, ancora la odiano. Sì, adesso parliamo di Jenny.

A volte vorrei un “Sentieri selvaggi” raccontato dal punto di vista dei nativi, oppure un “Jenny Curran” raccontato tutto dal punto di vista del personaggio di Robin Wright, che in parte Zemeckis ci regala, attraverso alcune pennellate davvero toccanti, il lancio di sassi davanti alla casa paterna («Penso che a volte non ci sono abbastanza sassi») o il quasi salto dal balcone della bionda. Il suo personaggio è controverso, difficile da amare, infatti ci riesce per davvero solo il protagonista, perché alla faccia di chi pensava che “Forrest Gump” fosse un’ode allo stile di vita americano, in realtà è una feroce critica addolcita solo dai cioccolatini: in questo film i personaggi non ricevono ricompense, la meritocrazia è azzerata dal caos che colpisce in modo casuale, “come una scatola di cioccolatini” appunto.

Tutti i personaggi, titolare compreso, subiscono la loro bella dose di sofferenze perché il sogno americano tanto rincorso (occhiolino-occhiolino), emerge come una grossa bugia, l’imprevedibilità della vita è una grande livella per i protagonisti, che non avranno mai davvero le stesse opportunità nel Paese della opportunità per tutti. Ma fateci caso, chi è l’unico che riesce a sposare la donna che ama, ad avere successo e a diventare ricchissimo? Lo scemo del villaggio dall’…

… che con il suo quoziente intellettivo sotto la media non ha retropensieri, non si cura delle conseguenze ma solo degli altri senza pensare al tornaconto. Alla sua uscita la destra conservatrice americana ha esaltato Forrest Gump come un esempio di perfetto Americano, anche se è lo scemo dietro a cui di solito si trova un villaggio (quasi-cit.), un “Buon coglione” che esce indenne dal caos della vita perché con la sua purezza di fondo, è l’unico che riesce a restare immune all’American Way of Life. In una patria dove si esalta Superman, lui è un Medioman, un sempliciotto che è la vera risposta a tanto “americanismo” imperante, decisamente più violento e arrogante.

Insomma “Forrest Gump” è il perfetto film di un regista votato alla satira, uno che si è sempre visto poco e male accettato dall’industria di Hollywood come Robert Zemeckis, una critica caustica mascherata da film tenerone e per tutti, che per ogni momento simpatico e scaldacuore, ne snocciola altri dieci altrettanto iconici ma crudeli. Vogliamo parlare del mio vero eroe? Gary Sinise, il mio spirito guida, il tenente Dan.

Il mio Meme di fine anno che vale tutto l’anno.

Il personaggio che all’inizio ha già abbracciato lo stile di vita Americano al 100% e proprio da quello, verrà masticato e sputato, troverà la pace solo quando con moooolto fatica, farà suo invece lo stile di vita di quello che all’inizio, sembra il suo rivale. Per altro, a mia detta, sono anche in grado di esibirmi in una decente imitazione di Forrest Gump quando porta il gelato al tenente Dan, o per lo meno, la mia voce per come risuona nella mia testa risulta proprio uguale (storia vera), poi magari dal vivo la mia imitazione potrebbe risultare pietosa, però io mi impegno.

Risultato finale: era diverso tempo che volevo scrivere del secondo film più famoso di Bob Zemeckis, non il suo secondo migliore a mio avviso ma vale la popolarità percepita. I primi trent’anni di questo Classico americano, nel suo essere quasi anti-americano erano l’occasione giusta, perché la Bara Volante è come una scatola di cioccolatini, ogni giorno quando la apri, non sai mai quale film potrebbe capitarti.

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