Quanto è bello avere Quinto Moro a scrivere – meglio di
quanto avrei mai potuto fare io in un paio di vite – del bellissimo film “La paranza
dei bambini”. Lascio a lui la parola e come al solito vi auguro buona lettura!
fiction scritto da Roberto Saviano, che tuttavia non appare tanto lontano dai
suoi lavori d’inchiesta per chi ha l’orecchio teso alle cronache
campane e non solo.
piccoli, che si mangiano tutti interi con testa e lisca. Ed è sinonimo di
combriccola, squadretta di compagni inseparabili, come quelli che nel romanzo e
nel film intraprendono l’ascesa negli ambienti malavitosi del capoluogo
campano.
all’italiana continuo a non capire le polemiche intorno a Saviano e le sue
opere. Dopo “Gomorra” anche a “La paranza” tocca la tiritera del “Napoli non è
solo questo”, con l’urgenza estrema di dover dichiarare che “oh! Guardate che
questa è una storia inventata, non è mica la realtà!”
storia vera”, eppure il fenomeno delle “baby gang” è realtà assodata in varie
regioni ormai da anni, e non ci sono molte opere che raccontino le dinamiche dietro
la formazione di giovani criminali. Pensare che “Le mani sulla città”, film che
guarda caso parlava proprio di Napoli, e dopo una delle più fantastiche – e
demoralizzanti – analisi del funzionamento della collusione tra politica e
malaffare si chiudeva con la frase: “I personaggi e i fatti qui narrati sono
immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Che
poi è esattamente quel che vale per “La paranza dei bambini”.
della Campania siano una forma di ghettizzazione, credo al contrario che la
realtà di quei luoghi riesca a fornire una rappresentazione dell’Italia a tutto
tondo. Una rappresentazione estrema, a volte esagerata e stilizzata, com’è
esagerata la sceneggiata napoletana dove tutto è moltiplicato e arricchito, ma sa
raccontare quel che può succedere da uno spigolo all’altro di questo stivale
buttato in mezzo al mare, impastato tra acqua e fango.
“Nicò, ma che roba è ‘sta speranza?”, “Boh, nel dubbio tu spara”. |
Sembra che il danno lo faccia sempre chi prova a
raccontare la violenza e il crimine, non chi li compie, e non chi tace girando
la testa dall’altra parte. Meglio soprassedere per non danneggiare l’immagine dell’Italia,
della Campania o di Napoli. Mi ha sempre fatto specie chi pensa si danneggi
“un’immagine”, come l’immagine fosse più importante della sostanza. Strana
l’idea che si possa fare più danno parlando di ciò che non va, piuttosto che
tacere. Meglio sembrare belli, buoni, giusti, funzionanti. Facciamo finta di
niente. E guai a parlare di mafie.
nascere polemiche. Significa che il cinema ha ancora un qualche valore, ché
alle masse può parlare e comunicare. Che poi le critiche ai film di genere in
Italia sono sintesi d’ipocrisia e controsenso assoluto, se il cinema di genere
è stato dagli anni ’70 ad oggi il terreno più fertile del miglior cinema
nostrano e il genere più apprezzato all’estero (che certo non esportiamo le
nostre commedie becere, infarcite di scoregge e battutacce, o con cabarettisti
convertiti al ruolo d’attori professionisti, con rispetto parlando).
All’uscita del film ero piuttosto scettico. Il romanzo de
“La paranza” era troppo denso di eventi per essere sintetizzato in un solo
film. Faccio fatica ad immaginare lo spettatore medio che non abbia letto il
libro a seguire certi passaggi, così com’era successo a me con Gomorra. Ma “La
paranza” ha un percorso narrativo coerente e meno spezzettato e funziona
proprio perché si spoglia di tante scene e personaggi. Il film è asciutto e
privo di orpelli inutili, forte di un comparto tecnico di tutto rispetto, a
partire da una fotografia perfetta e da una colonna sonora intensa e drammatica
nei momenti giusti. Poi ci sono le onnipresenti canzoni napoletane che,
piacciano o non piacciano, fanno parte della realtà che raccontano e sono parte
della scenografia (più che colonna sonora).
volta che ci sono storie con giovani personaggi – specie quando si includono
bambini e adolescenti – ho sempre un brutto presentimento. Qui l’immediatezza e
l’istinto del cast conferisce al racconto un aspetto quasi documentaristico.
Non c’è una scena che sembri “recitata” per quella spontaneità che si
percepisce nella banda di ragazzini, dal bravo protagonista a tutto il cast di
contorno. Anzi i più “ingessati” e “recitati” sono i personaggi adulti.
Da sinistra: Piggy, Simon, Ralph, Jack, Sam & Eric (Cit. “Il Signore delle mosche”). |
screzi tipici di quell’età assumano tutta un’altra forma e dimensione quando si
è abituati a tenere una pistola in mano. Quel che sarebbe una spinta o uno
sberleffo si amplificano nella minaccia fisica, la pistola in faccia, lo sparo.
Il tutto è reso più credibile dal feroce senso di territorialità: quartiere
contro quartiere, zona contro zona. E se seduti su uno scooter o su un autobus
non avete attraversato una zona ostile in cui dovevate tenere gli occhi aperti
come due palle da biliardo, “La paranza” vi farà sentire più fortunati. Ma il
fatto è che questo succede a Napoli come a Roma, come a Milano e a Palermo, a
Torino e a Cagliari.
viscerale, un embrione che poi si spande su tutto il resto, sull’affermazione
di se stessi per i paranzini che si fanno adulti col piombo piuttosto che con
lo sberleffo ai rivali di zona.
“Mi porti a vedere un film romantico?”, “Certo! Fanno la replica di Scarface alle cinque”. |
“Meglio il libro del film” è ormai più un meme che una
filosofia. “La paranza” del cinema non è nemmeno un film sulla camorra, ma un
racconto sul passaggio all’età adulta fatto bruciando tappe e vite, sulla
fascinazione del potere. Il Nicola protagonista del film è un “bravo ragazzo”,
meno costruito e più spontaneo, mentre il Nicolas del romanzo era concentrato
con ferocia nella sua ascesa criminale e nella fascinazione per il crimine e i boss.
E se il romanzo ruotava in modo ossessivo sul mondo camorristico, qui il
percorso è spontaneo, meno studiato e per questo i personaggi paiono ancora più
umani. Resta intatto il messaggio di gioventù affamata e senza alcuna paura di
bruciarsi, che aspira all’ascesa sociale a suon di banconote, mobili di lusso e
mitra.
piombo, con un focus all’infanzia selvaggia come non se ne trovano molti. Sembrerà
banale ma usare attori ragazzini e non adulti (come capita nelle opere
americane) che maneggiano armi e si affacciano alla sessualità con frammenti di
nudo, strisce di coca e trans, dà al racconto un’impronta più forte e credibile.
“Money! Get away – Get a good job with good pay and you’re okay”. |
che si spoglia di tutto il superfluo, il che rende tutto più immediato e
fruibile, la narrazione vive del momento, delle interpretazioni. Molte forzature
emergono nel finale, che nel romanzo sembrava scritto da De Palma (penso a “Gli
intoccabili” o a “Carlito’s way”), ma qui ne vediamo una versione semplificata,
imbastardita e quasi misera.
giusta tensione, è lì che la regia di Giovannesi mostra il fianco, limitandosi
all’ordinaria amministrazione mentre poteva – e doveva – osare di più. Il
finale è sostenuto per lo più dalla carica drammatica della colonna sonora, ma
l’adunata della paranza è la conclusione ideale: non fa prigionieri, niente
buonismi e ruffianerie ma un lucido e crudo promettere altro sangue e rovina,
inesorabile e senza speranza, proprio come i paranzini.
P.S.
Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film!
Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.