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Forza d’urto (1991): Dinosauri dell’ultra violenza

Non seguo il Football, ma da appassionato di pallacanestro
ho sempre un occhio di riguardo per gli sportivi americani che spesso sono ben
più caratteristici dei nostri calciatori, tutti un po’ troppo fatti con lo
stampino per i miei gusti. Ecco, uno che non era di certo prodotto in serie,
era quel deviante di Brian Bosworth.

Brian “The Boz” Bosworth, 1,88 per 110kg sotto il tipo di
capigliatura che avrebbe fatto piangere vostra madre, se vi avesse visti
tornare a casa conciati così, una sorta di Mullet ossigenato illegale in
cinquantadue stati. Una promessa del Football universitario, il rookie
(giocatore al primo anno) più pagato nella storia dei Seattle Seahawks, che per
portarlo tra i professionisti della NFL lo pagarono dieci milioni di fogli
verdi con sopra le facce di altrettanti ex presidenti passati a miglior vita.

Cose che possono accadere solo a Seattle: I capelli di The Boz.

Linebacker con la propensione per i placcaggi
particolarmente energici, Boz è sempre stato piuttosto colorito, primo nel suo
ruolo ad indossare un numero di maglia superiore al 40, come previsto dal
regolamento (scelse il 55), era capace di trasformare le conferenze stampa post
partita nel suo spettacolo personale, dove il più delle volte finiva per
insultare tutti quelli che non gli andavano a genio, a partire dai dirigenti
della NFL. Un personaggio talmente esagerato, che persino la pagina italiana di
Wikipedia a lui dedicata (solitamente
piuttosto stringata quando si parla di sportivi americani) riporta alcuni
aneddoti confermati, così assurdi da dover essere citati per forza, come quella
volta a Denver, in cui diecimila tifosi dei Broncos si presentarono alla
partita con una maglietta con su scritto “BAN THE BOZ”
(“Squalificate Boz”), salvo poi scoprire che la compagnia che
produceva le t-shirt e le vendeva a quindici dollari l’una, era di proprietà di
Brian Bosworth (storia vera).

Per colpa di una testa un po’ così e di un ginocchio
ballerino, il Boz ha lasciato i campi da Football molto presto, ma capite da
soli che una personalità così da qualche parte andava impiegata, siccome di criminali
è già pieno il mondo, perché non l’attore? Nel 1990 il cinema d’azione godeva ancora
di buona salute, era un periodo in cui con il giusto protagonista e un budget
non esagerato, si poteva ancora spaccare tutto.

Non è tanto questione di stile, quanto questione di classe.

Certo poi bisognerebbe tenere a mente il “Fattore Boz”, un
tipetto non semplice da tenere a bada, di sicuro non per il primo regista
scelto per dirigere “Stone Cold” (da noi trasformato nel ben più diretto “Forza
d’urto”, e vitaminizzato da una locandina Italiana che lo fa sembrare il
seguito dimenticato di Terminator,
vai a capire il perché), ovvero Bruce Malmuth, quello di “I falchi della notte”
(1981) e “Duro da uccidere” (1990). Malmuth resta a bordo alcune settimane,
spende una buona fetta del budget per dirigere un sacco di scene con la moglie
e le figlie del protagonista, mai usate nel montaggio finale, e poi abbandona
il progetto per motivi personali, dopo aver già speso quattro dei diciassette milioni
totali del budget. Non ho trovato riscontri, ma secondo me dopo alcuni giorni
passati insieme a Bosworth, Malmuth ha preferito darsi alla macchia, poco male,
perché è qui che entra in gioco il nostro Craig R. Baxley.

Lo posso dire? Action Jackson è uno spasso, Arma non convenzionale è il film di Baxley che ho visto, rivisto (e stravisto) più
volte nella mia vita, ma “Forza d’urto” è senza ombra di dubbio il suo lavoro
migliore. Quando penso ai film d’azione di una volta, quelli vagamente
ignoranti e per questo bellissimi, poche esperienze nella vita del cinefilo
appassionato di film di genere, sono esaltanti come vedere per la prima volta
“Stone Cold”, anzi malgrado il numero di volte in cui me lo sono rivisto, ogni
volta che arrivo a quel finale tiratissimo, che sembra quasi una lunghissima
scena che procede in crescendo, mi esalto come se non avessi mai visto il film
(storia vera).

I ragguardevoli finali di film come li facevano una volta.

Con un budget finalmente onorevole, Craig R. Baxley accetta
il compito non semplice di lanciare “The Boz” come eroe d’azione, ve lo dico Bosworth
è un bravo attore solamente se lo avete sempre e solo visto recitare doppiato,
però cosa gli volete dire? Baxley fa un miracolo e intorno al suo aspetto da
tamarro gli costruisce attorno la pellicola, infatti il risultato finale è perfetto,
anche perché Baxley può contare sulle musiche di Sylvester Levay (ma anche
sulla notevole “Dangerous” dei The Doobie Brothers sui titoli di
coda), e su almeno due facce da cinema clamorose, come quella di William Forsythe prima, e ancora di più
sul mitico Lance Henriksen, che nei
panni del principale cattivone, buca lo schermo, si divora ogni scena in cui
compare, e pare che abbia anche scritto da solo la maggior parte della battute
del suo personaggio, quindi dobbiamo doppiamente ringraziarlo per averci
regalato un capolavoro come: «In questi momenti penso sempre a mio padre e alle
sue ultime parole che furono: non farlo figliolo quel fucile è carico!».

Lance, se non ci fosse bisognerebbe inventarlo.

In “Forza d’urto” Brian Bosworth interpreta il poliziotto
Joe Huff, ma per giustificare quell’assurdo taglio di capelli, bisogna
inventarsi qualcosa, quindi Huff invece di potersi godere in santa pace la sua
sospensione ottenuta grazie ai metodi gentili con cui garantisce la legge e
l’ordine, dopo un mezzo ricatto da parte dei suoi superiori vince una missione
sotto copertura tra le fila dei motociclisti noti come “La Fratellanza”, una
banda di neo nazisti fuori di testa, guidati da uno psicopatico di
nome Chains Cooper (Lance Henriksen) e dal suo degno numero due, Ice Hensley (William
Forsythe)

Joe perciò diventa John Stone, da qui il gioco di parole del
titolo originale, che indica la lapide, ma anche un tipo tosto e freddo come il
marmo. Il suo obbiettivo sarà quello di fermare i bellicosi piani dei
motociclisti, che spacciano, seminano il panico, uccidono preti e minacciano di
morte il senatore del Mississippi. Non proprio i figli dei fiori di “Easy
rider” (1969), ecco.

Born to be wild (Cit.)

Se avete familiarità con questo tipo di film sapete che la
rapina al supermercato da sventare, è il battesimo del fuoco per qualunque eroe d’azione degno di questo nome. Craig R. Baxley
per Brian Bosworth decide di stare sul classico anche se la sua l’entrata in
scena è comunque notevole, più che altro grazie alla faccia da
schiaffi del Boz, che conciato in quel modo, più che uno arrivato per riempire
il carrello, sembra qui per svuotare la cassa. Ma in ogni caso elimina uno dopo
l’altro tutti i rapinatori con la stessa aria con cui sfotteva gli arbitri sul
campo, liberando anche l’ostaggio, una giovanissima (e dotata di apparecchio
per i denti modello Squalo di 007) Renée O’Connor, la futura Olimpia dei telefilm
di “Xena”.

La fine che fanno quelli a cui non piaceva “Xena”.

Dopo aver presentato il buono, tocca far entrare in scena i
cattivi, dei motociclisti in odore di nazifascismo che per rotelle mancanti e buone
maniere, potrebbero essere la banda rivale di quelli visti in Ancora 48 ore, basta dire che William
Forsythe si esibisce nella sua versione della mela di Guglielmo Tell da
colpire, però usando una lattina di birra sulla spalla, e al posto di arco e
frecce, un’arma del tutto identica al mitra degli alieni di Arma non convenzionale, se non altro per
numero di colpi sparati, e semplicità nel far saltare tutto in aria.

Per aumentare la quota simpatia del Boz poi, funziona alla
grande la scena della colazione dei campioni («Se vuoi diventare forte come me
mangia la tua pappa») che consiste più o meno in una nutriva variante della
dieta di Rocky: Uova, banane,
patatine fritte, due barrette di Snickers e prima di frullare tutto, una
spruzzata di tabasco. Il tutto divorato? No servito all’animaletto di casa, un varano. Roba che se io sbaglio a scaldare la carne ai miei cani, mi becco in
cambio una settimana di uscite di corsa al guinzaglio causa cagozzo.
  

“Il varano che animaletto strano, non tendergli la mano, la mangerà” (Cit.)

La trama procede lineare come ci si aspetta dalla storia di
uno sbirro infiltrato, con tutte le regole base rispettate: La fiducia del
cattivone da conquistare, i sospetti del suo braccio destro, la donna del boss
a cui infilare la lingua in bocca e tutte le prove di fedeltà e virilità che vi
potreste immaginare nel mezzo. Ma tutto vitaminizzato dalla colonna sonora
giusta, da un quantitativo di poppe non indifferente, e dall’arroganza congenita
di Brian Bosworth particolarmente allergico a giacche e camice.

“Hai caldo Boz?”, “No, oggi no, ho messo la prima cosa che ho trovato nell’armadio”

Ma se il Boz è un animale nel suo ecosistema, Lance
Henriksen è un gigante che regala un cattivo memorabile, un agente del caos
come ne abbiamo visti pochi, schifato da ogni forma di regolamento (anche l’alleanza
necessaria con i paramilitari gli va stretta) mosso anche da notevoli ambizioni
provocatorie, per tutto il tempo si comporta come se fosse venuto a fare il
lavoro del diavolo, nominando John Stone il suo angelo della morte e vestendosi
da prete per massacrare tutti durante il processo («Benvenuto nel mio
mattatoio!»). Avere Lance Henriksen, in grandissimo spolvero per una parte così
luciferina, è un valore aggiunto enorme, rispetto ai cattivi contemporanei, senza
carisma e spesso accessori alla trama che tocca vedere nei film moderni, Chains
Cooper è un’iniezione di malvagità.

Lance è il migliore, inutile girarci attorno, impossibile trovare di meglio.

Anche perché le prove di fedeltà che chiede a Stone e ai
suoi uomini sono una più sadica e crudele dell’altra, l’orecchio tatuato da staccare al proprietario e consegnare, nemmeno se Brian Bosworth fosse il cacciatore della favola di Cappuccetto Rosso
(vestito decisamente peggio), oppure la tortura della mano spappolata nella
ruota della moto, non ne fanno più di cattivi così!

Ma se il numero uno della banda è così, persino la sua degna
spalla non scherza, William Forsythe con quel suo ringhio da bulldog, è perfetto
per la parte e permette a Craig R. Baxley di dirigere una gran scena di
inseguimenti in moto a metà film, dove non mancano esplosioni, sangue senza
tirar via la mano e una conclusione che di fatto è un vero e proprio funerale vichingo
con la motocicletta (e il suo pilota) dati alle fiamme al posto del Drakkar.

I film gentili e morigerati della prima serata del vecchio palinsesto di Italia 1.

Ma dove “Forza d’urto” sale ulteriormente di colpi e in
quella lunga scena finale in cui Craig R. Baxley fa sfoggio di manifesto
talento, l’assalto alla Corte Suprema del Mississippi con attentato al
governatore, è una lunga tirata che sembra non terminare
mai, ma anzi ammonticchia una sopra l’altra trovate clamorose: Lance Henriksen
vestito da prete che ammazza tutti a colpi di mitra, Brian Bosworth che si
libera della bomba lanciandola giù dall’elicottero insieme allo sgherro che
minacciava di farla saltare, la fuga in moto, l’elicottero che percorre la
strada in direzione della Corte Suprema volando quasi raso terra in una
variante cazzuta della limousine presidenziale, il tutto, solo per finire abbattuto da
una motocicletta lanciata in volo, in una scena simile a quella di Terminator 2 ma arrivata poco prima,
considerando che “Stone Cold” è uscito (negli Stati Uniti) nel maggio del 1991,
mentre il film di Cameron a luglio dello stesso anno.

Non credo sia quello il posto giusto per parcheggiare le motociclette.

Quando pensi che Craig R. Baxley abbia dato tutto e il suo
film stia per mollare il colpo, Bax e Boz ne hanno ancora e il gran finale non
può che essere lo scontro finale tra Stone e Chains in cui non manca davvero
niente, nemmeno che il contatto dell’FBI Lanca (Sam McMurray) usato fino a quel
momento come spalla comica del protagonista, faccia la parte del sergente Al Powell della situazione, per
poter concedere a Brian Bosworth il palcoscenico finale, la camminata a petto
nudo, sporco di sangue e sudore lungo le scale della Corte Suprema. Missione
compiuta.

“Forza d’urto” malgrado una campagna promozionale bella spinta
è stato un mezzo disastro al botteghino, con nove milioni di fogli verdi con sopra
facce di altrettanti presidenti defunti portati a casa, il film non si ripagò nemmeno la spesa, perché il pubblico che era disposto a pagare quindici dollari una maglietta con
su scritto “BAN the BOZ”, magari non aveva voglia di spendere altri soldi per
vedere il giocatore più odiato nella NFL al cinema. Un vero peccato, non tanto per la carriera
del Boz, che ha provato a proseguire con altri film e anche un seguito di “Forza
d’urto” uscito nel 1997 (“Stone Cold II – Back in Business”), ma senza riuscirci
mai per davvero.

I protagonisti dei film d’azione arrivano alla fine come quelli di un horror, però con più cazzimma.

No, il prezzo più alto lo ha pagato Craig R. Baxley, tornato
a dirigere per la televisione anche roba con una certa visibilità come “La
tempesta del secolo” (1999) e “Rose Red” (2002) entrambi tratti da Stephen
King, ma senza più quel fuoco nelle vene sfoggiato nei suoi primi tre film da
regista. Una sveglia analogica in un mondo che andava verso il digitale, rappresentato
dalle produzioni con i bordi arrotondati che tocca pupparci oggi. Ma Baxley
resta indimenticato, perché ha ruggito fortissimo come un T-Rex imponendo il
suo dominio sul panorama, quello dei film d’azione orgogliosamente vecchia
scuola, prima che arrivasse la cometa a spazzare via tutto, un dinosauro dell’ultra
violenza.

Un onore averlo potuto ospitare su questa Bara, che nemmeno
esisterebbe senza il lavoro di artigiani delle esplosioni, delle botte e della
sparatorie come Craig R. Baxley. Grazie del gran casino Bax!
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