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Fuoco assassino (1991): il pompiere paura non ne ha (giù tu, giù noi)

Il pompiere. Molti di noi maschietti passano dalla fase in cui alla domanda della maestra a scuola, rispondono come Grisù che da grandi, faranno il pompiere. Io ai tempi risposi che volevo fare l’ereditiere miliardario (storia vera), ma anche il pompiere aveva il suo fascino, poi ho visto tutte quelle pertiche su cui arrampicarsi e ho preferito dedicarmi ai film sui pompieri. Tanto per l’ereditiere miliardario non avevo speranza.

Parliamoci chiaro, il pompiere è il ruolo più vicino ad un Ghostbusters che possa esistere nella realtà, quello sì il lavoro dei sogni. A volerla mettere giù un po’ dura si potrebbe dire che è una deriva eroica della mania maschile di schizzettare in giro (leggete tra le righe), Sigmund Freud avrebbe molto da dire su questo ma è anche innegabile che per fare il pompiere, ovvero decidere volontariamente di affrontare il fuoco in cambio di una busta paga, tutti finiti non bisogna essere, questo spiega perché negli Stati Uniti a fare i pompieri erano più che altro gli immigrati Irlandesi, i più matti di tutti.

«Sono ancora in tempo per quella faccenda dell’ereditiere miliardario?»

Il filone dei film sui pompieri è lungo e prolifico, ma se dovessi scegliere di pancia, ho pochi dubbi e infatti sono qui per festeggiare insieme a voi i primi trent’anni di “Fuoco assassino”, che poi è la romanzata “traduzione” del ben più cazzuto titolo originale “Backdraft”, che indica la pericolosissima fiammata di ritorno, per un film su cui vennero spesi due soldini, visto che le ambizioni (anche da Oscar) erano altine.

Con quaranta milioni di fogli verdi stampati su carta verde puoi già mettere su una bella squadra di pompieri, un investimento valido visto che il film portò a casa più di centocinquanta milioni al botteghino, tre nomination agli Oscar ma nessuna statuetta. Ogni volta che lo rivedo penso che questo film sia afflitto da un problema di personalità multipla, perché corre in pericoloso equilibrio tra tutto il cinema giusto che piace a questa Bara da un lato, e lo strapiombo in fiamme della retorica più spregiudicata dall’altra.

«Siamo la squadra 17 e il nostro compleanno chi lo festeggia? La Bara Volante. Non sono scaramantico, però…»

Con mezz’ora di durata in meno rispetto al vistoso minutaggio (135 minuti totali) e magari affidato ad un regista differente (ogni riferimento a fatti, cose, persone o TONY LO SCOTT GIUSTO è puramente voluto), sarebbe potuto venire fuori un altro cazzutissimo video per l’arruolamento, questa volta non per la marina militare ma per il corpo dei pompieri di Chicago. In uno strambo Paese a forma di scarpa ci abbiamo messo del nostro: il protagonista la meteora William Baldwin, ha lo stesso doppiatore di Tommaso “Maverick” Missile, inoltre il titolo italiano un po’ melodrammatico lo rende il perfetto film da replicare a ripetizione su canale 5, dove si solito finivo puntualmente ogni volta per rivederlo, ma con un altro regista, un durata ridimensionata e il titolo “Backdraft” sarebbe stato un film da Italia 1. Ma non posso lamentarmi, alla fine tra le fiamme di “Fuoco assassino” trovo tante di quelle cosette che mi piacciono da perdonargli (quasi) tutto, non è un caso che un film con tali ambizioni sia figlio del regista a cui è stato affidato: Ron Howard.

Richard Cunningham e Fonzie De Niro in una pausa sul set.

Il vecchio Ricky Cunningham ha messo su negli anni una carriera di affidabilità garantita, che lo ha reso una sicurezza ad Hollywood, hai un grosso budget da gestire e non vuoi problemi di ritardi e casini sul set? Ron Howard è il pompiere da chiamare per mettere al sicuro la situazione. Questo lo ha portato nel tempo a dirigere classici da Oscar ma anche al pilota automatico che caratterizza buona parte della sua produzione recente.

“Fuoco assassino” è scritto da Gregory Widen, una vita e una carriera dedicata alla saga di Highlander, per un film che quando non sa cosa fare, aggiunge due palettate di retorica, materiale pericoloso da gestire al cinema e altamente infiammabile, quindi a suo modo perfetto per un film così, in cui dentro troverete il cameratismo tra uomini con la “U” maiuscola, di quel tipo che può nascere solo quando si affronta insieme la morte. Lo scontro tra generazioni di fratelli, personaggi che in modo estremamente maschile, risolvono le dispute urlandosi in faccia a due spanne di distanza, per poi picchiarsi un po’ ma poi, amici come prima, noi basici portatori di cromosoma Y fin troppo spesso lo facciamo. Ma soprattutto ci troverete dentro un cast di primo livello, tra cui su tutti, svetta come il gigante che è uno dei prediletti di questa Bara e di casa Cassidy, Kurt “l’ingrugnato” Russell, qui talmente tanto Kurt Russell che non solo interpreta il tostissimo pompiere Stephen “Bull” McCaffrey, ma anche il padre del suo personaggio, perché solo Kurt Russell può essere il padre di Kurt Russell!

Bromance? No, sono proprio fratelli, non è un modo di dire.

Ron Howard si gioca subito il drammone melodrammatico per superare la prova dei fatidici cinque minuti di un film, quelli che ne determinato tutto l’andamento: nella Chicago del 1971 i fratellini McCaffrey sgomitano per salire sul camion dei pompieri con papà, ha la meglio il piccolo di casa, Brian, quello tenuto nella bambagia che in tutta risposta sente per la prima volta i denti della vita sul collo, quando per l’errore di un collega – in questi film scoprirete che i tubi del gas passano nei posti più improbabili delle case – assiste alla morte per esplosione del padre, una scena talmente drammatica da finire sul giornale. In un attimo Howard ha introdotto il tema quasi biblico della lotta tra fratelli, la sfida al fuoco come affare di famiglia e le fiamme stesse, una minaccia che sembrano il fiato di un drago, qualcosa di vivo che respira, si alimenta e ti dà la caccia, considerando la conta dei morti e il fatto che buona parte del film si guardi anche per vedere chi sarà il prossimo a morire male, a tratti “Fuoco assassino” ha nella pancia degli elementi da film horror mica male.

Dramma ne abbiamo? Giusto un pochino direi.

Il balzo in avanti nel tempo alla Chicago del 1991, ci restituisce Brian cresciuto (William Baldwin, la prova che questo film è uscito trent’anni fa, l’unico momento in cui Willy è stato famoso, i suoi quindici minuti di gloria) che cerca di entrare a far parte della fortunatissima squadra numero diciassettenne, capitanata dal fratello Stephen “Bull” McCaffrey, un “Working class hero” per citare John Lennon che più di così, sarebbe francamente impossibile: atteggiamento da Cowboy («La squadra di rinforzo? Non viene. Hai presente John Wayne? Devi cavartela da solo»), alle spalle un matrimonio tira e molla con la bella Rebecca De Mornay, vive nella barca di famiglia che sta cercando (malamente) di sistemare e sul casco della tua tuta da pompiere, sfoggia il logo dei Chicago Bulls da cui deriva il suo soprannome, il fatto che ad interpretarlo sia Kurt Russell è la ciliegiona sulla torta di un personaggio così.

Parlavo vagamente di elemento Horror, molto vago badate bene, però presente, perché ad indagare sugli omicidi troviamo uno dei nomi più grossi che il 1991 era in grado di tirare fuori, la presenza di Robert De Niro nei panni di Donald “Ombra” Rimgale, mette subito in chiaro le ambizioni “alte” del film, il suo personaggio è il colletto bianco che indaga sì, ma con il rispetto di tutti, perché ha fatto la gavetta, si è guadagnato il rispetto e il soprannome sul campo nel modo più doloroso possibile, il suo contraltare è un altro “grande vecchio” come Donald Sutherland, nei panni del piromane Ronald Bartel, che ha il compito di fare un po’ l’Hannibal Lecter della situazione.

«Bang bang! Feuer frei!»

Ma otto dodicesimi di “Brackdraft” sono tutti basati sullo scontro tra i due fratelli, Brian è il cocco di mamma non abbastanza tosto per fare un lavoro da uomini, il lavoro di papà McCaffrey, infatti in maniera molto comoda la sceneggiatura sposta Brian dove è più comodo che sia per la storia: serve l’azione? Sta nella squadra 17 con il fratello, a salvare manichini dalle fiamme facendosi perculare dai compagni, bisogna portare avanti l’indagine? Affianchiamolo a De Niro, facciamogli fare l’ombra di Ombra (ah-ah).

«Un’onorata carriera, due premi Oscar e chi mi mandano come assistente? Uno dei Baldwin, i Baldwin dico io!»

Il film poi è pieno di facce note che danno colore e spessore al film, ma allungano anche il brodo, Scott Glenn sparge il carisma del veterano nei panni di John ‘Axe’ Adcox, ma in un film così da maschietti, sono proprio le femminucce quelle più sfortunate, la già citata Rebecca De Mornay e Jennifer Jason Leigh ricoprono lo stesso ruolo di “interesse amoroso”, entrando e uscendo dalla storia, anche se Jennifer Jason Leigh almeno ha il tempo di colpire il nostro immaginario, grazie alla scena di sesso sul tetto del camion dei pompieri che è sicuramente tra i momenti più emblematici di tutto quel lungo (infinito!) secondo atto del film, dove il brodo viene allungato parecchio tra un incendio e l’altro.

Sex over the roof / You know I like it (quasi-cit.)

Difetti? Eh più di uno, della retorica a palate vi ho già parlato no? Allora mettiamoci anche il fatto che Ron Howard gestisca questo film che di suo, dovrebbe essere anche una sorta di caccia al colpevole, inquadrando alcuni personaggi come di norma al cinema si fa solo con i cattivi, ci prova anche con Kurt Russell, quando la trama cerca di gettare i sospetti su di lui, ma Kurt è talmente tanto eroico che il sospetto non può attecchire, non di certo dopo che Howard ha dedicato al vecchio Kurt la scena in cui lo vediamo gettarsi tra le fiamme per salvare il neonato nel palazzo, aspettiamo, aspettiamo ancora, aspettiamo più di quanto sarebbe lecito fare, aspettiamo consapevoli che stiamo aspettando troppo, non può avercela fat… eccolo che esce dal fumo! Con il bimbo sano e salvo tra le braccia! Con la musica di Hans Zimmer che pompa di brutto e tu stai lì, anche se il film lo hai visto centoventi volte su Canale 5, ad esultare ricordandoti che di eroi come Kurt Russell al cinema non se ne vedono più da troppo tempo.

«Eroe non è la parola giusta, ma è la prima che mi viene in mente» (cit.)

A proposito di Hans Zimmer, la colonna sonora di “Backdraft” è una dei suoi lavori che preferisco, il tema principale è impeccabile per questo film, ha il ritmo da parata in pompa magna (quella che si vede nel finale del film), se Howard alimenta le fiamme con palate di retorica, Zimmer usa la stessa pala per buttare nella colonna sonora badilate di eroismo, a dirla tutta tra i pezzi di contorno della colonna sonora, uno somiglia sinistramente (diciamo pure che è uguale) ad alcuni passaggi sonori delle musiche di The Rock, questo per dire che la colonna sonora di “Backdraft” gli è venuta fuori così bene che dopo, ha voluto riciclarla.

In “Fuoco assassino” trovate tutti quei valori da vecchio cinema americano che ha formato un paio di generazioni, ma anche tutto il mestiere di Ron Howard, infatti il patologo è interpretato da suo fratello, il mitico Clint Howard.

Posso dirlo? Qui ci sono gli estremi per parlare di Clint, l’Howard giusto!

A ben guardarlo “Backdraft” è il romanzo di formazione di Brian, il ragazzino finito in prima pagina che deve dimostrare a tutti (specialmente al fratello, identico in tutto e per tutto al padre, qui potrei scomodare ancora Freud ma lasciamo perdere), di essere all’altezza del lavoro da Irlandesi matti di famiglia, nel finale infatti Brian aiuta un giovane pompiere alla sua prima uscita ad allacciarsi correttamente la tuta, dimostrazione della piena maturità raggiunta… della retorica vi ho già parlato no? Ok allora passiamo alla parte migliore di “Fuoco assassino”: i botti!

Anche Grisù sarebbe orgoglioso di te ora che sei un ometto.

Gli ultimi venti minuti di “Backdraft” sono talmente tosti che vale la pena pupparsi tutte quelle lungaggini solo per goderseli: duelli a colpi di ascia, salti al volo su pedane poco stabili, manopole del gas da chiudere al volo con un balzo, roba che scoppia da una parte! Roba che esplode dall’altra! Il tutto condito da quell’eroismo orgoglioso da classe operaia, maturato tra uomini che ogni giorno affrontano la morte insieme, il tutto riassunto in quattro parole: «Giù tu, giù noi.»

Un’immagine che non vi rovina il colpo di scena del film, ma vi fa venire voglia di vederlo (o rivederlo)

“Fuoco assassino” è figlio di una formula cinematografica talmente chiara, che quando viene applicata bene, grazie agli interpreti e alla colonna sonora giusta, ti fa dimenticare quando quella formula stessa sia stata pensata a tavolino, lasciandoti libero di goderti tutti quei valori di mascolinità vecchia scuola che un tempo erano l’assoluto canone della produzione americana, oggi diremmo “figli del suo tempo”, ma questo vale per tutti i film, perché alla fine “Backdraft” parafrasando una delle sue righe di dialogo finale, ha battuto il fuoco che non è riuscito a toccarlo, per essere migliore di così avrebbe dovuto durare trenta minuti in meno, essere diretto da Tony Scott e magari, mettere un Dalmata al posto del pastore Bergamasco, si sono mai visti dei pompieri senza un Dalmata come mascotte? Tze!

Per il resto nulla da aggiungere su un classico dei palinsesti della mia infanzia, se non auguri “Fuoco assassino”, molti di noi non sono diventati pompieri da grandi, ma in compenso abbiamo visto tante volte questo film.

Sepolto in precedenza martedì 14 dicembre 2021

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