Ogni tanto al cinema arriva uno di quei film così carico di buoni sentimenti, da ricordare a tutti come dovrebbero andare le cose, confermando come invece vanno davvero, il più delle volte molto male. Ne esistono centinaia di film così, molti sono niente, qualcuno è buono, questo è uno di quelli molto buoni.
Gli anni ’60 negli Stati Uniti, non sono stati proprio il decennio più facile per essere nati neri, oddio non credo sia ancora arrivato il decennio in cui è stato facile farlo, da quella e da questa parte della grande pozzanghera nota come oceano Atlantico, ma l’America degli anni ’60 è il posto perfetto per raccontare questa storia, non solo perché serve a farla risultare ancora così attuale, ma perché è qui che è andata in scena l’amicizia tra Tony Vallelonga, detto Tony Lip, per via della sua parlantina svelta e il pianista afroamericano Don Shirley.
Personaggino interessante il nostro Tony, magari lo ricordate nei panni del boss Carmine Lupertazzi nella serie tv “I Soprano”, ma a raccontare la sua decennale amicizia con il geniale pianista, si sono messi insieme un trio ancora più colorito: il figlio di Tony, Nick Vallelonga, lo sceneggiatore Brian Hayes Currie e il regista Peter Farrelly che non è un omonimo, è proprio il 50% dei famigerati fratelli Farrelly che magari ricorderete per roba geniale tipo “Kingpin” (1996). No scusate, pessimo esempio, quello non lo ricorda mai nessuno, diciamo allora “Scemo & più scemo” (che ora che ci penso era un “Road movie” proprio come questo), “Tutti pazzi per Mary” (1998) o “Io, me & Irene” (2000) che, però, Peter qui ha diretto da solo, lasciando a casa, forse chiuso nello sgabuzzino, il fratello Bobby… Questo forse spiega perché non ci sono gag sullo sperma nel film.
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“Ed è qui che mio fratello metterebbe un pene gigante”. |
No, “Green Book” riesce ad essere divertente e a far ridere senza bisogno del solito umorismo di grana grossa dei Farrelly, riesce anche a risultare drammatico ed intimista e a regalare uno spaccato del razzismo serpeggiante dell’America degli anni ’60. Tutte cose che di solito si trovano anche nei tanti film con i cuoricini e i buoni sentimenti di cui scrivevo in apertura, solo che qui sono così ben gestite, grazie ad un miracolo di equilibrismo da parte di Peter Farrelly che il risultato finale è un film davvero riuscito.
Tony Lip (Viggo Mortensen) fa il buttafuori al Copacabana a New York, ha due grossi problemi (tre se contiamo un appetito apparentemente infinito): il primo è economico, il secondo, non sopporta i neri, anzi diciamo pure che gli fanno schifo, gli fanno così schifo che è meglio buttare via i bicchieri da cui hanno bevuto i tecnici del condizionatore a cui la moglie Dolores (Linda Cardellini) ha offerto da bere, sai mai che poi queste “Melanzane” siano pure infettive.
Potete immaginare la gioia di Tony quando il pianista leggerissimamente nero Don Shirley (Mahershala Ali) gli chiede di fargli da autista e perché no, guardia del corpo, per il suo tour di otto settimane nel Sud più vero degli Stati Uniti, quello duro, puro e razzista in stile Mississippi Burning, una paga ottima e la prospettiva di essere a casa per Natale, giusto in tempo per vedere una poltrona per due cenare con la famiglia.
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“Una poltrona per due è quello con il tipo nero e il tizio bianco? Che spasso quel film!”. |
Quello che segue è la classica situazione insieme per forza, solo che a ben guardare più che che Roger Murtaugh e Martin Riggs, sembrano Hap e Leonard generando tutti i momenti comici e drammatici che possono scaturirne da un bianco rozzo e sempre affamato e un nero colto e raffinato che, ad esempio, non mangia il pollo fritto per non ricadere in uno stereotipo raziale.
Ovviamente, questi due “Quasi amici” ricordano una versione a colori invertiti dei protagonisti di “A spasso con Daisy” (1989) e non mancano nemmeno i problemi di razzismo, perché se i due protagonisti dalla loro convivenza imparano qualcosa l’uno dall’altro, l’America intorno a loro di imparare non ha molta voglia… Ecco, forse l’unica critica che posso muovere alla ricostruzione storia del film è una molto semplice: ad un certo punto un Maître di sala poco propenso a servire commensali di colore, fa riferimento a quella volta in cui i Boston Celtics sono andati a cenare nel ristorante e il loro “famoso campione nero” (che non viene citato per nome) ha comunque mangiato da solo in un altro ristorante, diciamo un po’ meno stellato. Ecco, capisco la concessione fantastica per far arrivare al pubblico un concetto, ma con il caaaaa… voletto che Bill Russell si è mai fatto cacciare da un locale, oppure ha ceduto di un millimetro contro il razzismo con cui ha sempre fatto a capocciate, ci credo che nei dialoghi non viene citato per nome: 85 anni, ma sarebbe ancora capacissimo di venire già a litigare per una cosetta così!
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“Va bene, ma se non ci fate entrare chiamo Bill Russell”, “No no, prego accomodatevi!”. |
Peter Farrelly gestisce alla perfezione una trama che potrebbe scadere nel melenso ogni due minuti, ma incredibilmente non lo fa mai, anzi con il passare dei minuti ci si appassiona sempre più alla trama man mano che l’amicizia tra i due diventa sempre più solida, fino a quel finale innevato che sa di buoni sentimenti sì, ma se così ben raccontati nessuno si offenderà. Almeno credo, non si sa mai come vanno davvero queste cose.
Mahershala Ali (che ormai è lanciatissimo) ci regala un personaggio più sfaccettato di quello che un film così lascerebbe pensare, non si limita affatto a fare quello serio lasciando il palcoscenico a Viggo Mortensen no, ma si carica sulle spalle un personaggio non facile, perché anche qui, scadere nella macchietta, il Calimero della situazione che piagnucola “Se la prendono tutti con me perché sono piccolo e nero” sarebbe fin troppo facile, ma Ali non fa mai questo errore.
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“Sette verticale, si apre in banca”, “Fuoco”. |
Siccome la sceneggiatura è scritta dal figlio, il personaggio di Tony Lip ha forse più spazio, ma Viggo risponde presente con un’altra ottima prova, non mi impressionano tanto i venti chili di panza messi su per il ruolo, quanto più che altro l’incredibile pronuncia, ascoltatelo in lingua originale: Viggo si lancia in canzoni italiane, ma anche in intere frasi in dialetto pronunciate come un vero italoamericano, sul serio, provate a sentire come dice “Mulignane”, un vero spettacolo.
Inutile ribadire, o forse no, che il film doppiato perde metà della sue efficacia, questo quasi sempre, ma in questo caso di sicuro, onestamente non avrei nessun interesse a sentire Pino Insegno che fa l’italoamericano e non solo perché non apprezzo Pino Insegno, più che altro perché in un film voglio vedere quanto è stato bravo l’attore protagonista, non il suo doppiatore, di sicuro non Pino Insegno, che è lo stesso che ha trasformato una delle migliori prove di sempre di Viggo Mortensen in una brutta copia di Borat.
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“Pino, ti do cinque dollari se la smetti di doppiarmi”. |
La cosa davvero curiosa di “Green Book” è tutto quello che gira attorno, per un film che potrebbe fare filotto agli Oscar, stanno girando delle notizie che di sicuro non passeranno inosservate a quei signori di larghissime vedute (seee proprio!) dell’Accademy.
Tipo sono misteriosamente riemersi dai meandri dei Socia-Così dei commenti dello sceneggiatore Brian Hayes Currie, in cui pochi giorni dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, elogiava Trump per la sua invettiva contro i Musulmani che esultavano per le morti, il tutto con un attore come Mahershala Ali dichiaratamente Musulmano e a niente pare valso aver dichiarato che si tratta di una notizia falsa.
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E il remake americano di “Quasi amici”… MUTO! |
Oppure, Viggo Mortensen che forse troppo calato nel ruolo, durante la conferenza stampa, si lascia scappare la parola con la “N” (salvo scusandosi subito dopo), oppure ancora peggio, quella vecchia notizia per cui Peter Farrelly ai tempi, di “Tutti pazzi per Mary” così per goliardia, aveva mostrato il ehm, popparuolo a Cameron Diaz, anche qui, non è valso il Mea Culpa pubblico del regista.
Insomma, un film che fondamentalmente dice: “Siamo un po’ tutti teste di cazzo, ma possiamo migliorare e se ci conoscessimo tutti un po’ meglio, sarebbe forse più facile andare d’accordo piuttosto che odiarsi per partito presto”, esce in un periodo in cui la strada da fare non è tanta, ma proprio tantissima, tanta, tanta, tanta.