Anche quest’anno avete apprezzato moltissimo l’iniziativa Cassidy cover your favorites ricoprendomi dalla testa ai piedi di titoli uno meglio dell’altro, per questo non posso che ringraziarvi.
Ma la scelta quest’anno è stata facilissima perché con la bellezza di due voti (chiamiamoli così) e un quarantennale da festeggiare, non potevo proprio non scegliere “Fuga da Alcatraz”, quindi mille grazie a Marco Pacifici e Kuku per il post di oggi!
Non trovo niente di più angosciante delle storie a tema carcerario, ne avevo già parlato un po’qui, eppure allo stesso tempo il tipo di racconti che mi affascinano di più sono quelli di un (anti)eroe che si scontra con un sistema di regole, meglio per il coinvolgimento se opprimenti, per rimarcare con ogni modo possibile il suo desiderio di libertà, un soggetto che nel cinema degli anni ’70 era più facile trovare e che proprio sul finire di quel decennio, ha trovato un titolo come “Fuga da Alcatraz” che da quarant’anni è il modello di riferimento di tutto i genere carcerario, queste pietre miliari qui hanno un nome, si chiamano Classidy!
“Escape from Alcatraz” è basato su tre monumentali pilastri, tre icone inossidabili da sempre sinonimo di sicurezza, la prima è “La roccia”, The Rock come viene chiamata qui e nel film omonimo, la prigione più famosa della storia, Alcatraz che dal 1963 è diventata un’attrazione turistica dove la domanda che i gestori delle visite guidate si sentono ripete più spesso dai turisti è sempre la stessa: «Quale di queste era la cella di Clint Eastwood?» (Storia vera).
Le altre due rocce non possono che essere la faccia di granito di Clint e la solidissima regia di Don Siegel che firmano insieme la loro quinta ed ultima collaborazione, se ve lo state chiedendo, le quattro precedenti sono state cosette come: “L’uomo dalla cravatta di cuoio” (1969), “Gli avvoltoi hanno fame” (1969), “La notte brava del soldato Jonathan” (1971) e Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! Scusate se è poco.
La storia è basata sul libro omonimo di J. Campbell Bruce che racconta della vera storia dell’evasione di tre detenuti, Frank Morris e i fratelli John e Clarence Anglin, dalla prigione nella baia di San Francisco avvenuta nella notte dell’11 giugno del 1962, pochi mesi prima della chiusa di Alcatraz. A trasformare il libro in una sceneggiatura ci ha pensato Richard Tuggle lo stesso che poi dirigerà proprio Estwood in “Corda tesa” (1984).
La leggenda vuole che una buona fetta del budget (e per la precisione cinquecento mila fogli verdi con sopra le facce di alcuni ex presidenti defunti) venne spesa per sistemare l’illuminazione e alcune delle strutture del carcere ormai in disuso per girare il film, ma il motivo per cui la pellicola risulta ancora un modello di riferimento, va cercato nel fatto che partendo da una sceneggiatura di ferro, Don Siegel ha saputo tirare fuori una pellicola rigorosa, forse l’apice del cinema geometrico e senza sbavature del grande regista.
Cosa dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Bravi! Che ne determinano tutto l’andamento. Quelli iniziali di “Fuga da Alcatraz”, per la precisione, sono otto, ma micidiali, il 18 gennaio del 1960 Frank Morris sotto una pioggia scrosciante diventa un detenuto della Roccia, spogliato, perquisito e nudo come il giorno in cui è venuto al mondo, Siegel ci mostra in una lunghissima scena muta come si diventa da essere umani a numeri, una scena da horror che Siegel conclude nello stesso modo, con le parole «Benvenuto ad Alcatraz» e il tempismo perfetto di un fulmine che illumina il volto (sempre lo stesso da quasi 90 anni) di Eastwood mentre le sbarre si chiudono. Un inizio che ti fa venire voglia di fare “GULP!” a te che sei comodamente seduto in poltrona, ma tranquilli, dopo peggiora.
Sì, perché Don Siegel sfrutta al meglio la sceneggiatura per mostrarci la vita nella prigione, le sue regole e la sua gerarchia interna, ma il colpo di genio per me resta la scelta di casting di affidare il ruolo dell’inflessibile e malefico direttore (una figura che sarebbe diventata la normalità in tutti i film carcerari da qui alla fine del cinema) all’attore Patrick McGoohan che davanti ad un artista della fuga con un quoziente intellettivo più alto della media come Morris, mostra subito i denti per mettere in chiaro che questo è il suo parco giochi. Con un paio di dialoghi drittissimi il film introduce le caratteristiche principali del protagonista e le regole del carcere, il tutto con poche frasi che tolgono l’aria persino allo spettatore: «Se disobbedisci alle regole della società ti mandano in prigione, se disobbedisce alle regole della prigione, finisci qui».
Perché McGoohan in questo ruolo è un colpo di genio, perché l’uomo che ha il compito, come dice lui, di tenere tutte le uova marce nello stesso paniere, si prende il suo tempo per sottolineare come all’interno della prigione tutte le regole e le informazioni del mondo esterno arriveranno da lui, lo stesso che in carriera aveva rappresentato uno dei miei ribelli dell’immaginario preferito, il Numero 6 («I’m not a number, I’m a free man!») della serie di culto “Il prigioniero” che qui è definitivamente passato dall’altra parte della barricata, quindi ancora più credibile nella parte perché solo chi è stato prigioniero sa come fare al meglio il carceriere.
Il suo perfetto opposto è il Frank Morris di Clint Eastwood che per tutto il tempo, oltre alla solita faccia di granito, sfoggia un atteggiamento che è remissivo solo per forza di cose, basta guardarlo per capire che ogni volta che obbedisce ad un ordine la parte più difficile per lui è trattenere il “vaffanculo” che gli passa per la testa, ma non c’è un solo momento in cui Morris non mantenga la schiena dritta e la testa alta, mentre cerca i punti deboli della prigione. Perché alla fine Morris è il perfetto esempio di eroe del cinema di Don Siegel, metodi… Vogliamo dire ruvidi? Ecco, diciamolo… E un’incrollabile fiducia nella sua capacità di poter alterare il mondo attorno a sé, un concetto che una prigione come Alcatraz non può che sottolineare, perché mentre tutti (anche il bibliotecario English, Paul Benjamin, l’uomo che spiega a Morris le gerarchie interne del carcere) gli spiegano che affrontare sbarre, turni di guardia, le correnti e l’acqua gelida della baia di San Francisco è un’impresa impossibile, il nostro protagonista si convince della sua teoria: fuggire da Alcatraz non è impossibile, è solo un rebus che nessuno ha risolto. Non ancora almeno.
Tra le parole di English, alcune delle più significative sono quando dice che la Roccia può tirare fuori la forza di un uomo, oppure spezzarlo ed è proprio il bestiario umano che popola Alcatraz a dare spessore e realismo al film. I personaggi che ruotano attorno ai due opposti in lotta tra loro (Morris e il direttore) offrono tutta la gamma della razza umana.
Si va da “Tornasole” (Frank Ronzio), nomignolo che deriva dal suo volto che cambia colore in base al freddo o al caldo, che utilizza gli spaghetti sottratti alla mensa per nutrire il suo topolino, per passare al fragile pittore Chester “Doc” Dalton (Roberts Blossom) che con la pittura ha trovato un modo per non farsi spezzare e che sfoggia un crisantemo giallo, non proprio il più allegro dei fiori, ma una piccola ribellione, il simbolo della sua volontà di non farsi rinchiudere tra quattro mura.
Non tutti gli ospiti di Alcatraz, però, sono mossi da intenti artistici, anzi, qualcuno come Wolf (Bruce M. Fischer) preferirebbe dare sfogo ad istinti decisamente più bassi, come nella scena della doccia dove Morris gli fa capire che all’argomento non è proprio interessato, prima di dare tutta una nuova dimensione al concetto di “lavati la bocca con il sapone”.
Anche perché in un posticino tenero come Alcatraz, non puoi dimostrare di avere un’esitazione e il nostro Frank non tentenna nemmeno quando English gli racconta la sua storia, dimostrando di essere tutto tranne che uno stinco di santo, ma sicuramente uno affidabile, d’altra parte lo interpreta Clint Eastwood l’unico al mondo che è sinonimo di sicurezza anche più della stessa Alcatraz.
A suo modo Morris è un cavaliere senza nome degno di un Western, non ha un passato né una famiglia, non ricorda nemmeno la data del suo compleanno («Ma che infanzia hai avuto?», «Breve»), sembra arrivato dal nulla (e al nulla destinato a tornare) per raddrizzare i torti del direttore, proprio per questo è l’unico che fa qualcosa nella scena della falegnameria, un momento di realismo quasi splatter che Siegel sottolinea con un utilizzo straniante della musica in cui Morris sfoggia tutto il disprezzo per l’istituzione che fatica a tener nascosto tra le mura del carcere.
Ma chi osa vince, perché la spavalderia di Morris trova preziosi alleati nel giovane Charley Butts che diventa Charley Puzo nel doppiaggio italiano, una scelta azzeccata per sottolineare il suo cognome buffo, ma soprattutto i due fratelli Anglin, Clarence e John, quest’ultimo interpretato da quel gran mito di Fred Ward, giusto per ribadire che a facce di granito, questo film è piuttosto ben messo.
Quello che funziona alla grande in “Escape from Alcatraz” è che su questo tessuto antropologico, si tendono delle istanze rivoluzionarie che non ti aspetteresti da due conservatori come Siegel e Eastwood, ma nemmeno per un minuto si dubita del fatto che la fuga dei personaggi, che in teoria sarebbero dei galeotti, non sia buona e giusta, considerando l’alternativa di un sistema repressivo che accumula criminali dietro le sbarre, ma non ha la minima umanità nel gestirli.
Siegel che nella sua filmografia ha saputo spaziare tra i generi, aveva già affrontato quello carcerario in “Rivolta al blocco 11” (1954), ma qui il suo cinema ha raggiunto una maturità totale, rispetto ad altri film della stessa tipologia, il grande regista predilige l’azione mostrata (quindi il cinema puro) alle parole, i momenti intimisti e intensi non mancano, ma non somigliano a quelli di “L’uomo di Alcatraz” (1964) di John Frankenheimer e manca anche la riflessione sulla perdita e l’annullamento dell’umanità di pellicole come Fuga di mezzanotte di Alan Parker.
Qui il regista mette l’azione al primo posto, se la sceneggiatura non ha un filo di grasso, la regia di Don Siegel è rigorosa, non uno stacco di montaggio o un’inquadratura che non sia strettamente necessaria alla narrazione, se Siegel mostra un dettaglio, state pur tranquilli che quello avrà un ruolo per portare avanti la storia, un tipo di approccio cinematografico che ha fatto scuola per signori come Michael Mann, oppure lo stesso Clint Eastwood che ancora oggi ha fatto dell’essenzialità un marchio di fabbrica dei suoi film da regista.
Provate ad affidare il terzo atto di questo film ad un regista di minor valore e aspettatevi un risultato decisamente meno riuscito rispetto alla pietra miliare che è “Fuga da Alcatraz”, perché parliamoci chiaro: vedere detenuti che scavano tunnel, oppure preparano dei mamozzi di carta pesta, non è proprio la più avvincente delle trame in termini di eventi e, a ben guardare, anche il finale è quasi anticlimatico, ma è proprio la regia impeccabile del regista di Chicago a rendere tutto un meccanismo ad orologeria perfetto.
Sullo schermo succede poco o niente, ma da spettatore è impossibile non scattare ogni volta che un secondino si avvicina alle celle dei protagonista e anche il piano del direttore di cambiare cella a Morris, oppure il ritorno in scena del vendicativo Wolf, sono tutti momenti che si risolvono in un nulla di fatto, ma un nulla di fatto con cui Siegel, comunque, t’inchioda allo schermo, anche se il film lo hai già visto cento e più volte, anche se l’esito è strombazzato ai quattro venti, dritto sparato nel titolo del film, questo è qualcosa che possono fare solo i grandissimi.
Il finale, poi, è l’apice di un duello a distanza tra due forze opposte, ma la, chiamiamola firma, che Morris lascia volutamente al direttore è la prova di quanto tra i due scacchisti, Morris sia indubbiamente quello più intelligente, quel crisantemo giallo è allo stesso tempo un “Tana per il direttore!”, ma anche l’alibi perfetto per convincere chiunque a dare il fuggitivo per morto della fuga.
“Escape from Alcatraz” ha avuto un impatto incalcolabile sulla cultura popolare, Stephen King ha pescato a piene mani idee e personaggi da questo film, per alcuni suoi romanzi a tema carcerario, proprio per questo a chi dovesse capitare di scoprire questo capolavoro, dopo aver visto cosette come “Le ali della libertà” (1994), oppure “Il miglio verde” (1999) potrebbe avere un senso di Déjà vu in qualche momento, ma tutto è iniziato qui, proprio come la carriera del mitico Danny Glover, al suo primo ruolo d’attore, è il detenuto a cui Clint Eastwood passa uno dei libri dietro le sbarre mentre spinge il carrello della biblioteca.
Insomma, sono molto felice di aver potuto finalmente ospitare questo film sulla Bara Volante, dopo quarant’anni è ancora una roccaforte inossidabile, una roccia che non rotola come il cinema di Siegel e la faccia di granito di Clint.
Sepolto in precedenza lunedì 11 febbraio 2019
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