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Fuga da Los Angeles (1996): l’anarchico definitivo

Ci sono dei momenti in cui penso che “Fuga da Los Angeles” sia anche meglio del suo predecessore 1997 – Fuga da New Yorkpoi realizzo che no, non è possibile, che forse chi odia questo seguito ha ragione, ma vi propongo un affare: possiamo salutarci qui, amici come prima, oppure mi seguite oltre quel baratro e vediamo se riesco a convincere qualcuno di voi. State viaggiando in un’altra dimensione, benvenuti ad un appuntamento settimanale ai confini della realtà che si chiama… John Carpenter’s The Maestro!

 

Ho sempre pensato che “Escape from L.A.” avesse dentro le sue budella qualcosa di più, per me non è solo un criticato sequel che sembra tanto un remake, quello che ha saputo centrare in pieno la forza di questo film è stato sicuramente Paolo Zelati nel suo saggio su Carpenter “Il Signore del male”, un mio personale testo sacro che consiglio a tutti quelli che volessero approfondire il discorso. Questo film non solo è uno dei migliori mai diretti da Carpenter, ma è un manifesto nei confronti della politica del sequel a tutti i costi, per queste ragioni e tutte quelle che proverò a spiegarvi, siamo di fronte ad un Classido, l’ennesimo della filmografia del Maestro!

L’idea di un seguito del capolavoro 1997 – Fuga Da New York ha sempre fatto gola a molte persone, Carpenter già nel 1986 ha bocciato una prima bozza di sceneggiatura per un ipotetico secondo capitolo, definendola una scemenza troppo leggerina. Di certo non aiuta avere come amico Kurt Russell che ad ogni piè sospinto ripete: “Quand’è che facciamo tornare in azione Jena? È il mio personaggio preferito lo sai, no? Lo sai, vero?”.

Ma l’idea di sfornare il primo seguito della sua carriera (Halloween II, è stato sceneggiato ma non diretto), diventa più concreta dopo il tremendo terremoto che ha colpito Los Angeles nel 1994. Se fosse proprio la città adottiva di Giovanni il nuovo palcoscenico di Jena? Una Città degli Angeli cupissima e devastata dai terremoti, alla bozza di soggetto ideato da Carpenter insieme ai soliti e fidati Debra Hill e Nick Castle, Kurt Russell contribuisce in prima persona, infatti “Fuga da Los Angeles” è la prima ed anche unica esperienza da sceneggiatore per Russell. Manca solo qualcuno che metta a disposizione un po’ di soldoni e qui entra in gioco la Universal Pictures.

Più i titoli di testa cambiano più restano gli stessi.

Dopo un sondaggio di marketing, pare che la gioventù americana di metà anni ’90, non avesse idea di cosa diamine fosse un 1997 – Fuga Da New York, quindi Snake Plissken poteva ancora essere riciclato ad un pubblico tutto nuovo… Eh, lo so cosa vi devo dire? Non è che sono tutti cresciuti a pane e Carpenter come voi ed io, mi viene anche da aggiungere: poveretti.

La Universal passa a Carpenter una valigetta piena di 50 milioni di ex presidenti spirati stampati su carta verde, il risultato al botteghino? Un fiasco! Il film porta a casa meno della metà dell’investimento. Le critiche principali? Troppo cinico, ma anche troppo ironico (eh?), ma soprattutto: troppo simile all’originale, tanto da sembrare quasi un remake più che un vero seguito… Toh! Un altro capolavoro del Maestro che non viene capito e incassa poco, non succede quasi mai!

Questa volta l’obbiettivo della missione è Utopia (A.J. Langer) la viziata figlia del presidente degli Stati Uniti d’America (Cliff Robertson): la ragazza ha rubato un dispositivo in grado di controllare i satelliti in orbita intorno alla Terra, dei cannoni orbitali pronti per sparare impulsi elettromagnetici in qualunque punto del globo, rendendo inutilizzabile qualsiasi congegno elettronico (anche le batterie del vostro iTelefono).

«Uhm Dejà vù… Hai da fumare?»
 
La biondina si unisce al suo fidanzatino, Cuervo Jones (Georges Corraface) il leader del gruppo terroristico Sendero Luminoso, chiuso nella prigione di Los Angeles. Sì, perché dopo il catastrofico Big One, il terremoto più temuto da tutti gli abitanti nell’area della Faglia di Sant’Andrea, la California si è staccata dal resto degli Stati Uniti diventando un’isola, circondata da alte mura e poliziotti armati, luogo dove tutti gli Americani considerati indesiderati vengono estradati… Provate ad indovinare chi dovrà andare ad Hollywood per recuperare il congegno?
«…Tu nella vita comandi fino a quando, ci hai stretto in mano il tuo telecomando» (Cit.).
 

Non solo la trama è la stessa, è identica anche la voce narrante femminile che ci aggiorna sullo stato dell’America immaginaria di Carpenter, 15 anni dopo la fuga dalla Grande mela. Identici sono anche i titoli di testa, la grafica volutamente retrò che mostra il muro di cinta intorno ad LA, il film è farcito di inquadrature ricalcate su quelle del primo capitolo, persino il tema musicale è lo stesso, solo un paio di toni più alto per risultare maggiormente trionfale, siamo ad Hollywood, no? Lo dice anche lo scazzatissimo Snake, “I’m going to Hollywood…”.

Se Carpenter con Escape from New York, era stato sinistramente profetico nel predire il futuro, con Escape from L.A. risulta ancora più cinico: il Presidente ha spostato la capitale in Virginia facendosi eleggere a vita, dopo il tremendo terremoto che ha devastato la California, un aumento di potere dopo una tragedia che anticipa in maniera inquietante il Patriot Act di Bushiana memoria, nel finale, proprio quando il Presidente Cliff Robertson mette in atto il suo piano contro Cuba e Messico, parla di “Soluzione finale”. Non credo che abbia bisogno di spiegarvi la terribile citazione.

Persino Taslima (Valeria Golino… Sì, perché Carpenter è riuscito nell’impresa di farmi piacere un film con la Golino, Eroe!) è stata esiliata a Los Angeles perché Mussulmana, dettaglio che come lei stessa dichiara “Improvvisamente è diventato un crimine”… Vi suona per caso familiare tutto questo?

«Tu sei Jena Plissken? Ti immaginavo più alto!», «Ha parlato Kareem Abdul-Jabbar»
Spostando l’azione nella sua Los Angeles, Giovanni Carpentiere gioca in casa, si vede che conosce bene i luoghi in cui il suo personaggio si muove e non perde l’occasione di fare ironia a suo modo. Nel film vediamo gli Universal Studios sommersi dall’oceano, il parco di divertimenti di Disneyland devastato… Insomma: il Maestro si è tolto giusto un paio di sassi dalla scarpa, ma questo è solo l’inizio!
Giovanni si toglie qualche sasso dalla scarpa.
Quando Jena rientra in scena, lo fa indossando gli stessi abiti che aveva nel film precedente e questo vale anche per Kurt Russell, che risulta credibile nella parte perché gli anni sono passati anche per lui, anche se piuttosto bene, visto che sfoggia una gran forma fisica ed è riuscito a rientrare nel costume di scena di 15 anni prima… Non pensate al vestito al vostro matrimonio per favore, non voglio vedervi scuri in volto.
«Fuggire di continuo mantiene in forma»

Snake, però, nella prima scena ha le manette ai polsi e tutti parlano di Cleveland, dove il nostro è stato beccato mentre era nel mezzo di una missione, ci siamo persi qualcosa? Carpenter è bravissimo a lasciare allo spettatore la sensazione che tra il primo film e questo seguito, ci sia stato un ideale “Fuga da Cleveland” che, però, nessuno ha visto. Zitto zitto il Maestro inizia ad infilare nella trama concetti meta cinematografici, teneteli lì che torneranno buoni più avanti.

Le porte del camion che trasporta il detenuto Plissken si aprono e Jena viene condotto a forza attraverso quello che a tutti gli effetti è un rettangolo che ricorda lo schermo cinematografico. Controcampo e con un’inquadratura dal basso Carpenter ci mostra Jena in tutto il suo splendore, un’entrata trionfale sì, all’interno della fiction, in cui Jena è di nuovo prigioniero, costretto a ripetere gli stessi schemi, un’identica fuga come a New York, con tanto di virus letale, il Plutoxin 7 che lo ucciderà entro dieci ore… Sono passati quindici anni, ma è ancora tutto uguale, come dice varie volte Jena in questo film: “Più le cose cambiano, più restano le stesse”.

Potete canticchiarvi in testa il tema musicale del film se volete.
 

Essendo ormai incastrato a forza nel film e per di più nella città del cinema, Jena viene trattato alla stregua di un ex divo di Hollywood, Cuervo Jones quando parla di lui ad Utopia, lo descrive come uno che era fuori dal giro da molto, ma una volta era un pezzo grosso, allo stesso modo, tutti quelli che lo incontrano, si comportano come di fronte ad una celebrità. La frase, quindi, non è più quella ricorrente del primo film (“Ehi, ma tu sei Jena Plissken, pensavo fossi morto”), ma diventa la ben più ironica “pensavo fossi più alto”. Quello che direbbe chiunque trovandosi davanti, che so, George Clooney e scoprendo che è alto un metro e un tappo.

A Los Angeles nessuno ti giudica per la tua fama ma per l’apparenza. Brazen: Quello sarebbe Jena Plissken? Malloy: Cosa ti aspettavi? Brazen: Non lo so, mi sembra così retrò. Uno del ventesimo secolo.

Quindi, Jena per stare al passo con i tempi (ricordate il sondaggio della Paramount?) deve rifarsi il look: via la consumata giacca di pelle e i pantaloni mimetici, in favore di un completo più adatto all’oscura Los Angeles, un lungo cappotto nero di materiale ignifugo e a prova di rivelatore.

La vestizione dell’eroe nel seguito del film è sempre un momento esaltante chiave, lo aveva già fatto Ash in La Casa 2 (Groovy!) e il T-800 in Terminator 2 (Bad to the bone!), anche Carpenter si esibisce in questo fondamentale momento cinematografico nella scena della vestizione di Jena, sottolineata da uno dei pezzi più fighi mai composti dal Maestro, la fantastica “Snake’s uniform” uno dei miei pezzi preferiti di Carpenter, che mette in chiaro un’altra anima del film: Fuga da L.A. è un Western!

Allacciati il cinturone gringo, quelle pistole ti torneranno utili.
 
La colonna sonora composta da Giovanni Carpentiere insieme a Shirley Walker (la stessa delle musiche per Avventure di un uomo invisibile) è una delle mie preferite del Maestro, un esempio perfetto di sonorità da Western moderno che tiene banco nei miei ascolti costanti in cuffia.
Il genere principe del Cinema è presente nel film non solo nella colonna sonora, ma anche nella fighissima sparatoria, quando Jena ha la meglio su quattro sgherri armati. Sì, sto proprio parlando della fantastica scena “Che ne dite di giocare come si fa a Bangkok?”, dove il nostro dimostra ancora una volta che il suo nome è molto azzeccato (“Si può sparare solo quando ha toccato terra”, “Sparate”… Mammia mia che fomento!).
Adesso avete capito perché lo chiamano Snake.
 

Quasi tutti i film di Giovà sono dei Western travestiti, anche “Fuga da Los Angeles” non è da meno. Se volessimo dirla tutta, la struttura ripetitiva di questo film che gli ha valso così tante critiche (e scarso successo al botteghino) è molto simile a quanto fatto da Howard Hawks in Un Dollaro D’onore (Rio Bravo, 1959) e El Dorado (1966), due capolavori quasi gemelli, con attori, dinamiche e situazioni del tutto simili, ancora una volta il Maestro si dimostra il regista di genere più colto della sue generazione… E non perde occasione per omaggiare il suo lume tutelare, il suo Maestro Howard Hawks!

Tutti i personaggi che Snake incontra nella sua missione nella città degli Angeli sono esagerati e sopra le righe, ma soprattutto sono ricalcati sui personaggi di Fuga da New York, oppure sono delle citazioni cinematografiche ambulanti, abbiamo nuovamente un Presidente dispotico e non curante della vita umana esattamente come quello impersonato da Donald Pleasence, Eddie “la mappa dei vip” (il grande Steve Buscemi) è quasi identico al vecchio Cabbie di Ernest Borgnine, mentre Cuervo Jones ha parecchio del Duca di New York, ma anche quel look alla Che Guevara che ricorda uno dei membri della gang di Distretto 13 – Le brigate della morte.

«Non spararmi! Io ho fatto ‘Le Iene’, tu sei Jena, abbiamo delle cose in comune»
 
Il personaggio più spassoso di tutti è Hershe, nome che in pratica significa “La sua lei” e infatti… E’ un uomo! Un vecchio commilitone di Jena che lo ha lasciato a spasso a Cleveland, provocandone di fatto l’arresto. Un po’ come se il Mente del primo film (il mito Henry Dean Stanton), avesse cambiato sesso e qui Carpenter si gioca un vero colpo di genio: a chi facciamo interpretare il personaggio? Facile: alla leggendaria Pam Grier, la diva sexy della Blaxploitation! Cosa c’è di più ironico di far interpretare un transessuale ad una che ha fatto girare più di una testa nei (pochi) panni di Coffy o di Foxy Brown. Ah! Quando sentite dire che il primo ad affidare un ruolo di rilievo a Pam Grier dopo anni di assenza è stato Quentin Tarantino, ricordatevi che “Jackie Brown” è uscito solo l’anno dopo “Escape from L.A.” e segnate un’altra tacca alla cintura di John Carpenter!

Dite grazie al Maestro, per averci restituito Foxy Brown! (e Al Leong sullo sfondo)
 
A proposito di personaggi sopra le righe, è impossibile non citare una delle scene più spassose del film, quando Jena e Taslima vengono catturati da alcuni incappucciati che sembrano usciti dal film “1975 – Occhi bianchi sul pianeta terra”, che si rivelano essere dei fallimenti chirurgici sempre a caccia di organi umani di ricambio, una (appena appena accennata) satira nei confronti dell’abuso di chirurgia plastica che proprio nella mecca del Cinema di Hollywood macina parecchi soldoni. La ciliegina sulla torta è il primario chirurgo di Beverly Hills, sotto il finto botox è impossibile non riconoscere il mascellone di Bruce “The King” Campbell, che quando si tratta di andare sopra le righe, è sempre il numero uno (Groovy!).
Bruce “Faccia di gomma” Campbell… Per una volta nel vero senso della parola!

Siccome è una corsa contro il tempo, Jena non può trovare nemmeno conforto tra le braccia di Taslima (anche se la ragazza, pare parecchio interessata all’argomento), i dialoghi sottolineano questo dettaglio (“Il mio futuro è adesso” dice Jena) e così com’è arrivata, Taslima viene uccisa da un colpo di pistola sparato fuori campo. Un po’ come se la struttura ripetitiva del film, impedisse ogni tipo di variazione al protagonista, anche quelle di natura romantica.

Una delle critiche più sensate (bisogna ammetterlo) è la qualità degli effetti speciali. Inutile girarci attorno: alcuni sono davvero bruttini, ma, a mio avviso, non fanno che rimarcare con più forza quanto l’ambiente in cui Jena è intrappolato sia finto, sottolineando la natura quasi fumettistica della fiction che ingabbia il protagonista. Non c’è alcuna volontà di realismo nella scena del Surf con Peter Fonda che, volendo, sembra quasi una citazione al finale di Dark Star.

Un Mercoledì da leoni Iene.
 

In questa grossa porzione di film, Jena Plissken non può fare altro che subire: prima perde il cappotto e non fa altro che correre da una parte all’altra in balìa degli eventi, anche la scena della sedia, perfettamente speculare a quella del primo film, guadagna ulteriore valore, Plissken (“Chiamami Jena!”) è stanco, non solo di fuggire, ma anche dell’ennesima ripetizione. Difficile non credere che abbia trovato una sedia in mezzo alle rovine anche a Cleveland, in questo senso la prova attoriale di Kurt Russell è magistrale, non solo si percepisce la frustrazione del personaggio, ma anche la sua disillusione verso questo sistema ripetitivo, come se stesse aspettando il momento giusto per fuggire, questa volta per sempre.

Jena è, quindi, costretto a superare una serie di difficoltà tutte legate alle passioni del suo creatore John Carpenter, non solo al colonna sonora è piena di pezzi rock, come l’ottimo “The One” dei White Zombie presente sui titoli di coda del film, ma, ad esempio, Jena deve mettere le mani sull’elicottero governativo e, come sapete, Carpenter è un pilota provetto, ma soprattutto… Un appassionato di basket!

«Basket? Per quello vi serve Kobe ‘Black Mamba’ Bryant, avete preso il serpente sbagliato»
 

La scena del basket è chiaramente una parodia di quella di lotta tra Kurt Russell e Ox Baker vista nel primo film (Più le cose cambiano, più restano le stesse…), questa volta Jena dovrà giocare a basket per la sua vita: dieci punti senza poter sbagliare mai. Il tutto sotto gli occhi di Cuervo Jones che in versione mattatore aizza il pubblico ribadendo che dallo schema non si scappa (“Sarai anche sopravvissuto a Cleveland e fuggito da New York, ma qui siamo a Los Angeles, amico. E ora stai per scoprire che questa fottuta città del cazzo può uccidere chi gli pare!”).

Insomma: tutto è contro Jena, dentro la gabbia in cui è chiuso, qualcuno gli lancia una palla da basket, non si vede chi, ma mi piace pensare che sia stato proprio John Carpenter a farlo.
Jena segna i primi quattro canestri, uno da sotto in terzo tempo, due arresti e tiri decenti di cui uno a tabellone e una tripla (anche se vale due stando alle regole di Cuervo).

Il palleggio è un po’ alto, ma il tiro a tabellone una sicurezza.

Kurt si vede che non ha giocato molto a basket in vita sua, ma si è allenato per questa scena pretendendo di fare tutti i tiri (storia vera!). Come sempre, è l’ultimo tiro quello che conta di più, due secondi, Jena è dall’altra parte del campo, lancio ad una mano, quasi in gancio, il rallenty frena un po’ il conto alla rovescia (la fiction viene alterata dalla mano del regista che aiuta il suo eroe), ciuffo e la folla inizia ad incitare Jena (“É una città che ama i vincenti!”)

«Tre secondi, due secondi! Jena l’ultimo tiro da casa sua… JEEEENAAAAAAA!!!» (Ciao Flavione Tranquillo)
 
Da questo punto in poi il vento è cambiato, ora è Jena ad essere in controllo, come dice una delle frasi di lancio del film “Your rules are really beginning to annoy me”, quindi da qui in poi Jena Plissken passa al comando infrangendo tutte le regole, anche quelle cinematografiche e le cose iniziano a giare bene per lui, infatti quando Cuervo Jones cerca di sparargli, una scossa di assestamento (Carpenter che smuove la macchina da presa?) arriva in soccorso di Jena, la fuga è iniziata!
Scosse (di macchina da presa) di assestamento.
 

L’elicottero su cui Jena e Utopia scappano viene abbattuto e, sì, gli effetti speciali sanno proprio di fintissimo, ma ormai dovreste aver capito le regole del gioco, è tutto un trucco cinematografico, come il Plutoxin 7 che in realtà è poco più di un placebo, solo che ora Jena, anarchico per natura, non gioca più secondo le regole (“Ve l’avevo detto di sperare che non tornassi”) e frega il Presidente e i suoi uomini con lo stesso loro trucco utilizzato ad inizio film per ingannare lui: l’ologramma.

Ancora una volta, Jena utilizzando lo stesso trucco del cambio del nastro che ha funzionato nel finale del primo film (“Più le cose cambiano, più restano le stesse”), mette le mani sul vero telecomando e ha la possibilità di spegnere per sempre una delle due fazioni, ma di fatto le opzioni sono due facce della stessa medaglia: sia il Presidente che Cuervo Jones sono due tiranni intenzionati a mantenere il loro potere, preservando i loro ruoli e quindi la struttura ripetitiva, c’è una scelta da fare e viene ben riassunta da Jena.

“Se spengo il terzo mondo, voi vincete, loro perdono… Se spengo gli Stati Uniti, loro vincono, voi perdete… Più le cose cambiano, più restano le stesse”, “E cosa ha deciso di fare?”, “Sparire…”

«Your rules are really beginning to annoy me» (cit.)

PAM PA RA RA! PARA PARA PA… Ah scusate, questo finale mi esalta ogni volta, seriamente, lo considero uno dei più belli della storia del Cinema e il meglio deve ancora arrivare.

Dopo aver spento tutto il mondo, dopo un intero film passato a chiedere “Hai da fumare?”, Jena finalmente trova un pacchetto di sigarette della marca “American Spirit” (nome più satirico che mai), si accende una sigaretta e poi guarda in camera, infrangendo la regola aurea del cinema, quella che dice NON guardare in camera. Dall’espressione dell’occhio di Jena è chiaro che ha visto qualcosa (noi spettatori?), inclina la testa di lato nella tipica posa dei personaggi Carpenteriani, quello in cui si erano già esibiti Michael Myers, ma anche Jeff Bridges in Starman. Spegne il fiammifero e con esso idealmente il film, facendo iniziare i titoli di coda, ma non prima della più cazzuta frase finale di sempre: “Welcome to the Human Race!”.

Lo so lo dico spesso ma credetemi: BEST. FINALE. EVER.
 

Jena Plissken è stato condotto a forza in catene nel film, ma proprio da esso è fuggito, la sua fuga non è solamente da Los Angeles, ma dalla struttura dei sequel/remake a tutti i costi, quelli che impongono al pubblico e ai personaggi di ripetere sempre gli stessi schemi, John Carpenter finanziato da una grande casa di produzione, mena il suo colpo più duro, mandando a segno la più caustica critica alla filosofia perversa dei seguiti a tutti i costi e con gesto di cinematografica anarchia, il Maestro libera il suo personaggio da questo schema regalandogli il libero arbitrio. La gabbia è rotta, la Jena è scappata, nemmeno la gabbia dello schermo cinematografico può più contenere l’anarchico definitivo.

Sono sicuro che prima o poi, un brutto giorno, qualcuno deciderà di fare un remake di “Fuga da New York/Los Angeles”, personalmente spero che questo non accada mai, ma se dovesse accadere, ricordatevi il finale di questo film. Potranno anche mettere un tizio con la benda in quel remake, ma non sarà Jena Plissken, solo una sua imitazione, perché Jena è fuggito dalla fiction in un mondo ancora più brutto: il nostro. “Benvenuti nel regno della razza umana!”

Prima di fuggire anche voi come Jena, fate un salto sulla pagine del Faccialibro de Il Seme Della Follia – Fan Page italiana dedicata a John Carpenter, che ospita questa mia rubrica… Avete da fumare?
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