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Frankenstein di Mary Shelley (1994): il Prometeo di Kenneth Branagh

Periodicamente i mostri della Universal trovano il modo di tornare al cinema, anche se nessuno nel 1994 era in fissa con gli universi condivisi ed espansi come ora, anche trent’anni fa abbiamo avuto un ritorno in grande stile per questi amati mostri, che è andato a braccetto con il successo del Dracula di Francis Ford Coppola.

Ad Ovest di quel film però, ne sono usciti altri, come il titolare del compleanno di oggi, che ha dovuto fare i conti con l’enorme popolarità della versione diretta dallo zio di Nicolas Cage, che qui risulta anche come produttore con la sua American Zoetrope. Mi riferisco ovviamente al tanto bistrattato all’uscita “Frankenstein di Mary Shelley”, che in realtà è di Kenneth Branagh, alle prese con il suo primo ed unico Horror in carriera, forse la prima concessione di King Kenneth ad un pubblico più popolare (in carriera poi, altre sarebbero seguite) ma restando all’interno dei canoni del film in costume.

Come passare dal Bardo a Mary Shelley.

Un bel salto dello squalo per il pubblico del 1994, la sua versione di Frankenstein si trovò in mezzo al fuoco di fila degli appassionati del cinema di Branagh, abituati ai suoi adattamenti Shakespeariani – alla quale sarebbe tornato per direttissima – e tra quella porzione di pubblico che gli ha preferito il più popolare Dracula, anche perché negli Stati Uniti i due film sono usciti quasi in contemporanea, ma Branagh ha riscosso più successo economico ai botteghini europei rispetto che a quelli americani.

Padre Tempo poi ha fatto il suo lavoro di logoramento, se mi dovessi affidare alla memoria (che è l’intelligenza degli stupidi come diceva Einstein, non Frank) sarei stato pronto a giurare che questo film fosse uscito sull’onda del successo di quello di Coppola, in realtà ne è stato divorato e basta. Imbocco per un momento una china scivolosa e poi torniamo su King Ken.

Mi muovo sul ghiaccio… Letteralmente!

Argomento che abbiamo già trattato nel post a tema, ma malgrado l’uso del genitivo sassone nel titolo, il film sul Conte è più che altro “Dracula di Francis Ford Coppola”, le licenze poetiche che si è preso il regista sono parecchie rispetto al materiale originale firmato da Bram Stoker, specialmente sull’aspetto del Conte e su molti altri passaggi chiave, ci importa poi davvero molto? È dovere del cinema essere copia carbone del materiale originale? No, il cinema deve fare il cinema e quello diretto da Coppola era di ottima qualità, anche se poi è stato mitizzato e considerato l’unica intoccabile versione possibile di Dracula al cinema.

Da uno come Kenneth Branagh, che quando distribuivano la timidezza è rimasto a casa a rimirarsi allo specchio, sarebbe stato legittimo aspettarsi lo stesso, un “Kenneth Branagh’s Frankenstein” che invece un po’ a sorpresa, malgrado alcune concessioni volute dal regista di cui parleremo, è davvero un “Mary Shelley’s Frankenstein”, il che è incredibile considerando il Super Ego di Branagh, ma anche molto sensato, il regista e attore inglese ha capito che la fedeltà in quel caso specifico sarebbe stata la via giusta, anche per non finire divorato dal ricordo dei tanti adattamenti di Franky al cinema.

King Ken si mette al lavoro sulla sua creatura.

Proprio per essere il più fedele possibile alle atmosfere del romanzo di Mary Shelley, King Ken volle fortemente una penna di livello come quella di Frank Darabont, che per la seconda volta in carriera sforna l’adattamento di un classico Horror molto intelligente nelle scelte e con una sua personalità, destinato ancora una volta ad essere un culto per pochi purtroppo.

La selezione di attrici e attori è stata una bella girandola, Willem Dafoe era in lizza per il ruolo di Victor Frankenstein prima che King Ken ricordò a tutti che lui era quello che non aveva fatto la fila per la timidezza prendendosi il ruolo, poco male, Dafoe avrebbe interpretato la sua versione del dottore altrove.

«Piacere Mozart», «Piacere zampa di SIMMIA»

Christopher Lambert venne sostituito prima dell’inizio delle riprese da Mozart, ovvero Tom Hulce e per Sir Sean Connery nei panni del professor Waldman non se ne fece nulla, posso dirlo? Per una volta meglio avere John Cleese per il ruolo.

In un casting dove l’unica sicurezza, la pietra d’angolo sembrava Ian Holm per il ruolo del padre del protagonista, Alfonso Frankenstein, sono stati tutti in discussione, specialmente il ruolo di Elizabeth, dopo il due di picche di Emma Thompson, King Ken dovette scegliere tra le due migliori candidate ai provini organizzati in tutta fretta: Kate Winslet ed Helena Bonham Carter. Nel dubbio scelse di non scegliere, Kate Winslet scartata per questa parte finì comunque a recitare con lui in “Hamlet”.

Nulla da dire, ottimi gusti Kenneth.

Il problema vero consisteva nel trovare qualcuno che potesse sostenere il peso del confronto con i Boris Karloff che furono: John Malkovich, Jeremy Irons, Gérard Depardieu ed Andy García, tutti scartati, perché alla fine King Ken optò per uno che nel 1994 era vabbè, robetta, il miglior attore del globo o giù di lì, un mammasantissima come Robert De Niro. Kenneth il modesto e l’arte di accontentarsi del primo che passa.

De Niro non sarà un colosso, intendo fisicamente, non è un sellerone come Karloff, però dopo aver studiato le vittime di ictus per la sua prova, in un cast così inglese, lui sembra fatto dal sarto, perché il modo in cui Victor Frankenstein si procura cadaveri per il suo esperimento è gestito in modo molto intelligente, senza negare a De Niro un ruolo (seppur breve) anche da vivo, infatti il suo personaggio in origine è un ruspante uomo del popolo, arrestato ed impiccato, che dopo la sua resurrezione inizia a farsi dubbi morali e che risulta perfetto opposto a tutti questi inglesi dall’aria molto nobile. Inoltre parliamoci chiaro, quando De Niro minacciava qualcuno al cinema, trucco sul viso o meno, era credibile perché metteva una certa strizza, quando ringhia a suo “padre”: «Se mi neghi la mia notte di nozze allora sarò con te alla tua» è difficile non prenderlo seriamente come minaccia.

«Ehi tu? Dici a me? Non c’è nessun altro mostro qui» (quasi-cit.)

“Frankenstein di Kenneth Branagh Mary Shelley” ha tutti i naufragi e il ghiaccio dei poli che di solito molti adattamenti della storia ignorano, facile intuire perché King Ken abbia scelto di adattarlo, Victor Frankenstein non sarà un personaggio scritto dal Bardo ma ne ha tutta la tragedia e il pathos che Branagh può divertirsi anche a recitare, inoltre l’idea del regista inglese era quella di portare sul grande schermo le atmosfere dei testi di Shelley, quelli che erano torbidi per contenuti e due volte sconvolgenti, perché alla loro uscita non solo andavano a toccare punti scoperti della morale, ma erano per di più scritti da una donna, un punto che per assurdo è ancora una questione per qualcuno (troppi) nel 2024, figuriamoci nel 1818.

Ecco quindi la storia all’limite dell’incesto ed oltre tra Victor ed Elizabeth Beaufort, che voglio dire, essendo fatta a forma di Helena Bonham Carter qui in grande spolvero, rappresenterebbe una tentazione per chiunque, ma in generale è tutto il film di Branagh ad essere realizzato alla grande in tutte le voci tecniche, dai costumi alla fotografia, ma allo stesso tempo riesce a risultare trucido e malsano come ci si aspetterebbe da una storia dove qualcuno, si pone l’obbiettivo di infrangere l’ultimo tabù, che non è sposare una propria parente Bona (e anche Carter) ma riportare in vita i morti.

Chiaramente fratello e sorella, tutto normale no?

Va detto che “Frankenstein di Mary Shelley” è un film molto equilibrato anche dal punto di vista delle singole prove attoriali, non assistiamo mai alle vette di recitazione sopra le righe che abbiamo visto nel Dracula di Coppola, anche se alla sua uscita proprio la presenza di De Niro truccatissimo da non morto aveva messo un bel mirino in mezzo agli occhi al film, eppure gli si può criticare davvero poco a questo adattamento.

Insomma, non solo dentro ci trovate una zampa di scimmia (e quindi ben sapete che da Scimmiologo DOC, apprezzo) ma una delle trovate più sottilmente divertenti riguarda il personaggio di John Cleese, al momento di selezionare un cervello per la sua creatura, Frankenstein opta per quello di un grande uomo di scienza che lui stima, però, benedetto figliolo, ci credo che poi le cose hanno prese una deriva tutta loro, hai usato la materia grigia di quello più matto dei Monty Phyton!

«Questo pappagallo è morto… Rianimiamolo!»

Ecco, forse l’unico momento in cui King Ken volontariamente si discosta dal materiale originale è proprio nella seconda resurrezione del film, assente dal testo di Mary Shelley risulta essere non solo un momento strumentalmente drammatico, ma doppiamente cinematografico, visto che inevitabilmente non può che ricordare il lavoro di James Whale, in particolare “La moglie di Frankenstein” (1935), quindi se variazione deve essere, che rientri almeno nel campo del cinema allo stato più puro e poi gente, le chiacchiere stanno a zero, lo scontro finale tra la creatura e suo padre tra i ghiacci, ogni volta che lo rivedo mi riporta alle prime volte in cui leggevo “Frankenstein” da bambino, scoprendo una storia molto diversa da quella portata alla fama dai film della Universal.

L’abomimevole Franky Volante delle nevi.

Insomma, ci tenevo a rivedermi e a ricordare i primi trent’anni di quella volta in cui un nobile della Settima Arte come Kenneth Branagh ha “aperto” al grande pubblico, per altro facendolo in maniera così accurata, sarà anche stato oscurato da un capolavoro di Coppola, ma questa versione andrebbe riscoperta, la “Spooky season” di ottobre è il periodo giusto per farlo.

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