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Gli intrighi del potere – Nixon (1995): la storia di Tricky Dicky secondo Oliver Stone

Oggi affrontiamo il titolo che per certi versi da solo, ha confermato una delle etichette appioppate al titolare della rubrica, quindi senza ulteriori indugi, benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone!

22 Aprile 1994, si spegne Richard Milhous Nixon, 37º Presidente degli Stati Uniti d’America dal 1969 al 1974. Controverso? Eh appena, un filino direi, quindi anche per questo materiale perfetto per un regista alla costante ricerca di temi caldi, punti di vista per analizzare il suo Paese e la sua storia, anche se l’idea di un film su Nixon, fu un’iniziativa di Eric Hamburg, ex portavoce e membro dello staff della Casa Bianca, che propose il soggetto a Stone durante una cena (storia vera).

Il nostro Oliviero Pietra era alle prese con altri due soggetti, uno su Evita Perón l’altro su Manuel Noriega, ma tra i due sfidanti a vincere su proprio Nixon, la morte del 37º ex presidente aveva aperto il campo ad un soggetto che prima, sarebbe stato ancora più difficile da raccontare, anche se la scelta di un attore protagonista è stata complicata tanto quanto il lungo lavoro di ricerca condotto da Stone, che giova ricordarlo, da qui ad una manciata di anni, avrebbe aggiunto alla sua filmografia, alla voce “Documentari”, parecchi titoli.

Regista ma anche coreografo di ballo, Oliver Stone uomo dai multipli talenti.

La prima stesura del copione era farina del sacco di Stephen J. Rivele e Christopher Wilkinson, furono proprio loro due a definire il concetto di “Bestia selvaggia” che viene descritto dal film, il sistema, tutto il complesso militare-industriale che nemmeno velatamente, il film pone dietro le quinte a tirare i fili della morte di John F. Kennedy di Robert F. Kennedy, di Martin Luther King Junior e ovviamente alla guerra del Vietnam, che per Stone è l’Alfa e l’Omega di tutta la sua produzione come autore.

Stone riuscì a coinvolgere gli ex consiglieri della Casa Bianca John Sears e John Dean, per essere certo che ogni aspetto della storia fosse accurato e allo stesso modo, gli attori Powers Boothe, David Hyde Pierce e Paul Sorvino ebbero l’occasione di confrontarsi e parlare con le loro controparti i personaggi che interpretano nel film, Alexander Haig, John Dean ed Henry Kissinger.

Sempre un piacere rivedere il faccione da Monte Rushmore di Powers Boothe.

Ma per il ruolo del titolare, a battere la nutrita concorrenza composta da nomi come Tom Hanks, Jack Nicholson e Gene Hackman alla fine fu un Inglese, per calarsi nella parte Anthony Hopkins ha studiato un quantitativo ragguardevole di filmati su Richard Nixon, non tanti quanto le registrazioni misteriose dell’ex presidente, ma comunque notevoli (storia vera).

“Nixon”, in uno strambo Paese a forma di scarpa reso con “Gli intrighi del potere”, per ovvie ragioni fin dalla sua uscita, venne paragonato al precedente titolo “presidenziale” di Stone, anche se con JFK questo Nixon, superate le affinità superficiali, in comune poi ha davvero solo il fatto di appartenere alla stessa filmografia e di avere una durata notevole, in questo caso 192 minuti nella versione cinematografica e 212 nella “Director’s cut”, le cui differenze si attestano su qualche secondo qua e là, un montaggio più sfaccetato per alcuni dialoghi, che poi erano anche il motivo che ha messo in fuga la Warner Brothers, a sua detta non interessata a produrre un film pieno di vecchi, brutti e in giacca e cravatta, chiusi in una stanza a parlare, stanze che per altro, per risparmiare sul budget, sono state riciclate dai set già utilizzati per il film “Il presidente – Una storia d’amore” (1995) di Rob Reiner, anche se grazie alla fotografia di Robert Richardson, quasi non si nota.

Quello che si nota invece è l’impostazione data da Stone a tutto il film, andando oltre alle modifiche di suo pugno apportate al terzo atto, uno dei momenti chiave di “Nixon” alza l’asticella dei (tanti) film con scene ambientate nei pressi della statua di Abraham Lincoln nella capitale americana, una scena volutamente teatrale, esagerata e sfacciata, quindi in puro stile Stone: il presidente Nixon in persona affronta una banda di giovani contestatori figli dei fiori, armato del suo migliore sorriso e delle sue capacità di venditore. Tra un “Sono come voi” e l’altro, viene fuori la metafora del sistema, descritto come un animale selvaggio che nessuno, nemmeno il presidente in persona può pensare davvero di domare. Un dialogo di pochi minuti in cui una diciannovenne giunge alla conclusione che Nixon non aveva capito in tanti anni di carriera politica.

Il monumento più rappresentato al cinema. L’altro invece è Abe Lincoln.

Con un tempismo incredibile, Oliver Stone in pieni anni ’90, poco dopo la morte del soggetto ispiratore del suo film, proprio quando la presa e lo strapotere dell’Impero Americano sembrava stare mollando un minimo la presa, o per lo meno allontanandosi dai suoi apici di strapotere, poco prima che il più grosso attentato su suolo americano facesse cambiare nuovamente tutti gli equilibri segnano un ritorno al passato nella direzione della nazione (e quindi del mondo occidentale), Stone è riuscito a mandare a segno una biografia, non mi sento di dire tenera, visto che è comunque impietosa con l’ex presidente, ma per lunghi tratti sembra cavalcare la via dell’empatia con un personaggio che giova ricordarlo, è stato un cortocircuito di paradossi.

Una frase che per me riassume tutto Nixon l’ha scritta uno bravino con le parole e ben poco propenso verso la politica di “Tricky Dicky”, infatti è stato Stephen King a ricordarci che se l’umana razza dovesse estinguersi ora, in questo momento, come unico segno del suo passaggio ci sarebbe una bandiera a stelle e strisce immobile, piantata sul suolo lunare e una targa in piombo, con sopra la firma di Richard Nixon. Se mai una razza aliena dovesse studiare quella targa, forse penserebbe che questo Nixon, doveva essere il più grande degli uomini, di sicuro non lo stesso dietro allo scandalo Watergate o ai chilometri di registrazioni occultate dal presidente.

«Io non sono un criminale e nemmeno un personaggio di Futurama!»

Sudaticcio, con una vita afflitta dai costanti sensi di colpa nei confronti dei suoi fratelli, tutto ben raccontato grazie ad angosciosi flashback in bianco e nero perfetti per tornare alle origini del trauma, il Nixon di Hopkins è quasi un personaggio tragico, con sul groppone più elezioni perse che quelle davvero portate a casa, in un’eterna gara di popolarità con il maledetto Kennedy, sempre perfetto, sempre preciso. Nell’infinito scontro tra il Quaterback, ovvero il talento naturale, quello a cui viene tutto giusto al primo colpo, contro il secchione, brillante ma costretto a sudarsi tutto – qui letteralmente – Stone sceglie l’approccio che conosce meglio, la via dei classici, degli archetipi.

Avete mai letto o ascoltato un’intervista ad Oliver Stone, tempo due frasi lo sentirete citare uno a caso tra i mito greci, gli antichi Romani o i lavori di Shakespeare ed è proprio qui che “Nixon” brilla, nel suo essere una tragedia shakespeariana, in cui l’ultimo atto (quello pesantemente riscritto da Stone), chiede ad Hopkins, di abbracciare il registro che il nostro Oliviero ama di più, quello anche spudorato, dove Nixon crolla, si dispera, chiede a tutti di inginocchiarsi per pregare e insomma, offre al pubblico quel pentimento per il personaggio che in pubblico, non è arrivato mai.

Uno Shakespare, ma questa volta tutto americano.

Anche questo è parte delle contraddizioni di un personaggio schivo, quasi riservato nella vita, ma allo stesso tempo violento del proteggere il suo ruolo, il suo lascito e le sue posizioni, uno tanto arrogante da parlare di sé in terza persona, uno la cui firma sarà per sempre in orbita sulla Luna come ci ricorda zio Stevie, ma anche lo stesso ad ordinare il brutale bombardamento su Hanoi pur di dare valore ai trattati di pace di Parigi.

«Guardano te e si vedono come vorrebbero essere, guardano me e si vedono come sono», la frase pronunciata dal protagonista ai piedi di un ritratto di John Fitzgerald Kennedy, riassume alla grande tutta la personalità in lotta del titolare, per un film che tratta il pubblico in modo intelligente, tutti i riferimenti agli “Idraulici” sono chiari per chi conosce bene le vicende dello scandalo Watergate, ma allo stesso tempo Stone non perde mai di vista come il cinema possa essere divulgativo, almeno quanto la letteratura, senza cedere di un solo passo su una regia spregiudicata, anche nel raccontare il processo di auto distruzione di un sovrano, un Cesare messo a capo dell’impero nel pieno dei giorni della sua decadenza.

“Nixon” porta in scena l’incontro fra Nixon, Kissinger e Mao Tse-tung, avvalendosi di prove notevoli da parte da tutto il cast, come il machiavellico Henri Kissinger di Paul Sorvino, la minacciosa presenza del generale Alexander Haig di Powers Boothe, fino ad un chirurgico Everett Howard Hunt con il volto di Ed Harris oppure l’Edgar J. Hoover più lascivo che mai, qui impersonato da Bob Hoskins.

Il tutto senza dimenticare la nuova collaborazione tra il regista e James Woods con capello a spazzola fino alla prova magnifica di Joan Allen, perfettamente calata nella parte di una martire come Pat Nixon.

Si, malgrado Salvador, Stone è tornato a lavorare con Woods, eroico!

Il secondo capitolo dell’ideale trilogia sui presidenti di Oliver Stone resta un film fin troppo poco ricordato, nemmeno il finale cerimoniale cambia l’andamento di un titolo plumbeo, lucido nel mostrare la fine di un impero attraverso la caduta del suo più controverso Imperatore, uno che in condizioni differenti, forse, sarebbe potuto essere ricordato come un Cesare molto diverso, uno che per lo meno ha concesso un passo indietro quasi decoroso, senza mai aizzare nessuno ad assaltare il Campidoglio per poi nascondere la mano dopo il lancio del sasso. Per Stone il male della sua nazione ha un nome e un volto, ma ancora uno straccio di dignità, roba sempre più rara.

Per Stone l’America, quella che lui considera giusta, avrà perduto il suo stato di prima potenza mondiale, ma prima di tutto ha perso il cuore, perché ha “Dimenticato il suo re morente” (cit.), lasciando il potere in mano ad un cortocircuito di contraddizioni viventi, che poteva essere raccontato a dovere solo attraverso il filtro acceso della tragedia di Shakespeare applicata ad eventi reali.

Mancano i film così, in grado di far convivere tanto bene cinema e volontà divulgativa, ed in generale, il cinema caustico e così a fuoco di Oliver Stone, prossima settimana però, cambiamo musica con il nuovo capitolo di questa rubrica, non mancate.

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