Lo diciamo sempre anche qui alla Bara Volante, quando un regista manda a segno il film della vita, quello che lo rende popolare presso critica e pubblico, subito dopo si getta anima e corpo su un progetto più ambizioso, quello conservato sul fondo di un cassetto. Ma come si può determinare il film della vita quando si parla di un Maestro come Sir Alfred Hitchcock?
È stato il suo primo titolo dopo il passaggio dai film muti al sonoro? Dal bianco e nero al colore? Oppure quando ha smesso di fare film nella nativa Inghilterra per iniziare a dirigerli ad Hollywood? Altro che l’uomo che visse due volte, artisticamente Hitch ha avuto più vite di un gatto e proprio per questo, forse voleva papparsi il racconto del 1953 scritto da Daphne du Maurier, che parlava pennuti.
Iniziamo a dare i resti, il film di oggi non sarebbe considerato mitologico senza il contributo fondamentale della scrittrice e poetessa Daphne du Maurier, la stessa a cui Hitchcock aveva preso in prestito i soggetti per la sua doppietta di film “La taverna della Giamaica” (1939) e “Rebecca – La prima moglie” (1940). Ma solo dopo l’enorme successo di Psycho, zio Hitch poté organizzare la sua battuta di caccia al volatile, puntando ad un bersaglio piuttosto grosso. Secondo il testo sacro “Il cinema secondo Hitchcock” di Truffaut, il grande regista con la sua solita aplomb, sostiene di aver letto il racconto originale in una di quelle raccolte “Alfred Hitchcock presenta”, un bel modo passivo-aggressivo per ribadire idealmente la proprietà del soggetto.
Proviamo a calarci un momento nell’anno di uscita del film, Hitch arriva dal trionfo di Psycho, classico istantaneo, inoltre è popolarissimo proprio perché compare (di profilo) in televisione prima di ogni nuova puntata della sua “Alfred Hitchcock presents”, fucina di talenti da cui sono passati tanti grandi nomi tra cui poter scegliere. Non è un caso se per provare ad adattare il racconto di Daphne du Maurier lo zio Hitch abbia scelto uno scrittore, in linea di massima bravino eh? Richard Matheson, che suggerì al regista un’idea niente male: e se gli uccelli nel film, fossero una minaccia mai davvero mostrata?
Hitch la prese bene, licenziò Matheson per direttissima senza che potesse scrivere nemmeno il titolo del copione e poi assunse un altro scrittore, più malleabile, Ed McBain, nome d’arte di Evan Hunter, celebre per la serie di romanzi dell’87º Distretto, salvo poi continuare a fare il bello e il cattivo tempo. Infatti quando Hunter andò al cinema a vedere “The Birds” si stupì molto di non trovare sullo schermo il finale che aveva scritto lui, quello con milioni di pennuti appollaiati sul Golden Gate (ponte già reso iconico proprio da Hitch) in un finale tagliato perché troppo costoso da realizzare, che però ammettiamolo, per certi versi avrebbe anticipato anche Lucio Fulci. Ed ecco che finalmente ho utilizzato la parola chiave, quella fondamentale quando si parla di “Gli uccelli”, un film anticipatore, che è anche un capolavoro e ovviamente, un Classido!
Un film particolare per più ragioni, anche per le abitudini di Sir Alfred Hitchcock, qualche numero? Delle tremila inquadrature previste, circa il doppio di quelle di un film normale e quasi il triplo di quante ne usasse Hitchcock di solito, quasi quattrocento contenevano trucchi e fotomontaggi. Un super lavoro per il direttore della fotografia Robert Burks, il montatore George Tomasini e lo scenografo Robert Boyle, perché prima come ambientazione venne scelto il piccolo porto di Bodega Bay (diventata poi il modello cinematografico replicato da tutte le San Antonio Bay arrivate dopo), un posticino a circa sessanta miglia da San Francisco, replicato quasi tutto nei teatri di posa perché Hitch odiava girare in esterna, in un trionfo di mascherini e fondali illuminati con lampade al sodio su fondale giallo, un trucco cinematografico usato spesso allora dalla Disney e preso in prestito dal Maestro.
Un film con cui Hitch si è spinto più in là rispetto alle sue abitudini, sembra sottinteso ma non lo è, l’uso di effetti speciali abbonda, anche se sapientemente alternati a veri pennuti coordinati da un addestratore, che ha tentato di limitare il numero di graffi e colpi di becco al cast, su un set che è stato peperino, ma più avanti ci torneremo.
Anche per la selezione degli attori il Maestro del Brivido ha fatto scelte all’insegna di toni volutamente più sommessi, un esempio significativo in tal senso è stato il personaggio della maestra, anziché Anne Bancroft, proposta dallo sceneggiatore Hunter, Hitchcock scelse la più giovane Suzanne Pleshette, pescata dai programmi televisivi. Dal cinema arrivava invece la sorellina undicenne del protagonista maschile, la piccola Cathy Brenner venne affidata a Veronica Cartwright, ruolo in cassaforte dopo la sua splendida prova in quel gioiello di “Quelle due” (1961), un gran bell’allenamento per i polmoni per una “regina dell’urlo” che anni dopo, nei panni di J.M. Lambert è stata sentita urlare anche nell’altro grande classico della paura, ovvero Alien, perché la verità è che TUTTI hanno pescato da questo film, che per peso specifico è stato come si diceva lassù, anticipatore.
Per il ruolo del protagonista, niente Jimmy Stewart o Cary Grant, nei panni di Mitchell “Mitch” Brenner troviamo Rod Taylor, scelta funzionale per un film senza attori famosi, almeno al momento dell’uscita del film, i veri protagonisti sono i pennuti, non è un caso che sia proprio il loro mortale battito d’ali quello che ci accoglie, fin dai titoli di testa del film.
Avere (bei) volti poco famosi è una scelta ideale per un film che racconta l’apocalisse, ma da un punto di vista completamente rivoluzionario, prima del 1963 eravamo abituati a pensare che l’annichilimento totale della vita come la conosciamo, sarebbe arrivato a causa di una bomba, anzi della bomba, quella atomica. Hitchcock invece mette in discussione tutto, anche la posizione della nostra specie all’interno della catena alimentare, per farlo ci distrae con un falso inizio e con una bella bionda, proprio come aveva già fatto in Psycho. Ma orfano della sua prediletta, Brivido caldo, che era andata a sposare quello là, la testa coronata di monaco, Hitch si è dovuto accontentare, ma ammettiamolo, un gran bell’accontentarsi.
Tippi Hedren era una modella, arrivava dagli spot televisivi, quelli a cui Hitch puntualissimo strizza l’occhio nella prima scena iniziale, quando vediamo il regista uscire dal negozio di animali con i suoi due terrier al guinzaglio, in quello che è la sua tradizionale comparsata, sentiamo qualcuno fischiare per strada alla bella Hedren, oggi sarebbero molestie sessuali, allora era un rimando alla pubblicità in cui alla bionda Hitchcockiana di turno, succedeva lo stesso.
Proprio l’inizio di “Gli uccelli” è una grossa finta di corpo, tanto quando lo erano i primi minuti, quasi da film di rapina di Psycho, visto che sembra di guardare quella che i nostri cugini yankee chiamano una “Screwball comedy”, con l’onda lunga romanticona del broccolamento da parte del personaggio di Tippi Hedren, ovvero Melania Daniels, al bel tenebroso “Mitch” Brenner, in un trionfo di doppi sensi in cui le si finge commessa del negozio di animali pur di parlargli, anche se non capisce niente di uccelli (eh!?)
Il MacGuffin è rappresentato da due pappagallini, gli inseparabili, anche noti come “Lovebirds” (in perfetta contrapposizione agli uccelli della morte che popolano il film) consegnati a mano da Melania e portato nella loro gabbietta fino a Bodega Bay, per un film in cui i pennuti del titolo, proprio come Norman Bates, si manifestano prima con piccoli attacchi, per poi fare la loro entrata poco alla volta, ennesima lezione sull’utilizzo della suspence da parte del Maestro del Brivido.
“Gli uccelli” è un titolo fondamentale per più ragioni, anticipando di cinque anni i morti viventi di Romero, Hitch non spiega perché i suoi pennuti di colpo, decidano di attaccare gli umani, una trovata che rende questo film seminale, potrebbe essere il primo grande blockbuster della storia, prima che un ragazzo, dopo aver fatto comunella con lo scrittore licenziato dal regista inglese, spaventò il mostro NON mostrando il suo minaccioso animale, in quel caso uno squalo di nome Bruce.
Ma a ben guardare “The Birds” potrebbe essere anche il primo “Disaster movie” marchiato a fuoco nella memoria collettiva, le chiavi di lettura del film si sprecano, lo si potrebbe analizzare da un punto di vista psicoanalitico (e non fate battute sugli uccelli, fate i bravi!), religioso, politico, ma anche il caro vecchio scontro tra locali con le loro credenze e gli stranieri di città, tutte chiavi di lettura che emergono quando Hitch chiude tutti insieme, alcuni coloriti abitanti di Bodega Bay nello stesso negozio della cittadina e lascia che si scannino tra loro, a proposito di anticipare, Frank Darabont e Stephen King di sicuro questa lezione l’hanno imparata bene.
I motivi che fanno di “The Birds” un film fresco come una birra appena uscita dal frigo sono molteplici, nel suo anticipare tanto del cinema che ancora oggi vediamo, a sessant’anni dall’uscita di questa pietra miliare, possiamo ritrovare principi che hanno fatto scuola per il sotto genere dell’Eco Horror, per non parlare della lezione di cinema, anzi Cinema, che questo film può ancora insegnare a tutti. Raccontando per immagini e senza ammorbanti spiegoni, Sir Alfred Hitchcock inizia il suo film nel negozio di animali, con i pennuti nelle loro gabbiette e poi sovverte tutte le regole, trasformando Bodega Bay in un luogo opprimente, dove la minaccia è costante e nel finale è Tippi Hedren quella chiusa in gabbia (la cabina del telefono, oppure ancora peggio, la soffitta) e i volatili fuori, nuovi padroni del pianeta, per un’apocalisse che non bussa, al massimo si annuncia con colpi d’ali.
Zio Hitch era già un regista attivissimo ai tempi del cinema muto, un dettaglio che potrebbe passare inosservato (o inascoltato? Ah-ah), ma è stato fondamentale per formare la sua capacità di raccontare per immagini, senza bisogno di dialoghi. Un talento che ha sfoggiato più volte nel corso della sua carriera e che in “Gli uccelli” raggiunge un altro livello di meraviglia, spaventosa meraviglia visto che anche a sessant’anni dalla sua uscita, ci troviamo di fronte ad un capolavoro della suspence, un perfetto film da imparare a memoria per chiunque volesse rifarsi gli occhi con un montaggio impeccabile, perché i protagonisti – non a caso silenziosi – del film sono proprio loro, montaggio video e montaggio sonoro.
Gli attacchi degli uccelli sono sempre più violenti, si inizia per davvero con l’aggressione ai ragazzi nel cortile della scuola, per poi passare alla loro irruzione dal camino, che anticipa una delle tante scene madri del film, quell’assedio finale, tra assi di legno alle finestre, colpi di becco alle mani, il cavo di una lampata utilizzato per cercare di tenere chiusa la finestra e quella maledetta porta in legno, metronomo del disastro, che sembra dover crollare da un momento all’altro, rosicchiata dai colpi di becco.
Eppure se dovessi scegliere una sola scena simbolo del film e della maestria di Hitch, io opterei per il ritrovamento del corpo dell’agricoltore da parte della signora Brenner (Jessica Tandy), un attimo prima abbiamo assistito alla distruzione in casa da parte dei pennuti, quando Lydia varca la soglia della casa del vicino, al Maestro basta una fugace inquadratura sulle tazze appese rotte per farci capire che stiamo per assistere a qualcosa di orribile, che è già accaduto.
Solo in questa scena diventa chiaro che Hitchcock ci ha tolto da sotto il sedere anche la sedia comoda della musica, da sempre conforto e coperta di Linus nelle scene di paura, che qui manca completamente. Se è un’apocalisse “realistica” o per lo meno innovativa quella che Hitch vuole raccontare, allora nella realtà non avremmo nessun tema composto da Bernard Herrmann come sottofondo (anche se qui ha mixato versi e rumori d’ali, proprio come se stesse componendo una colonna sonora, insieme agli effetti sonori di Matthew Ross e Oskar Sala, storia vera), ecco perché quando la signora Brenner trova il cadavere, beccato agli occhi a morte, Hitch ci colpisce non con le mille mila coltellate della scena della doccia, ma con due zoom piccoli, brevi, terrificanti.
L’urlo muto di vero terrore della signora Brenner è stato paragonato a quello di Munch ma è lo stesso urlo muto, coperto in quel caso dal fischio del treno in “Il club dei trentanove” (1935), perché dopo quasi cinquanta film da regista, Hitch aveva una borsa dei trucchi che ancora oggi, lo rende il più irripetibile regista della settima arte mai visto.
La scena dell’intervallo, con i bimbi che cantilenano la loro nenia in classe (puro horror!) e Tippi Hedren fuori, testimone di uno, due, trecento corvi pronti a colpire è una lezione di costruzione della tensione, montaggio visivo e sonoro e dobbiamo solo ringraziare che Hitchcock non abbia voluto calcare la mano, perché avrebbe potuto renderla ancora più lunga e straziante (per i nostri nervi) di così, ma è solo una delle tante scene madri di un film che ne è pieno.
Lassù citavo la produzione friccicarella, tanto che per una settimana è stata messa in pausa per attendere che Tippi Hedren si riprendesse dal suo mezzo esaurimento nervoso (storia vera). Provate ad immaginare la situazione: siete una modella al vostro primo film, avete la “colpa” di non essere Grace Kelly e di esordire in quello che sarà ricordato come uno degli horror più spaventosi di tutti i tempi. Il tuo regista prima ti chiude in una cabina del telefono e poi rincara la dose con la scena della soffitta, quella talmente ansiogena da far quasi sembrare che non ci sia più un solo posto dove nascondersi a Bodega Bay. Per Tippi Hedren in effetti è stato così, visto che Alfred Hitchcock in pieno trasporto, fuori scene le lanciava addosso a tutta forza piccioni, corvi e pennuti finti pur di farla urlare a pieni polmoni, sarebbe venuto un esaurimento nervoso anche a voi, anche se va detto, l’idea di una bionda, intrappolata in spazi ristretti e minacciata a morte è una lezione che uno più di tutti ha imparato meglio, Brian De Palma, che non a caso, tra le sue di bionde, ha voluto proprio la figlia di Tippi Hedren ovvero Melanie Griffith.
Il finale poi, ha anticipato anche la pubblicità di un’utilitaria francese, agli umani del film viene permesso di uscire dalla casa in cui si erano assediati, anche se le notizie alla radio sono apocalittiche, una piccola concessione da parte dei nuovi padroni del mondo per un finale che non è un finale, infatti andando ancora contro le sue abitudini, Hitchcock ci toglie la certezza anche del classico “The End”. Ultimo tocco di classe dopo aver destabilizzato le nostre certezze, cinematografiche e non, per 120 minuti di cinema al suo meglio, anticipatore anche di tanti finali cinici Carpenteriani.
Alla sua uscita “The Birds” incassò bene ma non esaltò la critica, oggi in occasione dei suoi primi sessant’anni invece, possiamo dire proprio il contrario, amato da Fellini e Kurosawa (non proprio la pizza con i fichi), ancora oggi è uno dei primi due o tre titoli che vengono immediatamente citati quando si nomina Sir Alfred Hitchcock. Curiosamente uno dei pochi che non avevo trattato in vista della rubrica su De Palma, ma che casca a fagiolo per l’altra rubrica in corso, perché la parodia è la massima forma di omaggio e questo capolavoro di zio Hitch ci ha insegnato che la fine, quella vera, quella assoluta, potrebbe piombare giù dal cielo portata anche dai più improbabili araldi. Dopo averci fatto temere la doccia, da sessant’anni un pennuto appollaiato che ci guarda torvo (il corvo torvo ah-ah!) non ha mai smesso di fare davvero paura.
Sepolto in precedenza giovedì 13 aprile 2023
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