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[Guest post] 2002 – La seconda odissea (1972): Noi Robot, figli dei fiori

Il primo post di Quinto Moro è piaciuto molto ai lettori
della Bara Volante, quindi con il doppio dell’entusiasmo, è il momento di
replicare, giusto in tempo per il compleanno di un film che volevo avere su queste pagine da parecchio tempo,
lascio la parola a Quinto Moro e vi auguro buona lettura!

Buon compleanno a un piccolo gioiello della fantascienza che usciva il
10 marzo 1972 e se 47 anni sul groppone sono tanti e si sentono, spero di
invecchiare come questo film, restando guardabile e con uno spirito genuino al
di là del tempo.

L’anno è il 2002, o così vuol farci credere la distribuzione italiana “perché dopo il successo di 2001 Odissea
nello spazio tutti i film si beccavano la data ad inizio titolo” (Cit.
Cassidy). In questo caso però si è andati oltre perché il cambio da “Silent
Running” all’italiano “2002: La seconda Odissea” è stato legittimato con tanto
di voce fuori campo – assente nell’originale – che ci racconta come questo
futuro sia lo stesso dell’epopea di Kubrick&Clarke, attribuendo al Monolito
i grandi passi avanti della scienza. Così il destino dei protagonisti non è
governato da capoccioni umani ma dal calcolatore Hal 9000. Per chi ha visto il
film col doppiaggio nostrano, va detto che questa scelta ha il suo effetto, sia
perché il doppiatore di Hal è rimasto lo stesso, sia perché la versione
terrestre di Hal era quella sana e buona. Ma in “2002” le decisioni di Hal
finiscono per risultare ugualmente discutibili e non meno sinistre del gemello
impazzito dalle parti di Giove. Insomma, è uno di quei rari casi in cui,
cercando di venderlo come sequel (o spin-off), si è riusciti a tirar fuori
qualcosa di interessante.
“Salve Dave Lowell, tu non mi vedi, ma io ci sono.”

Non siamo dalle parti della fantascienza classicheggiante e rigorosa di
cui “2001” è caposaldo. Ci rendiamo conto dell’aria che tira già dai titoli di
testa mentre Joan Baez, “l’usignolo di Woodstock”, una delle cantanti
simbolo della cultura hippie e pacifista degli anni ’60 e ’70, parte con
quell’inno alla natura tra inquadrature di piante e animali. Siamo
ufficialmente di fronte al primo film di fantascienza hippie! E per quanto
fosse una pellicola “minore” con tutta una serie di difetti – anche grossi – “Silent
Running” è stato lungimirante nella sua morale ecologista, espressa con un
trasporto e una convinzione che neppure Al Gore…

Nel 1972 l’inquinamento non era certo fra i temi più gettonati e
immagino dovesse sembrare un argomento buono, appunto, solo per i figli dei
fiori. Oggi c’è il “negazionismo” Trumpista sul riscaldamento globale, ma
questa è un’altra storia.
“Fields of children running wild in the sun” riuscite a trovare un verso più hippie di questo?

Siamo a bordo della Valley Forge, parte di un convoglio di astronavi-serra
che custodiscono le ultime spoglie dell’ecosistema terrestre. Gli astronauti passano
il tempo a cazzeggiare, giocano a biliardo e a poker, e gareggiando sui go-kart
più comodi del mondo. Aperta parentesi: chi ne ha mai provato uno sa che i
go-kart massacrano schiena, braccia e gambe come se ci foste sotto, anziché seduti sopra. I kart di questo
film sono il sogno di ogni pantofolaio: sfrecciare a tutta velocità seduti in
poltrona. Le scene a bordo dei kart sono pure girate bene, con inquadrature degna
di una gara professionistica con tanto di primi piani sui piloti. Sembra una
piccolezza ma la fantascienza dovrebbe essere proprio questo: il gusto di
raccontare qualcosa di nuovo e innovativo (i kart, i droni, le serre spaziali),
e tra i sogni tecnologici lasciar emergere gli spettri di un’umanità sempre
uguale a se stessa, o peggiorata nella percezione di certi temi. Tanto basta a
fare di “Silent Running” un racconto distopico e al tempo stesso positivo nel
suo idealismo.

“Il mezzo del futuro. Il mezzo del futuro. Il mezzo del futuro.” (Cit.)

Dunque i nostri cazzoni … ehm, serissimi astronauti aspettano
notizie sul futuro della missione, considerata una perdita di tempo da tutti
tranne che da Lowell Freeman (ti pareva che il ribelle non dovesse chiamarsi UomoLibero).
Mentre i suoi colleghi fanno le corse Lowell è l’unico ad occuparsi della
foresta. Non a caso l’uniforme del protagonista è ricca di patch per
distinguerlo dagli altri astronauti, con più del semplice stemma della flotta e
del suo grado.

Lowell è un novello San Francesco dello spazio – spesso veste come un
frate – e parla alla natura, agli animali e ai robot. Ha il volto e gli occhi
azzurrissimi di un Bruce Dern che lavora bene sul personaggio, e rappresenta
quel che resta dello spirito libero americano, idealista ed ecologista convinto
(qualcuno mandi una copia del film al Partito Repubblicano per insegnargli “how to make America Great Again”).
Bruce va sopra le righe con quello sguardo spiritato, ma è in linea col
personaggio, che sfiora un fanatismo infantile nella purezza dei suoi intenti. I
suoi dialoghi – per lo più monologhi – vanno dalla dichiarazione d’amore
all’ambiente ad una celebrazione non troppo velata dell’americanismo perduto: la
lotta alla mancanza di sogni e fantasia, all’omologazione di una popolazione
uniformata (qualcuno ha detto comunismo?), ma per una volta l’affermazione individuale
coincide con la protezione dell’ambiente, verso un bene superiore che nessuno
vuol proteggere. E non tirate in ballo Avatar, lo sappiamo tutti che JakeSullì
non ha scatenato quel casino per proteggere Pandora ma perché Zoe Saldana fa
sangue in qualunque forma e colore la si trovi.
“Impegno di conservazione – Da americano giuro di salvare e con fede impedire la rovina delle risorse naturali del mio Paese: il suolo, i minerali, le foreste, le acque, la flora la fauna” Al Gore non avrebbe saputo dirlo meglio.
I legami tra la corsa silenziosa del “2002” e l’odissea del “2001” non
sono però così forzati, anche perché i loro effetti speciali sono figli dello
stesso pioniere: Douglas Trumbull, qui anche in veste – un po’ scucita – di
regista. Doug ha sempre dato il meglio come tecnico piuttosto che regista, e si
vede. Le riprese spaziali sono invecchiate bene: i modellini ripresi con
telecamere e tecniche di sovrapposizione di sfondi ed effetti luce restituiscono
un realismo che la CG fatica a restituire (pure quando ci riesce, non stupisce
alla stessa maniera). Le scenografie fanno la loro parte, e non era così
scontato in un film a basso budget, tant’è che il set stava in una portaerei
pronta ad essere demolita, e i suoi hangar e corridoi funzionano bene per gli
scenari claustrofobici di una stazione spaziale. Ci sono poi i soliti computer
e display fatti di luci colorate lampeggianti, e qualche bello schermo
illuminato che gridano forte: serie B, serie B! manco fossimo allo stadio della
Sci-Fi League.
Il meglio viene dalle cupole, elemento cruciale della trama e
visivamente efficaci nelle scene in interni, ma soprattutto nelle riprese
spaziali. Attraverso le vetrate si riesce a vedere alberi e cespugli, e non
immagino quanti milioni di dollari e pixel servirebbero oggi per immagini
simili.
Se solo “Il bel Danubio Blu” non l’avesse già usato Kubrick…
I limiti del film stanno nella gestione dei tempi, più che in una
sceneggiatura risicata. Spara subito tutte le sue cartucce, e infatti Bruce
Dern è sprecato nella seconda metà, visto che il copione si esaurisce dopo i
primi 40-50 minuti con un climax troppo anticipato. Il film dura un’ora e mezza
ma poteva durare anche meno. La prima parte ha ritmo, è in crescendo ed ha i
suoi momenti di tensione. Poi il ritmo crolla, ritroviamo una serie di scene
già viste: la partita a carte, i go-kart e qualche lungaggine di troppo. Il
bello – anzi il brutto – è che il materiale per far cambiare marcia al racconto
c’era tutto, ma è mancato un regista in grado di andare oltre l’idea iniziale. Si
poteva mettere un po’ di pepe mostrando il crollo emotivo di Lowell, giocando
sui primi piani e approfondendone la psicologia e il tormento. Purtroppo questi
elementi sono rimasti abbozzati, resi male anche da un montaggio approssimativo.
“Ehi Doug, dov’è il resto del copione?”, “Non ci serve, abbiamo cupole, droni e go-kart. Fatti un altro giro, poi giochiamo a biliardo”, “Preferisco il poker”, “Sicuro. Meglio che giocare a scacchi con Kubrick!”.
Il motivo che ha spinto Douglas Trumbull a fare questo film era il
pallino di mettere in scena i droni, idea che aveva dai tempi di “2001: Odissea
nello spazio”. Quindi non il messaggio ecologista, né il tormento di Lowell alla
deriva nello spazio, e a sentire le vecchie interviste di Doug non è che
sembrasse molto interessato ai temi quanto agli aspetti tecnici e visivi. Bisogna
dargli atto che i droni sono tra gli elementi più originali e riusciti del film:
protagonisti positivi, in anticipo su quanto verrà poi sdoganato dal primo
Guerre Stellari, coi robot visti come aiutanti e non come nemesi degli umani. Insomma,
questo film è progressista pure verso i robot.
Impossibile non pensare a questi droni come ispirazione per le unità C1
(o R2), basti guardare quel fisico da scatoletta con due gambe. Per quanto
siano goffi, i droni hanno movimenti fluidi e reazioni umane, perché dentro quelle
scatolette stavano ragazze e ragazzi mutilati, senza gambe, e che si muovevano
con le braccia al posto dei piedi (c’è qualcosa che non sia progressista in
questo film?). Sarà per quel loro ciondolare da papera che nel doppiaggio
italiano si sono ritrovati i discutibili soprannomi di Paperina, Paperino e
Paperone (Huey, Dewey e Louie in originale, che si dovevano tradurre con Qui,
Quo, Qua).
“Ehi sveglia! Sta parlando di noi!”
Trumbull ricicla da “2001” l’idea di far passare l’astronave per
Saturno, perché è là che l’Odissea di Kubrick doveva concludersi “verso l’infinito
e oltre!” (Cit.), ma poiché il pianeta anelluto – o anellide – era troppo
complesso da realizzare, gli fu preferito il più semplice Giove. E visto che
Douglas è sì un buon tecnico ma non certo perfezionista quanto Kubrick, Saturno
lo vediamo sullo sfondo un po’ sbiadito. Peccato che la scena in cui si
attraversano gli anelli, per quanto volenterosa e visivamente efficace, non sia
stata preparata da qualche inquadratura che gli desse la giusta dose di pathos.
“Cos’è quella faccia triste Bruce?”, “Ma… mi hai tenuto fuori fuoco nella mia scena più toccante!”, “No no, è che tu sei un grande e la cinepresa si è appannata per la commozione”, “Bugiardo, sigh…”.
L’odissea della Valley Forge vede il suo apice nel passaggio attraverso
gli anelli di Saturno, ed è qui che inizia la fase stanca del film. Tutto
quello che succede dopo: l’operazione alla gamba di Lowell, le partite a carte
coi droni, la corsa col go-kart, sono le tipiche scene che vedremmo solo nei
contenuti speciali di un dvd perché, perché superflue o troppo lunghe, e quindi
da tagliare. Invece stanno lì ad allungare il brodo senza renderlo più saporito.
Persino i brevi momenti in cui Lowell coltiva le piante sembrano privi della
passione iniziale, e con risvolti anche imbarazzanti. Cioè, sei il genio che
vorrebbe riportare le foreste sulla Terra e non pensi che le piante abbiano
bisogno di luce per sopravvivere? Ok, forse Lowell non è cresciuto sulla Terra
e gli perdoniamo questa ingenuità…
Ma non dovevo parlar bene di questo film? Diavolo sì, ne ho un vago
ricordo da bambino, mi ricordo i droni, e quando l’ho rivisto a vent’anni ero
tipo: “wow, è il mio sogno hippie anni ’60!”
Bisognerebbe fare di queste pellicole proiettili da sparare in testa
alla gente, come antibiotici da prendere a forza. Ma mi rendo conto che chi sia
cresciuto con la fantascienza degli anni post-2000 possa quasi trovarlo
irrilevante, mentre ha un messaggio di fondo e una lungimiranza che vanno
inquadrati nei nascenti anni ’70 nixoniani: disillusione, oscurantismo, morte
della libertà. Ma “Silent Running” celebra l’esatto contrario, e nonostante l’ingenuità
spassionata che si porta appresso è da riscoprire e amare.
L’uomo che sussurrava ai robot.
Nel doppiaggio nostrano c’è una frase chiave che stona da morire:
quando il Drone numero 3 muore per via di un incidente il nostro doppiaggio
mette in bocca a Lowell un “ecco cosa succede a non seguire agli ordini!” ben
in contrasto con la sua morale. In lingua originale diventa: “ecco cosa succede
a non prendervi cura di voi stessi” che poi ha un significato più profondo
nell’ottica del finale, che introduce un altro tema interessante: le macchine
destinate a prendersi cura della natura e sopravvivere agli uomini per
raccoglierne l’eredità e la memoria, come Paper… [no non ce la posso fare a
chiamarla così] come Dewey fa prendendosi cura della foresta. Qui i temi si
confondono e si intrecciano per un finale “socialmente accettabile” perché certe
colpe non possono essere perdonate dalla società, e vanno espiate (Bruce Dern
docet). Non importa quanto sia nobile l’intento che spinge Lowell ad agire se
le sue azioni da ecologista sono costate la vita a qualcuno.
Resto innamorato di quella battuta in cui Lowell si sente apostrofare
come “un grande americano”, e lui: “Sì… penso di esserlo.” Una sola battuta che
riassume l’intera morale del personaggio e del film. L’anarchia americana della
giustizia che può anche costare la vita a qualcuno, purché si preservi un
ideale di giustizia supremo, che qui coincide con la salvezza della natura.
“Ehi Lowell, che hai intenzione di fare?”,  “Fà la cosa giusta, lo diceva sempre Spike Lee”, “Mi sembra una cazzata”, “Caro drone, tu non puoi capire, sei guasto”, “Senti chi parla!”.
Il limite di Douglas Trumbull come regista è stato proprio non rendersi
conto di che patrimonio avesse per le mani. Dovevamo essere testimoni della
decadenza di Lowell, del suo lasciarsi andare schiacciato dal senso di colpa, la
deriva nello spazio unita a quella personale, mentre fa i conti con le
conseguenze delle sue azioni. Purtroppo ci offre solo un abbozzo di ciò che
poteva essere. Diversamente, sarebbe stato un capolavoro epocale.

Comunque al buon Doug non è andata così male, si è espresso meglio da
tecnico degli effetti speciali, in produzioni mica da ridere come Incontri ravvicinati del terzo tipo, il primo film di “Star Trek”, Blade Runner e
pure “The tree of life”. Diciamo che la regia non era il suo forte, e qui gli è
andata di lusso.
Per un film di serie B – perché di questo si tratta – “2002 – La seconda
odissea” ha più contenuti e sfaccettature di quanto sembri. E forse i “bambini
che corrono selvaggi sotto il sole” nelle liriche di Joan Baez non sono umani
ma le macchine che vanno oltre le età dell’uomo, educate a riuscire là dove l’umanità
non ha potuto, per colpa o per inerzia.
P.S.
Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film!
Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.
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