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Ghost in the shell (1995): anime software in corpi hardware

La prossima uscita della versione in carne, ossa e Scarlett Johansson del classico “Ghost in the shell”, mi ha spinto ad un bel ripasso, quindi dopo Johnny Mnemonic, perché non andare direttamente alla fonte?

“Ghost in the Shell” è prima di tutto un manga di Masamune Shirow, pubblicato per la prima volta nel 1989, ha dato via ad una fortunata serie di seguiti ed adattamenti, il più famoso è probabilmente questo film uscito nel 1995, per la regia di Mamoru Oshii che, ai tempi, era fresco fresco del successo della serie animata “Patlabor” e proprio da lì arrivavano i suoi più fidati collaboratori: lo sceneggiatore Kazunori Ito e Kawamori Shoji, specializzato del design dei Mecha.

Di fatto, “Ghost in the shell” è un thriller poliziesco di stampo fantascientifico, ambientato nel XXI secolo, in un mondo che sembra uscito dai romanzi di Williams Gibson, infatti ancora oggi è considerato una delle più riuscite opere cyberpunk mai prodotte, una vera pietra miliare che oltre a riuscite scene d’azione, si concentra sulle ramificazioni etiche e filosofiche del rapporto tra umanità e tecnologia, in pratica Black Mirror, ma con 15 anni di anticipo.

Sah! Vediamo di scrivere qualcosina su Ghost in the shell.

La storia gira intorno alle indagini sella sezione 9, un’organizzazione antiterroristica, impegnata a dare la caccia al temibile Burattinaio («Ah! Burattini!» cit.), hacker imprendibile, vera e propria primula rossa al centro della storia e della divagazioni filosofiche della trama. La protagonista è la tostissima Motoko Kusanagi detta anche il Maggiore stando al suo grado, cyborg ginoide, pesantemente armata e pronta per la caccia, ma anche alla ricerca di un suo delicato equilibrio interiore.

Perché nel mondo creato da Masamune Shirow, gli umani puri (ovvero senza impianti) sono una rarità, gran parte della popolazione è in parte o totalmente composta da cyborg, ci sono quelli totalmente cibernetici come il Maggiore, ma anche umani potenziati da impianti parziali, il più diffuso il cyber-cervello che consente di connettersi alla rete globale (Internet, prima che diventasse un luogo pieno di Haters), fondamentale per poter processare le informazioni alla stessa velocità di un computer. Comodo, invece di annoiarvi con nomi e descrizioni dovrei fare solo ZIP! Beccatevi tutti gli Input cari i miei Johnny 5.

La differenza vera tra umani e robot, la fa la presenza o meno di un Ghost, che contiene i ricordi, la capacità di elaborarli, i sentimenti ed è a tutti gli effetti una versione digitale dell’anima, senza la quale sarebbero solo gusci vuoti, ghost in the shell, così abbiamo spiegato pure il titolo, spazzando via possibili incomprensioni. No, non ci sono fantasmi che vanno dal benzinaio in questo film.

Conosco un sacco di gente a cui questo innesto farebbe molto comodo.

Non ho mai letto il manga originale, ma la critica mossa al film di Mamoru Oshii che si legge più spesso in giro, è quella di essersi concentrato principalmente sulla trama del Burattinaio, tagliando via come rami secchi tutte le altre sotto trame, anche perché riassumere gli undici capitoli del manga, in ottantadue minuti di film non è certo un affare semplice. Parliamo subito del cyber-elefante nella stanza, malgrado lo stringato minutaggio, il ritmo potrebbe risultare letale.

La critica che si sente più spesso parlando del film di Oshii è che sia lento e noioso, parole che non hanno senso per chi, come me, ama “Stalker” di Tarkovskij, ma per la stragrande maggioranza del pubblico possono risultare letali. Sì, vero, in parecchi momenti “Ghost in the shell” non brilla per ritmo, ma il film è costellato di ottime scene d’azione (quella iniziale, l’inseguimento alla coppia di netturbino, lo scontro con il tachikoma e via dicendo…) e nelle parti dialogate più lente, c’è così tanta roba su cui riflettere che il vostro Cyber-cervello non avrà tempo di elaborare la noia.

Bisogna dirlo: il ritmo è solenne e compassato, in certi passaggi i protagonisti animati sono completamente fermi, l’unico movimento arriva dalle porzioni di animazione 3D, visto che questo è uno dei primi anime prodotto in tecnica mista, per altro, invecchiata piuttosto bene. A dirla tutta, “Ghost in the Shell” è stato anche il primo anime proiettato al festival del cinema di Venezia e grazie al suo successo, uno dei primi ponti tra Oriente e Occidente, almeno insieme all’altrettanto ganzo Akira di Katsushiro Otomo.

«Tetsuoooo», «Kanedaaaaa» (e avanti così per una mezz’ora)

Questi protagonisti così “impostati”, possono risultare ostici al pubblico occidentale, ma se siete abituati ai film giapponesi non sarà un grosso problema, i nostri amici del Paese del Sol levante, quando recitano sono sempre piuttosto statici, vecchia abitudine del teatro Kabuki probabilmente, che tiene banco anche in versione animata, come in questo caso.

Terminator, ha mostrato lo scontro tra macchine e umani, ma allo stesso tempo i primi accenni di riflessione sul tema, “Blade Runner” ha rivolto la riflessioni sull’umanità vera o presunta quasi ad un auto analisi, “Ghost in the shell” fa un altro passo in avanti.

«Attivata modalità Stregatto»

Se l’anima (e quindi l’umanità) è delegata ad una macchina, il Ghost, come fa Motoko Kusanagi ad essere certa che i suoi ricordi siano reali e non soltanto degli innesti, un po’ come succede nella straziante scena del netturbino, una di quei famosi momenti “lenti” del film che, però, ti costringono a porti delle domande complicante, anche più difficili di sette per nove.

Mamoru Oshii rende il Maggiore la sua versione anni ’90 di Roy Batty, un essere sintetico impegnato a sentirsi viva in qualche modo, concetto che Oshii ribadisce con la passione delle immersioni della protagonista. Il Maggiore Kusanagi con il suo corpo meccanico rischia di finire a fondo se mai i meccanismi di galleggiamento dovessero danneggiarsi, eppure come una sirena cibernetica continua ad immergersi in cerca di se stessa, non ci vuole Freud per capire il riferimento all’immersione nel proprio inconscio, una precisa scelta di Oshii di sostituire le pruriginose orge-virtuali a cui la protagonista si dedicava nel manga (si vede che ho fatto i compiti prima di scrivere il pezzo?) con un’attività che potrebbe anche costarle quella vita a cui tanto ambisce.

Tipo il vecchio Roy, ma senza le porte di Tannhauser.

Il concetto d’identità, il dualismo tra l’uomo e la macchina, tra il ghost e il suo guscio di contenimento, sono al centro di tutto il film, donando al tutto uno stampo quasi religioso, ben sottolineato dal tema musicale di Kawai Kenji, un coro in Giapponese antico che rimanda subito ad un canto di chiesa.

Il bilanciato equilibrio tra animazione classica e quella in 3D ci regala ottime scene, come quella, appena appena spettacolare di apertura: era dai tempi di Arma Letale che non vedevo signorine in caduta libera dai palazzi e basta una battutaccia (“Sono nel periodo mestruale”, per altro censurata per la versione americana del film, soliti yankee!), a caratterizzare la protagonista.

Sul trampolino alto si prepara l’atleta della squadra di tuffo Giapponese.

Vediamo letteralmente nascere (o uscire dalla catena di montaggio, meglio) il maggiore Motoko Kusanagi nei fighissimi titoli di testa del film, il risultato è una bambola dal corpo perfetto che, per precisa scelta di Mamoru Oshii, non sbatte MAI le ciglia, proprio per sottolineare la sua natura artificiale. Eppure, il personaggio non è un banale sfruttamento delle curve femminili, ma anzi è una protagonista fragile e tostissima come solo le donne sanno essere, alla faccia di chi le etichetta ancora come sesso debole. Non credo sia un caso che ad un certo punto nel film, Motoko venga descritta come “Chi? La nostra principessa tutta muscoli?”, malgrado il fatto che Batou (in Italiano con lo stesso doppiatore di Liam Neeson e pure con lo stesso naso a ben guardarlo) sia iper protettivo con lei, il Maggiore si salva da sola.

«Pensavo ti avessero rapita» , «Ok che parli come Liam Neeson, ma grazie lo stesso»

Lo scontro finale con il Tachikoma è una figata unica, il Mecha in questione sembra il risultato di una notte d’amore tra un ragno gigante e un carro armato da combattimento, un ED-209 senza il problema della scale, ennesima dimostrazione che il design di armi e personaggi in questo film sta ad altissimi livelli.

Ci sarebbe moltissimo da dire anche sul finale e sulla presa di posizione del Burattinaio (o Puppetmaster come vi suona meglio) che non è solo il Prometeo digitale che ruba il fuoco dell’informazione, un banale cattivo da stanare per risolvere il poliziesco, ma l’anima (o dovrei dire Ghost?) del film, il suo tentativo di ripetere il ciclo vitale (nascita, sviluppo, procreazione, morte) è un modo per ribadire il suo status di essere vivente a tutti gli effetti. E poi dicono noia… Come fai ad annoiarti in 82 minuti strapieni di tutta questa roba qua?

La nipotina bionda di HAL 9000.

Per una buona fetta degli anni ’90 sembrava che gli Hacker sarebbero stati i prossimi padroni del mondo, all’uscita di questo film nel 1995, il Cyberpunk era ormai radicato nella cultura popolare di massa, c’erano film, ma anche fumetti, ad esempio, io allora andavo giù di testa per la versione 2099 dei classici personaggi Marvel, “Ghost Rider 2099” era il fumetto più cyberpunk mai prodotto dalla Casa delle Idee e, ancora oggi, se mi chiedete qual è il mio Spider-Man non Peter Parker preferito, di getto vi dico Miguel O’Hara lo Spider-Man del 2099 (storia vera).

Il peso specifico di “Ghost in the shell” sulla cultura popolare è stato di diversi gazzilioni di Terabyte, anche per questa ragione è molto strano che gli Americani siano arrivati con un film solo nell’anno 2017 (bah, speriamo bene!), l’apice Cyberpunk nella cultura popolare è arrivato nel 1999. Vi ricordate il martellante video di “King of My Castle” dei Wamdue Project? Era interamente composto da scene prese da questo film e sapete anche chi ha pescato a piene mani dal film di Mamoru Oshii? Quei due celebri non-inventori (ma gran riciclatori) degli allora fratelli Wachowski.

Cioè, tipo una roba come questa, giusto per capirci.

Larry Lana e Andy Lilly Wachowski, hanno utilizzato più di una scena per il loro Matrix, le colonne che si disintegrano sotto i proiettili arrivano dalla sparatoria tra Motoko e il Tachikoma e anche lo schermo pieno di numeretti verdi che precipitano, è stato unanimemente associato a Matrix e non a “Ghost in the shell”, perché spesso la versione “Per tutti” è più famosa della fonte originale.

«NEO smettila di sparare o ti faccio causa per violazione del copyright!»

Quando Mamoru Oshii nel 2008 ha sfornato la “George Lucassata” intitolata “Ghost in the shell 2.0” ha eliminato i numeretti verdi ormai proprietà dei Wachowski(fo), non ho mai visto questa versione, si tratta di un pesante rimaneggiamento a cui sono state aggiunte svariate parti in computer grafica e, in generale, pare non essere stato apprezzato molto dai fan. Quanto vi capisco ragazzi, che la Forza sia con noi!

Insomma, se avete 82 minuti che vi crescono e volete arrivare abbastanza pronti all’esordio del Maggiore Scarlett Johansson, “Ghost in the shell” è ancora un titolo clamorosamente bello, un tuffo all’indietro in un’era in cui gli Hacker non erano solo quelli che svuotavano gli spazi cloud delle dive ed ora caro Rupert Sanders, la palla è nel tuo campo.

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