In quanto occidentali, siamo tutti guidati da un paio di storie che sono più fondamentali delle altre, una di queste l’ha scritta un greco che sapeva il fatto suo attorno al VIII secolo A.C. ma prima di dimenticarmi le buone maniera, bentornati al nuovo capitolo di… Coen, storia vera!
La volete sentire un’altra storia vera, così, giusto per scaldarci un po’? Non ho mai avuto la fascinazione di molti appassionati di cinema a creare storie di mio pugno, ho sempre preferito studiare per benino quelle esistenti, tutto d’un altro avviso il mio amico delle superiori Vincenzo (ciao, ovunque nel mondo tu sia) che trovando in me un altro appassionato, con il suo entusiasmo mi ha tirato dentro ai suoi cortometraggi e magari a scrivere un copione insieme. Tra le tante idee strampalate di due giovanotti con tanto cinema di genere, Walter Hill, Tarantino e ovviamente i Coen negli occhi e nel cuore, l’unica trovata che accese l’entusiasmo del mio socio fu la mia idea: un sicario stile Noir che fregato da una missione da compiere finita beh, a Troia (ma al plurale e non maiuscolo), deve portare a casa la pelle e tornare a casa. Se vuoi lo chiamiamo proprio Ulisse, sarebbe figo metterci anche un grosso energumeno con un occhio solo sulla sua strada e magari farlo finire in un bordello tentato dalle bellezze locali. Ci tengo a precisare che tutto questo è successo prima del 2000, noi di quel soggetto – molto banale, va detto – non abbiamo fatto molto, i Coen in linea di massima hanno fatto di meglio.
Alla sua uscita Il grande Lebowski non ha incassato subito i milioni, è diventato un titolo di culto con il tempo, “Fratello, dove sei?” non ha avuto nemmeno questa gioia, salutato all’uscita come un passo indietro per i due registi, per certi versi è il film più simile a Mister Hula Hoop che abbiano mai fatto, non a caso è quello considerato di meno, forse perché al netto di una mandria di mucche crivellate dalle pallottole di Mitra Thompson e di George “Non chiamatemi babyface” Nelson, anche il titolo con meno morti ammazzati male della loro produzione. Da grandi rimaneggiatori di generi cinematografici, i Coen anche per questo film guardavano alle classiche Screwball comedy ma anche ai film con carcerati in fuga, un’altra ottima occasione per il regista a due teste per pescare dalla realtà mescolandola abilmente alla finzione, e in questo caso alla storia più storia di tutte, l’Odissea di Omero.
Con una mano i Coen pescano dal film satirico del 1941 diretto da Preston Sturges intitolato “I dimenticati” e lo fanno mettendo in chiaro l’omaggio, in quel film il protagonista, un regista, voleva dirigere un documentario sulla Grande depressione intitolato “O Brother, Where Art Thou?” ma a ben guardare anche la scena del gruppo di carcerati in pigiama a righe in sala a vedere un film, arriva dritta da lì. A tutto questo aggiungiamo elementi reali, i due governatori in corsa per il grande stato del Mississippi per nome, comportamento, propensione ad utilizzare la scopa nei comizi e amicizie con quelli là, quelli con il cappuccio bianco a punta da utilizzare per i raduni, replicano abitudine del vero W. Lee “Pappy” O’Daniel, così come il chitarrista interpretato da Chris Thomas King, che prende il suo nome dai due musicisti blues Tommy e Robert Johnson, che secondo la leggenda avrebbero venduto l’anima al Diavolo, incontrato di notte ad un crocicchio, per poter suonare così bene. Che bello poter usare la parola crocicchio in una frase di senso compiuto!
A questo andrebbe aggiunto anche il legame eterno che la musica ha sempre ricoperto durante le campagne elettorali, specialmente negli Stati Uniti, un classico? I Twisted Sister che negano l’utilizzo della loro mitica “We’re Not Gonna Take It” ai candidati – di solito Repubblicani – che provano ad appropriarsene (storia vera). “O Brother, Where Art Thou?” è un intelligente ritratto di tutto questo, travestito da commedia leggera in stile anni ’30, tanto che alla sua uscita e forse ancora oggi, viene etichettato con un grosso: beh tutto qui? Anche se non è di certo poco.
Anche perché una caratteristica niente male di “Fratello, dove sei?” è in bella vista, ogni minuto lungo i 107 di questa storia “On the road” come dicono da quelle parti (nel Mississippi) succede sempre qualcosa, i protagonisti hanno sempre un problema da risolvere, anche se ammetto di non essere mai riuscito a capire che abbiano fatto a ripartire con il carburatore scassato, nella cittadina a due settimane da tutto (la risposta che mi sono dato? Hanno rubato un’altra auto, nel film lo fanno spesso), il ritmo di questo film dei Coen è bello alto e musicale come la sua notevole colonna sonora, firmata da T Bone Burnett e Carter Burwell e piena di classici gospel, blues, country, swing, bluegrass e della musica degli Appalachi, ma sulla colonna sonora, lasciatemi l’icona aperta, ci torneremo più avanti.
La caratteristica più evidente di “Fratello, dove sei?” però resta il suo essere una rilettura anti gloriosa dell’Odissea, se l’Ulisse di Omero era scaltro e virtuoso, un po’ meno lo è l’Everett Ulysses McGill dei Coen, malgrado la sua favella estremamente forbita, sta in fissa con l’aspetto dei suoi capelli e si prende cura di loro solo utilizzando la Dapper Dan, i suoi due compari sono due tontoloni ignoranti, non proprio gli eroi della guerra di Troia, qui finiti a spaccar pietre ospiti delle patrie galere e pronti alla fuga, ufficialmente per raggiungere un bottino di una rapina, prima che la valle dove è nascosto venga allagata, ma nel corso delle loro disavventure, scopriremo che il vero obbiettivo di Everett è più in linea con quello del suo quasi omonimo Ulisse, ovvero tornare a casa dalla sua Penny, nello specifico Penelope Wharvey McGill impersonata da una pretoriana dei Coen, Holly Hunter.
Tanto era dotata di pazienza e fedeltà la Penelope di Omero, quando quella dei Coen cambia idea velocemente, e non la cambia (perché ha già contato fino a tre) mentre pondera di cambiare marito e anche l’eroe della storia, è tutto tranne che un condottiero, anzi è il tipo di personaggio che inaugura quella che per i Coen è diventata una tradizione: umiliare George Clooney facendogli interpretare la parte del cretino.
Clooney non aveva idea di come calarsi nel ruolo del personaggio, anche l’accento del Sud gli creava qualche difficoltà, la soluzione? Suo zio Jack dal Kentucky. Zio ti mando un copione, potresti leggere le battute e registrale con la sua parlata? Il diligente zio lo fece, omettendo però tutte le parolacce, per via della sua fede battista, il nipote aveva finalmente trovato il personaggio di Everett (storia vera).
Anche se, filmografia alla mano, i film con Clooney dei Coen sono quattro e anche l’ultimo a ben guardare, potrebbe far parte del gruppetto, “Fratello, dove sei?” è il primo film di quella che i fratellini del Minnesota hanno definito la loro “Trilogia dell’idiota”, accumunata in ogni capitolo da Clooney che in particolare qui, è la caricatura dell’uomo moderno (americano) vanesio e arrogante che i fratellini si divertono a prendere per i fondelli, il paragone diretto con la saggezza di Ulisse rende tutto più netto.
Chiariti questi punti, “O Brother, Where Art Thou?” procede bello spedito anche perché non appesantito da chissà quali riferimenti diretti all’opera di Omero, i Coen hanno candidamente ammesso – anche se io non ci credo – di non averla mai letta “L’odissea”, a detta dei due, sul set l’unico ad avere familiarità con l’opera era Tim Blake Nelson, laureato in lettere classiche alla Brown University, assorto qui anche lui allo stato di pretoriano dei Coen e anche ottimo cantante, è proprio la sua la voce che sentiamo esibirsi in “In the Jailhouse Now”, unico a non cantare in playback (storia vera).
Vi dicevo dei punti di contatto con Mister Hula Hoop, anche qui l’ideale narratore è un non vedente di colore, che entra in scena su un carrello ferroviario spinto a braccia, che potrebbe essere un riferimento ai carrelli della macchina da presa (d’altra parte l’MDP è in narratore di ogni storia nella settima arte) oppure i Coen hanno una predilezioni per i personaggi di colore dai ruoli di semi Deus ex machina, visto che qui i tre fuggitivi vengono caricati a bordo del carrello, e poi, tanto per restare in tema, salvati da una tremenda inondazione proprio mentre Everett, il pragmatico, nel momento del bisogno, invoca l’Onnipotente, che posso dirlo? Sono i Coen stessi, infatti è il loro amato caos a salvare i personaggi, un fatto che è sempre un filo rosso che unisce tutte le opere dei fratellini del Minnesota.
Il resto è un trionfo di ammalianti sirene, che trasformano in rospi (più o meno) il povero Pete impersonati magnificamente da John Turturro, per non parlare dell’incontro con un affamato gigante con un occhio solo, facente funzione di Polifemo di turno, che non poteva che essere fatto a forma di John Goodman, meritevole di un paragrafo tutto suo.
Se il suo ruolo da Polifemo è chiarissimo, mi incuriosisce il modo in cui i Coen per il loro attore feticcio, scelgano sempre ruoli di estrema destra, era un venditore (con l’invocazione ad Hitler facile) anche in Barton Fink, accanto a Drugo impersonava la miglior imitazione di John Milius mai vista, quindi il suo orientamento politico non è in discussione, qui completano l’opera facendo indossare al suo Big Dan anche il cappuccio del KKK, tecnicamente ci sarebbe il materiale anche per un’altra sotto trilogia Coeniana costruita attorno ad un solo attore, però mi rendo conto che quella dell’idiota è più facile da “vendere” al pubblico, non tutti hanno l’umorismo nerissimo del regista a due teste.
Il film sarà anche stato girato nel verdissimo Mississippi in piena primavera, ma a guardarlo non sembra proprio, magie della fotografia e del ritocco digitale in fase di post produzione firmato dal mago Roger Deakins, all’ennesima meraviglia diretta dai fratellini, il nostro trasforma ogni fotogramma di “O Brother, Where Art Thou?” in un vecchio dagherrotipo seppiato da Padre Tempo che sembra piombare dritto dall’anno 1937 in cui la storia è ambientata, ma vi ero debitore di un’icona musicale da chiudere, lo faccio immantinente!
Come detto la critica rimase tiepide all’uscita di “Fratello, dove sei?”, la popolarità del film è quasi interamente legata alla sua notevole colonna sonora e ad un brano in particolare, Man of Constant Sorrow cantata dagli immaginari Soggy Bottom Boys, i tre compari del film (anche in versione barbuta, tipo ZZ-Top) con il loro nome che è un omaggio ai Foggy Mountain Boys, un complesso bluegrass guidato da Lester Flatt ed Earl Scruggs. Le canzoni che sentiamo suonare al gruppo sono cantante in playback dagli attori, i veri nome dietro questo orecchiale successo sono Dan Tyminski alla voce solista, Harley Allen e Pat Enright, malgrado i pochi passaggi in radio, il pezzo raggiunse la posizione numero trentacinque nella classifica statunitense Billboard Hot Country Singles & Tracks nel 2002, oltre ad avere il primato di piantarsi in testa al primo ascolto ancora oggi, a venticinque anni di distanza dall’uscita del film.
Per oggi questo viaggetto tra Itaca e il Mississippi è giunto a destinazione, tra sette giorni invece, vi assicurò che ci sarà un altro post sui Coen, non garantisco sul suo protagonista però, quello è da capire se ci sarà o meno.
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