Che si tratti di un pezzo folk del profondo sud americano o di carcerati in una prigione in Turchia, tutti sanno che quando il rapido, l’espresso, insomma lo speciale di mezzanotte passa, bisogna prenderlo al volo e visto che parliamo di speciali, benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone!
Nella sua bellissima autobiografia “Cercando la luce” (2020, edita da la nave di Teseo) Oliver Stone paragona la realizzazione di un film proprio all’espresso di mezzanotte, il treno che forse, poterà gli evasi verso la libertà. Una produzione per Stone è come un treno, può portarti via dalla condizione di miseria in cui riversava la sua carriera dopo che il suo esordio alla regia ha raccolto noccioline al botteghino ed è stato ignorato da chiunque. Il treno di una produzione invece, può deragliare, può arrestarsi di colpo o può partire sferragliando, ma l’unico treno che sperava di veder partire Stone, era quello di “Platoon”, la sceneggiatura della vita, che ad Hollywood va detto, stava girando di mano in mano, mettendo in chiaro che questo spilungone mezzo francese aveva qualcosa, grezzo, se vogliamo anche selvaggio, ma aveva qualcosa.
Martin Bregman, afflitto dalla poliomielite da bambino, era un tipetto nervoso che agitava in aria il suo bastone per intimidire tutti, anche se non ne aveva bisogno visto che era uno dei produttori più influenti di Hollywood e pronto a credere in Stone, tanto che la sua sceneggiatura di “Platoon” interessava molto a due nomi grossi di New York, Sidney Lumet e Al Pacino, che insieme avevano sfornato titoli come Serpico e Quel pomeriggio di un giorno da cani, ed ora erano pronti ad andare nella giungla malgrado Pacino viaggiasse sulla trentina, molto più vecchio del giovane protagonista ideale di Stone, un attore che potesse interpretare un soldato ventenne. Il rapido di mezzanotte di “Platoon” era partito? Così sembrava almeno fino al momento in cui a deragliare non è stato il bel “Tornando a casa” (1978), dramma su un reduce del ‘Nam interpretato da Bruce Dern che è valso un Oscar a testa per Jane Fonda e Jon Voight, ma al botteghino ha raccolto risate, troppo presto per parlare di Vietnam piuttosto Oliver, ho qui per le mani una cosetta mica male che farebbe al caso tuo.
Bregman si riferiva al romanzo autobiografico “Fuga di mezzanotte” di Billy Hayes e William Hoffer, una sorta di film istantaneo per cavalcare un fatto di cronaca che lo stesso protagonista Hayes ha strizzato come un limone. Parliamo del suo arresto nel tentativo di passare la dogana turca con incollati al petto sotto i vestiti due chili di hashish, quasi la stessa esperienza di Stone, stonato (ah-ah) dopo la sua trasferta bellica, arrestato per un po’ erba che voleva fumarsi laggiù in Messico. Lo sferragliare che sentite in lontananza è quello del rapido di mezzanotte che questa volta, parte per davvero con Stone nella carrozza di testa.
La storia è incredibile, Billy Hayes giovane e al suo primo arresto, fa una cazzata e la paga con il rigore delle carceri turche, incastrato nelle pastoie delle burocrazia e della volontà locale di usare lo Yankee come capro espiatorio per la loro lotta alla droga, una discesa all’inferno con finale già cinematografico, una rocambolesca fuga da un’isola penitenziario prima in barca e poi attraverso campi minati, giù fino al confine con la Grecia che il nostro Olivero Pietra è ben felice di scrivere, soldi sicuri e settimane di soggiorno pagato nella cara vecchia Inghilterra, visto che il regista scelto da Bregman è il lanciatissimo Alan Parker, fresco del successo del suo “Piccoli gangsters“ (1976), ben felice di poter stare il più distante possibile da Hollywood e per questo, disposto anche ad ingoiare il rospo di uno sceneggiatore americano, capellone, reduce e con un sorriso che fa provincia. In pratica l’opposto del regista inglese.
Il rapporto tra Parker e Stone? Professionale ma distaccato, dalla sua autobiografia il nostro Oliviero fa trasparire la storia di un uomo che mai si assolve dalle sue idiosincrasie ma comunque, con una discreta sicurezza nei suoi mezzi, che spesso si traduce in una capacità passivo-aggressiva di descrivere i colleghi con cui non aveva poi questo gran rapporto. Alan Parker descritto da Stone è il prototipo dell’Inglese algido che aspetta un suo passo falso per sostituirlo con uno sceneggiatore di sua fiducia, peccato che il nostro Oliviero in cinque settimane da turista in Inghilterra abbia tirato fuori qualcosa che anche ghiacciolone Parker è arrivato a definire «È buona», praticamente una doppia capriola carpiata per le sue abitudini, anche se poi non ha voluto sentir parlare di Yankee tra i piedi sul set a Malta e tanto meno sul tappeto rosso di Cannes, da cui Stone è stato tenuto a debita distanza, tempo impiegato dal nostro per cercare di far partire un altro treno, un’altra biografia di un altro reduce come lui, Ron Kovic per un progetto intitolato “Nato il quattro luglio” che piaceva molto ad Al Pacino e per un po’, sarebbe dovuto diventare una regia di William Friedkin, ne abbiamo già parlato ricordate?
Mentre “Nato il quattro luglio” s’impantana, perde prima Pacino e poi Hurricane Billy lungo la strada, Oliver Stone sente parlare sempre più spesso di “Fuga di mezzanotte” come del film del momento, quello che vogliono vedere tutti anche perché sta raccogliendo ottime critiche, anche se per molti è davvero troppo. Troppo spudorato, troppo violento, troppo vero seguendo i precetti di realismo e di verità che hanno sempre guidato il modo di raccontare (e parlare) di Stone. Anche perché senza girarci troppo attorno, “Fuga di mezzanotte” è un capolavoro, il titolo in grado di instillare nel cuore di chiunque il terrore per la famigerata dogana turca, e se mi è concesso aggiungere una nota personale, uno dei singoli film più spaventosi anzi meglio, angosciosi che io abbia mai visto e ve lo dice uno che ha un suo modo di elaborare le emozioni degno di in Terminator. Eppure niente, per anni John Hurt è stato il ragazzo immagine dei film in grado di farmi sprofondare nell’angoscia, con “Midnight Express” lanciato a piena potenza verso la bocca del mio stomaco.
Lo sapete, ho sempre avuto un patema d’animo particolare per i film carcerari, ma “Midnight Express” con il suo misto di privazione della libertà e ingiustizia percepita (o meglio sbilanciata, perché comunque il protagonista è colpevole) resta il singolo film in grado di farmi ripetere ad ogni visione: «Ma perché mi sono deciso a riguardarlo? Bellissimo eh? Però minchia sto morendo d’ansia!» (storia vera). Malgrado questo o forse anche per queste ragioni, io dubbi non ne ho, se c’è un titolo che si merita di entrare a far parte del club dei Classidy è proprio “Fuga di mezzanotte”.
Potrei farla molto ma molto semplice, avete presente la classica struttura in tre atti che contraddistingue tutti i film? Benissimo, in “Midnight Express” è netta, chiarissima, perché siamo di fronte ad una discesa all’inferno in tre lunghi capitoli, il primo attenterà alla vostra resistenza cardiaca, il secondo vi colpirà nelle parti molli rimaste esposte e il terzo, è quello che ti prende a calci quando sei già sdraiato a terra. La regola dei cinque minuti iniziali? Per “Midnight Express” va estesa a dieci, il tempo che ci mette William “Billy” Hayes (Brad Davis) a passare dal trionfo al disastro, dal quasi riuscire ad attraversare la dogana turca con la droga nascosta sotto i vestiti, all’essere beccato e trasformato in capro espiatorio, un esempio da mettere in croce, monito per tutti gli altri occidentali intenzionati a provarci.
Dieci minuti in grado di convincere chiunque a smettere di fare uso di sostanze ricreative, diretti in modo micidiale da Alan Parker sostenuto da un montaggio al cardiopalma di Gerry Hambling, in cui si alternano le notizie di morte (per droga) di Janis Joplin al martellante battito cardiaco del protagonista che per un po’ è l’unica colonna sonora del film, prima di lasciare spazio a quella bellissima e a sua volta angosciate firmata da Giorgio Moroder. Dieci minuti di cardiopalma per noi spettatori, trent’anni per Bill Hayes che scopre che chiedere una coperta in carcere, può trasformarsi in un non proprio caldissimo benvenuto servito a colpi di manganello dal secondino più grosso della prigione. Brad Davis che urla «Volevo solo una coperta!» è il primo chiodo che Parker e Stone (no, non quelli di South Park) iniziano a piantare nella bara non volante del loro protagonista e di noi spettatori, testimoni del suo martirio.
La fotografia di Michael Seresin ci fa percepire il caldo e l’umidità della prigione, le bastonate sulle piante dei piedi sono quel tocco di crudo realismo, di verità che il cinema spesso edulcora (ma Stone no) che piace tanto allo sceneggiatore titolare di questa rubrica, mentre le facce e le singole prestazioni attorno a quella magnifica di Brad Davis aggiungono spessore, inquietudine e realismo ad un film bellissimo, in grado di farti soffrire ad ogni nuova visione. Guardatevi l’orgoglio nello sfogo di rabbia paterna recitata da Mike Kellin («Trattamelo bene mio figlio sennò ti faccio la pelle Turco bastardo!»), godetevi la prova matta di un autentico folle come Randy Quaid, quando scopriamo quanti anni deve fare in carcere rapportati al quantitativo di droga in suo possesso, quell’altro chiodo piantato nella bara viene sottolineato da Parker solo con un primo piano sull’espressione di Davis e poi vabbè, lui, il mio incubo, Giovanni Ferito, anche se quello ferito dalla sua prestazione ogni volta sono io.
John Hurt qui è addirittura trasfigurato, riesce a risultare tenero e pazzo allo stesso tempo, il primo atto di questa bellissima (cinematograficamente parlando) tortura in tre parti, per me termina con la scena del gatto che lo vede protagonista e qui, quando la storia scivola nell’aprile del 1972, un film in grado di fare già molto male allo spettatore, si tira su le maniche e inizia a fare davvero sul serio per torturarti.
Il secondo ideale atto di “Fuga di mezzanotte” è quello votato al realismo dietro le mura della prigione, la combinazione tra l’occhio attento di un regista “algido” come Parker, combinato al cuore caldo di uno votato alla verità come Stone, insieme, si traducono in un massacro emotivo, la cronaca di botte costanti, di “vendette turche” e di omosessualità demonizzata dai carcerieri ma praticata da tutti. Ed è un film meravigliosamente terribile anche perché nel momento in cui pare addolcirsi (le avance del bel svedesone o l’apparente possibilità di un rilascio) è proprio qui che il rapido di mezzanotte di arriva sui denti, l’apice del secondo, sofferente atto di questa tortura in tre parti è ovviamente il monologo di Billy prima della sua sentenza.
Nella realtà il vero Hayes dichiara di essersi esibito in un’evangelica assoluzione per i suoi carcerieri, edulcorata e probabilmente finta come molte delle sue affermazioni (tra poco ci torneremo), Stone invece abbraccia la potenza del cinema e regala un momento spudorato, esagerato, anche troppo ma posso dirlo? Sono le parti del cinema di Stone che gli sono sempre venute meglio, quelle sincere, arrabbiate e sguaiate si, sto parlando della lunga tirata di Billy che parla di pietà e insulta un’intera popolazione in modo quasi sacrilego («Un popolo di porci è strano che non mangi il maiale» / «… odio la vostra nazione, odio il vostro popolo, siano maledetti i vostri figli perché sono porci, sia maledetto tu porco, siete tutti porci!»), ed è qui che un film emotivamente tremendo… Peggiora!
Lo “spaccino” bastardo, John Hurt portato via a forza prima che l’ultima resistenza di Billy lo porti allo stesso destino, rappresenta la conclusione strappacuore del secondo atto di questa seduta di tortura che si conclude quando la trama raggiunge il gennaio del 1975, il terzo atto inizia nella sezione pazzi della prigione, dove va in scena la miglior rappresentazione dell’essere disallineati che io abbia mai visto in un film, metaforone della follia, mentre tutti girano su loro stessi a destra, Billy comincia a girare, in direzione ostinata e contraria a sinistra, ed è qui che un film già terribile, beh, peggiora ulteriormente.
Ve lo dico, “Fuga da mezzanotte” nella sua potenza ha influenzato massicciamente la cultura popolare, nemmeno vedere Jim Carrey rifare la scena della visita degli ospiti e del capezzolo contro il vetro in “Il rompiscatole” (1996) è mai riuscito a stemperare la sequenza originale con Billy, ormai più bestia che uomo, anzi la dico tutta, vedere Carrey esibirsi nella parodia mi fa salire nuovamente l’angoscia perché mi ricorda la straziante scena originale. Questo filmo per me è così, bellissimo, veramente bellissimo, però ogni volta che sofferenza.
Lo stesso Stone ha dichiarato che per suo sommo dispiacere, ha dovuto tagliare il finale che aveva scritto, tutta la rocambolesca fuga prima in barca e poi a piedi verso il confine greco, perché Alan Parker gli ha chiesto di ridurre il copione a cento, massimo centodieci pagine in modo che fosse gestibile. Ecco perché qui la trama scritta da Olivero Pietra, diverge dalla realtà, Billy Hayes non ha mai ucciso nessuno, di sicuro non il secondino che lo porta via tra le sue urla, ennesimo chiodo nella bara («Non mi porta in infermeria! Non mi porta in infermeria!» madonna soffro anche a scriverne), ma Stone è stato chiamato a scrivere un finale più cinematografico, una veloce vendetta contro i persecutori che è una piccola, piccolissima boccata d’aria in un film che ti strangola lungo tutte le sue due ore di durata.
Vi ero debitore di un’icona da chiudere, con il senno del poi (di cui sono piene le fosse) è facile valutare diversamente “Fuga di mezzanotte”, magari anche accusando Stone di essere stato partigiano, ma al momento di scrivere la sceneggiatura il nostro Oliviero non sapeva quello che Billy Hayes non aveva ancora confessato, ovvero che per lui, non era la prima volta che attraversava il confine turco carico di droga, quella volta è solo stato beccato, così come la sua omosessualità, sempre occultata e dichiarata solo anni dopo, un lungo periodo in cui Hayes si era già auto assolto, convinto che gli anni di patimenti e la nuova narrativa che lui stesso aveva contribuito a creare (con il romanzo) ormai era la nuova verità. Proprio Stone, da sempre votato alla verità a tutti i costi, si è sentito cadere il mondo addosso davanti a queste rivelazioni, di sicuro se avesse saputo tutto questo, avrebbe scritto il film in maniera differente, ma questo non cambia un’oncia della dolorosa bellezza di “Midnight Express”, un titolo che ha iniziato a macinare soldi al botteghino e premi a non finire alla sua uscita.
I primi durante la cerimonia dei Golden Globes, in cui Stone non si è trattenuto, mandando in scena uno dei momenti più imbarazzanti della storia di questa premiazione, anche perché va detto, il nostro Oliver ha passato la serata a ingollare pillole, bere vino e tirare su con il naso strisce di coca (non cola), risultato? Cotto come una pigna e sotto lo sguardo furioso di Alan Parker, già consapevole che i premi per la regia sarebbero andati tutti a Cimino per Il cacciatore, ha visto questo spilungone americano sbiascicare un discorso improvvisato, pensato per sensibilizzare gli ascoltatori sulle condizioni delle persone nelle carceri, non solo turche ma anche locali, peccato che pronunciato così, con più cuore che testa risultava essere uno di quei momenti di verità che urlano «OLIVER STONE!» a pieni polmoni ma che oggi, gli avrebbero stroncato la carriera. La sua fortuna? La cerimonia dei Golden Globes non andava ancora in diretta tv, quindi è stata una sincera figuraccia fatta davanti ad un centinaio di ospiti ben vestiti e poco altro.
Decisamente meglio durante la notte degli Oscar, con Giorgio Moroder che aveva già messo le mani sulla statuetta per la sua colonna sonora, Stone è stato ben più a fuoco durante il suo discorso ritirando il premio più ambito, il suo unico rammarico? Non aver festeggiato a dovere, non come sua madre almeno, che ha seguito la cerimonia in diretta dallo Studio 54 in compagnia dei suoi amici omosessuali pronti a celebrare il trionfo del figliolo, ma comunque festeggiando più di papà Stone, addormentato sul divano si è perso il discorso del figlio, troppo tardi per le abitudini di un vecchio soldato come lui (storia vera).
“Fuga di mezzanotte” è un film doloroso e meraviglioso che mette il nome di Oliver Stone sulla mappa geografica, per altri, mettere una statuetta del vecchio zio Oscar sulla mensola di casa sarebbe un punto di arrivo, per Olivero Pietra no, la sua ricerca della verità faceva di lui un uomo in missione, ma per portare il suo plotone ad Hollywood, il nostro Stone avrebbe dovuto faticare ancora e non poco, ma di questo parleremo nel prossimo capitolo della rubrica, quello per cui avrò bisogno di beh, una mano.
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