Home » Recensioni » [Guest post] Un uomo tranquillo (2019): Nel nome del padre, del figlio e del Grande Spirito

[Guest post] Un uomo tranquillo (2019): Nel nome del padre, del figlio e del Grande Spirito

Su le mani tutti quelli che vogliono un altro post di Quinto Moro! Oh bravi vedo tante manine alzate, quindi non perdiamo altro tempo e buona lettura!

Vedere Liam Neeson nei panni del giustiziere mi fa sempre strano. Non dovrebbe, visto che ha raggiunto la fama con Darkman, che se non è il mio giustiziere preferito poco ci manca. Sarà per quella faccia mite, quel velo perenne tristezza, quell’aspetto da buon padre di famiglia o da professore comprensivo, uno a cui chiederesti consigli su come farti degli amici o invitare ad uscire una ragazza, non su come spezzare le gambe a chi ti fa un torto. Ed è proprio per questo che il buon Liam sa essere minaccioso quanto un Charles Bronson o un Clint Eastwood.

Nei martellanti passaggi del trailer al cinema ho immaginato che “Un uomo tranquillo – Cold Pursuit” fosse molto furbo a giocare col suo protagonista, visto che il buon Liam da Taken in poi è diventato un’icona del revenge movie. Ci sta alla grande nei panni dell’uomo comune incazzato, e che gli puoi dire ad uno che ha fatto Oskar Schindler? Se uno così vuole ammazzare qualcuno deve avere un buon motivo…

“Se te la stai facendo sotto, il bagno è da quella parte”

È stato il nostro amichevole Cassidy di quartiere a farmi notare che questo era un remake, e non dell’omonimo titolo con John Wayne (per fortuna, ché io non ho un gran feeling col Duca), ma dello scandinavo “In ordine di sparizione”. E visto che la Bara è un sito serio [Nota Cassidiana: AHAHAHAHAH] me lo sono visto per completezza. Così vi beccate due commenti al prezzo di uno, perché questo rientra perfettamente nell’ordine dei remake americani fatti paro paro a pellicole esterofile. E siamo di fronte ad un remake puro al 98%, perché ricicla tutta la sequenze delle scene, tutti i personaggi e persino le battute.

Stellan Skarsgård o Liam Neeson? Dickman o Coxman? I giochi di parole sul cognome del personaggio si sprecano… Scegliete il vostro attore, guardate un film e non avrete bisogno di vedere l’altro. Il cast di contorno funziona in entrambi, specie nella versione americana in cui i personaggi secondari appaiono meglio caratterizzati, nonostante il minutaggio sia lo stesso ma il ritmo è più spedito, i dialoghi più serrati.

I due film sono identici, il remake riprende scena per scena, il che ne fa stonare anche qualcuna perché è il “tono” ad essere diverso. La regia nella versione scandinava risulta più “europea”, i tempi più blandi e l’elemento ambientale, l’ostilità del gelo, si sente di più anche per una fotografia dai toni sempre spenti e freddi. Nella versione americana l’illuminazione in interni è più curata e calda, ma il direttore della fotografia è lo stesso, come pure il regista: Hans Petter Moland, che ha girato due volte lo stesso film, con attori diversi e qualche milioncino in più. Purtroppo non è riuscito a recuperare il budget, comunque esagerato per un film del genere – 60 milioncini paiono un po’ eccessivi per una roba che a Hong Kong tirerebbero su in due settimane con un decimo della grana – e pare che il marasma intorno al protagonista certo non abbia fatto bene al botteghino, specie oltre oceano.

“Ero un buon padre di famiglia” – “Anch’io”. “Non ho mai fatto del male a nessuno” – “Neanch’io”. “Li ammazzerò tutti” – “Anch’io”.
Ci tocca aprire la parentesi doverosa e dolorosa. L’uomo tranquillo Liam Neeson è passato dalle bufere nevose a quelle mediatiche. Succede che il nostro Liam tra un’intervista e l’altra rivanghi un fatto di cronaca che l’avesse spinto ad una fantasia da giustiziere. In sintesi: tanti anni fa, dopo lo stupro di una sua amica da parte di un “uomo di colore”, Liam se ne andava in giro sperando che qualche “uomo di colore” lo provocasse per pestarlo a sangue o magari ucciderlo. Il tutto rientrava nel suo voler spiegare l’istinto di vendetta e di violenza, pur dichiarandosi avverso a questo tipo azioni e stupito da se stesso. Voleva, secondo la sua spiegazione, parlare del senso di rabbia e di vendetta che può provare un uomo tranquillo, come lui si ritiene.

Shock. Sgomento. Delirio.
Liam Neeson è stato accusato non solo d’essere razzista, ma un “suprematista bianco”. Ok. L’argomento è fottutamente delicato e ci sarebbe da discuterne per altri cinquecento anni. Mi sono preso la briga di ascoltare una delle interviste “di riparazione” in cui il nostro non si è affatto tirato indietro, negando ogni ideale razzista ma rimarcando tutti gli istinti violenti che aveva avuto. Il discorso avrebbe richiesto una presa di coscienza più matura sulla violenza, piuttosto che solo sul razzismo, perché se da un lato siamo tutti pronti a metterci in fila per i film di vendetta ci scandalizziamo a sentir parlare dell’autentica voglia di ammazzare qualcuno nel mondo reale. Ma il concetto alla base della vendetta sta proprio nel non guardare in faccia nessuno nel momento della rivalsa, punire senz’altro scopo che restituire la sofferenza patita. Ed è un peccato che nella polemica si siano ignorate le sottigliezze della sceneggiatura, con una leggera ma apprezzabile critica sociale e riflessione sullo scontro etnico tra gli americani a stelle e strisce e i nativi.

“Te l’avevo detto di non darmi del razzista. Madornale errore.”
“In ordine di sparizione”, l’originale scandinavo, poteva contare su uno Stellan Skarsgård compassatissimo, un uomo anziano e sovrappeso (l’opposto del più arzillo alter ego americano), che non sembra provare nemmeno gusto nella vendetta.
“Un uomo tranquillo – Cold pursuit” invece ci viene venduto come l’ennesima storia su Liam Neeson giustiziere implacabile. In entrambi i casi non è un one-man-show sul vendicatore, è un film corale di padri e figli, di mariti e mogli, di fratelli e amici come tessere di un domino: cade la prima e vengono giù tutte. La spartizione territoriale fra le bande criminali, nella versione americana si tinge dello scontro storico tra yankee e nativi, e c’è un tasso di humour nero più alto. Dopo i primi due o tre morti ammazzati, con lo schermo che si fa nero a mò di lapide, la cosa assume un tono grottesco e a suo modo divertente. Il boss interpretato da Tom Bateman è un po’ il Kylo Ren della situazione, un po’ supercattivo e un po’ fighetta isterica dallo sguardo spiritato, sempre sull’orlo di una crisi di nervi e circondato da truppe imperiali incapaci.
Contrariamente ai soliti revenge-movie, quella del vendicatore non è una risalita lineare fino al boss, ma si ritrova invischiato nella valanga di eventi e morti che ha scatenato. Così l’uomo tranquillo torna nell’ombra e sale in cattedra il boss Tom “Toro Bianco” Jackson con la sua banda d’indiani (Bruno Ganz e i suoi serbi-albanesi nella versione scandinava). L’attenzione che si sposta da un personaggio all’altro amplia il respiro della storia. Perciò la regia di Moland mi è piaciuta tanto nell’originale quanto nel remake, dove poteva cedere alla tentazione di puntare tutto su Neeson, invece ha fatto l’esatto contrario, esplorando quell’aspetto che nel primo film aveva solo abbozzato (lo scontro fra bande di diversa etnia).
Toro Bianco vuole neve rossa.
La sparatoria finale è buona, niente di eclatante ma non lesina schizzi di sangue. Stupisce che il tasso di gore sia cresciuto nella versione americana, che nel finale dà anche più soddisfazioni.
Oh, poi ve lo dico, è un filmetto tutt’altro che epocale, niente che non abbiate già visto in mille salse. È di quelli che si guardano per vedere un po’ di morti ammazzati, se vi piacciono fiumi di sangue e pallottole come al sottoscritto. Solo che tra una piccolezza e l’altra, con tanti personaggi cui si cerca di dare un’identità, siamo lontani dai soliti revenge-movie e remake che la buttano in caciara o ammorbidiscono la messa in opera per risultare più commerciali. Siamo quasi dalle parti di certe pellicole Made in Hong Kong (negherò d’averlo mai detto, anche sotto tortura), e non voglio scomodare un certo Johnnie To dall’olimpo dei film di questo genere, ma è bello godersi un po’ di sana violenza con un buon intreccio e un sottile humour nero.
P.S.
Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film!
Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.
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