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Greyhound (2020): guardo il mondo da un oblò (affondo un U-Boot)

Ogni tanto me ne esco con questa stramba teoria, se mi
leggete qui sulla Bara spesso, l’avete già sentita, quindi mi scuso per la
replica: ci sono storie di cui mi piacerebbe vedere il “controcampo” al cinema.
Un po’ come ha fatto Clint
Eastwood con “Flags of our fathers” e “Letters from iwo jima” (2006).


L’esempio più lampante sarebbe “Sentieri selvaggi” (1956)
dal punto di vista degli indiani, ecco per certi versi “Greyhound” (appesantito
dal solito sottotitolo Italiano – Il nemico invisibile) è un classico film di
sottomarini, raccontato in “controcampo”, ovvero dalla superficie dell’acqua
dove naviga la Greyhound del titolo, che poi in Inglese vuol dire Levriero. Il
fatto che gli U-Boot nazisti che si muovono minacciosi sotto le onde, abbiano
delle teste di lupo ritratte sulla fiancata, è un dettaglio che volevo farvi
notare, qualcuno riuscirebbe a tirarci fuori uno spunto particolarmente
brillante, da questo scontro tra un Levriero e tanti lupi cattivi.

“Cappuccetto rosso? Su, apri la porta. Su, apri! Non hai sentito il mio toc, toc, toc?” (cit.)

Tratto dal romanzo del 1955 “The Good Shepherd” scritto
da Cecil Scott Forester, “Greyhound” è il tentativo da parte del canale Apple
TV+ di sfondare con un titolo di richiamo, che a ben guardarlo ha tutte le
caratteristiche del cinema occidentale moderno: ad una prima occhiata sembra
una grossa produzione di seria A, quando in realtà si sfruttano le idee che
normalmente si trovano nei film di serie Z.

Una sola location (come direbbe Alessandro Borghese),
ovvero la Greyhound, un cast di illustri sconosciuti tutti molto giovani tra cui
spiccano solo Elisabeth Shue – moglie del protagonista e sua principale
motivazione, resta in scena tre minuti netti – e il primo ufficiale che ha il
faccione di un incredibilmente quieto Stephen Graham. Per il resto il film è
tutto sulle spalle di Tom Hanks, che per 91 minuti, titoli di coda compresi,
guarda il mondo da un oblò, non si annoia un po’ perché gli U-Boot lo tengono
impegnato, ma è sostanzialmente tutto qui.

Vi avviso, si vede più Elisabeth Shue in questa foto che in tutto il film.

Alla fine è proprio il buon vecchio Tommaso, come Orietta Berti a far andare
la barca (in tutti i sensi) di questo film, anche autore della sceneggiatura,
Hanks si porta dietro oltre a tutto il suo blasone d’attore, anche i suoi
trascorsi cinematografici, diciamo quelli alti, il tempo passato con il “casinaro” Hooch, in questo film
non gli serve a molto, a meno che di non voler cavillare sul fatto che tra
Levrieri e Dogue de bordeaux, sempre di cani stiamo parlando.

Qui Tom Hanks e di nuovo un po’ “Captain Phillips”
(2013), un po’ Sully ma anche un po’ il
protagonista di “Salvate il soldato Ryan” (1998), perché comunque quando Hanks
incontra la seconda guerra mondiale nella sua filmografia, di solito si impegna
anche più del solito. Sto pensando alla bellissima serie che aveva prodotto
insieme a Spielberg, “Band of brothers” (2001).

“Non è che tu per caso ti chiami Ryan, vero?”

1942, il capitano di corvetta Ernest Krause (Tommaso), a
bordo della sua Greyhound si trova alla testa di una flotta di 37 navi
alleate, impegnate nel complicato attraversamento dell’Atlantico del nord,
minacciate dagli U-Boot Nazisti, che da sotto la spuma dell’acqua giocano a
battaglia navale con le vite dei soldati.

Iniziamo dai difetti: Tom Hanks per la parte del capitano
di corvetta alla sua prima attraversata, risulta davvero un po’ troppo avanti
con l’età. Certo la storia giustifica la sua grande esperienza, inoltre parlandone
con il Signor Cassidy Senior, la trovata delle pantofole potrebbe essere letta
in due modi alla luce dell’età di Hanks. Ma forse il problema principale è
proprio quello, se non vi “attizza” l’idea di un film dove, Hanks guarda fuori,
comunica con i suoi uomini, elabora nella sua testa ragionamenti che sono
frutto della sua esperienza e poi tuona ordini su come schivare la morte per
affogamento nelle gelide acque dell’Atlantico, beh lasciate perdere. Se invece
volete 91 minuti di tensione quasi costante e macro sequenze d’azione
lunghe e molto ben realizzate, prego, siete invitati a salite a bordo.

Tom si prepara, per poter fissare fuori dall’oblò.

La regia di Aaron Schneider riesce a tenere il pubblico
sulla corda per tutta la durata del film, gli effetti speciali digitali
lavorano bene in coppia con la vivida fotografia di Shelly Johnson, il risultato
è una lunga partita a scacchi tra Tom Hanks e gli U-Boot, giocata sul filo della
tensione e scandita dalle miglia navali ancora da attraversare, in quella
porzione di mare in cui ogni nave alleata, risulta essere un bersaglio facile.

Come vi dicevo Tom Hanks si porta dietro il suo bagaglio
di personaggi, solo vedendolo viene istintivo associarlo al cinema di Steven
Spielberg – infatti anche qui un minimo di caramello nel finale arriva, ma
ormai il film aveva già abbondantemente fatto il suo dovere -, quindi permettetemi
il paragone un po’ ardito: la tensione di “Greyhound” fa pensare un po’ a Lo Squalo, perché il nemico non si vede
mai, ma la sua presenza è costante e si avverte nelle morti e negli affondamenti
che sono il modo degli U-Boot di “mordere” le loro vittime.

“Secondo i miei calcoli, dovremmo essere qui, vicino a questa linea tratteggiata”

Quando i Nazisti iniziano a farsi sentire via radio,
ululando ai loro bersagli minacciose frasi per demotivarli e farli prendere dal
panico, a tenere dritta la barra della sua nave e del film ci pensa Tom Hanks,
uomo normale in circostanze straordinarie – eccolo che torna Spielberg! -, che
guardando un punto fisso nel vuoto è l’unico che “vede” la minaccia chiaramente
e sa cosa bisogna fare per evitare siluri che potrebbero arrivare da ogni
direzione e in ogni momento, risultando fatali.

Mi rendo conto che il set deve essere stato un cast di
attori bardati per il gelo, davanti ad infinti schermi verdi, ma guardando il
film finito la magia del cinema fa il suo dovere, a salvare questo film dal
baratro della serie B (se non proprio della Z, visto che ne utilizza gli stessi
trucchi ma con più soldi a disposizione) ci pensa proprio il carisma e il
vissuto (artistico) di Hanks.

Lo sguardo di Tom è così intenso che ha frantumato l’oblò.

“Greyhound” è costruito su piccoli momenti, che siano il
rapporto tra il comandante e i suoi uomini, un cameratismo fatto di solidarietà
maschile alternata ad alcune scene d’azione che rompono la tensione (oppure la
fanno scatenare), perché di fatto la nave non può “vedere” gli U-Boot (e
viceversa), tutto questo gioco di sonar, si traduce in una cecità cinematografica
che è anche un po’ la nostra, da spettatori non vediamo mai la minaccia, ma
sappiamo che è lì in attesa, infatti quando si manifesta le scene d’azione sono
ancora più coinvolgenti. Perché come in un horror, l’assassino quando te lo
trovi davanti fa paura perché vuole ucciderti, ma è quando non sai dove si trova che devi avere ancora più paura.

Come gli inesperti marinai a bordo della Greyhound,
dobbiamo fidarci delle visioni del comandante e quando gli U-Boot fanno
capolino, viene voglia di aggrapparsi ai braccioli della poltrona, alcune scene
sono talmente ben coreografate che appena l’azione passa nella parte emersa
delle acque, quella visibile, diventa subito chiarissimo che Tom Hanks aveva
ragione ed ogni siluro evitato anche di striscio, diventa come sfuggire dai
denti di Bruce per il rotto della
cuffia, oppure come evitare una coltellata di Michael Myers per un pelo. In “Greyhound” ogni manovra navale deve
essere ponderata per tempo, era dai tempi di Pacific Rim che non si percepiva una così palese pesantezza e
difficoltà nell’eseguire ogni manovra, proprio per questo ogni virata a babordo
oppure tribordo diventa una scelta con un peso enorme, da prendere in una
manciata di secondi.

“Gianni Togni levati, ma levati proprio”

In fin dei conti “Greyhound” funziona malgrado sia un
film di serie Z con i soldi e uno dei più grandi attori del mondo, proprio per
questo, perché non cavilla troppo sulla situazione ma vive della tensione del
momento, di quella filosofia per cui quando sei nella… si può dire cacca
parlando di un film con Tom Hanks? Ma si ormai l’ho scritto, quando sei
nella cacca o ti metti a piagnucolare per come ci sei finito, oppure stringi i
denti e fai quello che puoi per uscirne. Prima di un minimo di pietismo nel
finale, “Greyhound” riesce a raccontare alla perfezione, la storia di una
generazione che si è ritrovata ad affrontare il male, stringendo i denti e
tenendo la schiena dritta. Quando è il momento bisogna fare il proprio dovere
per poter sperare di tornare a casa, e questo film il suo dovere lo fa alla perfezione.

Ci sono modi più tranquilli per passare 91 minuti con un film, ma ci sono anche modi cinematograficamente peggiori, ve lo assicuro.
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