«Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella
della tigre nella giungla».
così anche i cartelli originali in francese di “Frank Costello faccia
d’angelo”, bizzarra invenzione del nostro Paese, che oltre a co-produrre
il film, è riuscito nell’impresa di farsi odiare tantissimo dal suo regista, Jean-Pierre
Melville, uno che non le mandava certo a dire, cosa che non ha certo fatto con
gli Italiani, etichettati come «Salauds!», che detta così sembrerebbe una cosa
gentile, ma che si potrebbe tradurre, birbantelli, ecco, traduciamola così,
birbantelli.
Goan McLeod, “Frank Costello faccia d’angelo” non ha quasi nulla a
che vedere con la vita del criminale Frank Costello, che infatti nella versione
originale del film si chiama Jef Costello, ma soprattutto ha ancora meno a che
spartire con il titolo originale voluto da Melville, “Le Samouraï” che
ammettiamolo, oltre ad essere più figo, è decisamente più adatto al tema e al
tono della pellicola.
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No dai, questo titolo è molto più figo, non si discute. |
La solitudine di un samurai, e una tigre nella giungla, proprio
questo sembra Costello nella prima scena, macchina da presa fissa mentre sbuffa
nuvolette di fumo in casa sua, silenzioso ma sempre attento e letale, come una
tigre appunto, oppure un samurai.
della grande tradizione del “polar”, il noir/poliziesco francese degli anni ’60,
non potete mancarla questa tipologia di film, sono tutte storie di corruzione,
crimini passionali, tradimenti, omicidi, il più delle volte narrati in prima
persona, da protagonisti che fumano come se non ci fosse un domani (e tante
volte, un domani non lo hanno davvero) mentre indossano cappotto e Borsalino.
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“Fa freddo, hai lasciato la finestra aperta?”, “No, è che siamo molto polar bellezza”. |
Il nostro Jef Frank, viene assoldato dalla
criminalità Parigina per fare lavori di fino, si è fatto una reputazione perché
è un tipo metodico al limite dell’ossessività, tenetemi l’icona aperta, più
avanti ci torniamo. Ad interpretarlo è Alain Delon che si è fatto parecchio
desiderare dal regista, i due non si mettevano d’accordo sul numero di primi
piani che Delon pretendeva, ma in compenso ha ottenuto di infilare nel film la
sua compagna di allora, Jane Lagrange, la biondina che contribuisce a dare un
alibi a Costello (Storia vera).
pellicola attorno al suo protagonista, i primi otto minuti del film, ma tendono
quasi ad essere dieci se non contiamo un brevissimo scambio proprio con Jane
Lagrange, fanno di “Le Samouraï” un film muto. Frank si prende cura
dell’uccelletto che tiene nella gabbietta nel suo appartamento, esce per
strada, ruba una Citroën DS usando un mazzo di chiavi che sembra quello del
bidello della scuola, e si reca in uno locale di classe per concludere il suo
lavoro, ovvero quello di uccidere il proprietario del night.
che però incredibilmente, ma nemmeno poi tanto, nel confronto all’americana non
indica il nostro Frank come colpevole, regalandogli di fatto la libertà. Ed ora
lo dico senza paura di essere smentito, se Bryan Singer per il suo “I soliti
sospetti” (1995) non è andato a rivedersi questo film, giuro che mi mangio il
cappello.
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“Keyser Söze mi spiccia casa.” |
Eppure Costello ha tutta Parigi addosso, la criminalità è
convinta che lui abbia spifferato e gli manda contro un biondo killer (Jacques
Leroy), mentre la polizia non molla e l’ispettore (François Périer) gli sguinzaglia
dietro tutti gli uomini che ha, quindi il nostro Franky è un predestinato, la
morte aleggia su di lui per tutto il tempo. Persino quando intreccia una storia
d’amore con la bella pianista, che è di fatto una nera signora, con tanto di
vestaglia nera, ora io ho qualche problema con gli ideogrammi giapponesi, ma se
mai scoprissi che quello sulla schiena della ragazza vuol dire “Morte” o
qualcosa del genere, il cerchio sarebbe davvero completo.
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Corteggiare la nera signora, e non è tanto per dire! |
Quindi anche questo samurai di Melville, come nella migliore
tradizione dei samurai giapponesi è votato alla morte, il film invece è ultra
cesellato, curatissimo nei dettagli a partire dalla fotografia di Henri Decaë,
collaboratore storico di Melville e con le mani in pasta in molti dei film
della Nouvelle Vague.
così? Perché “Le Samouraï” è essenzialmente il trionfo della narrazione portata
avanti per immagini più che con le parole, in pratica del cinema d’azione nella
sua forma più artistica, ma sempre di cinema d’azione si tratta.
sequenze magistrali, quella già citata del confronto all’americana ad esempio,
è quella con più dialoghi di tutto il film, migliori di questa ci sono solo la
fuga di Frank nella metropolitana di Parigi, scendendo e salendo tra i vagoni
e lasciando con un palmo di naso tutta la polizia. Prova a farlo nella
metropolitana di Torino una cosa così, una linea retta che va da un punto “A”
ad un punto “B” e fine, non è un metrò, è il Brucomela di Gardaland.
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“Prossima fermata Vinzaglio. Next stop Vinzaglio”. |
Un tale trionfo di treni, vagoni e fermate deve aver per
forza influenzato uno come Walter Hill,
e di conseguenza Michael Mann, i due massimi cantori delle scene in
metropolitana del cinema americano, e a dirla tutta, anche il fatto che i
personaggi, ad esclusione del protagonista, non abbiano nemmeno un nome, ma
vengano identificati dal ruolo, è qualcosa che Hill deve aver sottolineato sul
suo taccuino di appunti.
ricercati, volutamente diretti per risultare stilosissimi all’occhio della spettatore,
su una trama che per sua stessa affermazione, era una cosina. Per Melville il
romanzo originale era davvero una robetta di poco conto, a cui ha voluto
aggiungere i suoi studi sulla schizofrenia per dare uno spessore e un’ulteriore
chiave di lettura alla trama.
il protagonista è anaffettivo, un po’ perché sembra intrappolato nella sua
volontà di risultare “Bello bello in modo assurdo” (Cit.), infatti non a caso è
interpretato da uno che per decenni è stato associato all’idea di uomo
estremamente affascinante, ovvero Alain Delon. Ma soprattutto Costello è
ossessivo, nei gesti con cui si prende cura del pennuto che tiene nella gabbietta in casa, ma
soprattutto nel suo modo di sistemarsi il Borsalino sulla testa, lo stesso cappello
che almeno in un’occasione gli salverà la pelle.
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“Ora che ci penso, anche Zoolander mi spiccia casa.” |
Melville ci racconta un personaggio affetto da una lucidissima
follia, votato alla sua missione, un suicidio rituale davvero degno di un
samurai, un seppuku finale algido e stilosissimo. Avete presente quella
sensazione di finale tragico dietro l’angolo, per dei personaggi fighi dentro i
loro soprabiti? Ecco quello, un Milano Calibro 9 in versione espansa.
direttamente, ma i registi che si sono abbeverati alla fonte di Melville sono
tantini, a parte il solito Tarantino che spunta sempre in questo tipo di
elenchi, qualcuno l’ho già citato, ma fatemi aggiungere anche William Friedkin,
che anche lui secondo me si è ripassato questo film prima di sfornare una
pietra miliare come “Il braccio violento della legge”. A ben
guardare, quella frase presa dal Bushidō può ricordare anche “Ghost Dog”
(1999) di Jim Jarmush, ma il merito di Melville è quello di essere riuscito a
tendere un ponte tra oriente e occidente che sembra dire: «Toninelli levati, ma levati proprio».
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Stallo alla messicana francese. |
Un francese, che ricordiamolo, sono i veri americani del
mondo per attitudine, per creare il suo Samurai ha guardato ad oriente, l’oriente
ha risposto, perché non avremmo avuto un solo film di John Woo senza Melville,
e già solo per questo bisognerebbe ringraziarlo. Ma anche Johnnie To non è
stato da meno, il suo “Vendicami” (2009) è quasi un remake di questo film,
basta dire che per il ruolo di protagonista, To avrebbe voluto proprio Alain
Delon, ma ha dovuto accontentarsi di Johnny Hallyday (storia vera).
per farmi tradurre le scritte ad inizio film ho chiesto consulenza alla mia
Wing-Woman (storia vera), ma questo film è decisamente una pietra miliare.