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He got game (1998): Black Jesus

18 giugno 2013, American Airlines Arena di Miami, Florida. Gara 6 delle Finali NBA tra i Miami Heat e i San Antonio Spurs, i Texani sono in vantaggio 3-2 nella serie e avanti 95-92 nel punteggio, mancano solo 13 secondi alla fine dei regolamentari. L’avvocato Federico Buffa fa la predizione, una delle tante azzeccate nella sua carriera di commentatore: «Allen è in campo e, secondo me, prima poi anche Allen dovrà entrare in questa serata».

Il tiro da tre lo prende, ovviamente, LeBron James per provare a pareggiare e mandare tutto ai supplementari, ma sbaglia. Il rimbalzo in attacco lo prende Chris Bosh che nobilita con un solo gesto tutti gli anni passati con la maglia degli Heat. Cosa fai quando hai recuperato la palla più importante della tua carriera? A risolvergli il rebus ci pensa uno che aveva già capito tutto, portandosi in angolo, Allen s’iscrive alla serata. Riceve palla, raccoglie il corpo, posiziona i piedi dietro l’arco in equilibrio tra di loro e con le spalle, fa partire il tiro, canestro. A 0,8 decimi di secondi dalla fine della partita, Flavio Tranquillo tuona «Tiro impossibile, nessuno può segnare questo tiro se non si chiama Ray Allen», mentre a Miami molti invocano Allen, qualcuno lo chiama Jesus, tanti, invece, urlano: He got game. Che è il soprannome di Allen, un grande film e il miglior riassunto possibile sul più grande tiratore da tre punti della storia della NBA, 2973 canestri da 3 punti realizzati in 18 anni di carriera. Ma questo è il più bello di tutti.

Meccanica di tiro impeccabile e senso del dramma cinematografico (Mario Chalmers nell’angolo già esulta perché anche lui ha visto tante volte “He got game”)

Ray Allen è nato con un lieve disturbo ossessivo-compulsivo e un talento coltivato in anni di routine ferrea e durissimo lavoro, il primo ad arrivare al palazzetto un’ora prima della partita per tirare da tutti i lati del campo. Sempre allo stesso modo, corpo raccolto, piedi bene al loro posto, saltare sempre alla stessa altezza, rilascio del pallone, sempre identico. Nelle arti marziali si chiama Kata, i profani lo chiamano “Metti la cera, togli la cera”, stessa cosa, perfezione ottenuta grazie alla ripetizione. Personaggio schivo Allen, niente tatuaggi ed ostentazione, mai una parola fuori posto, ha annunciato il ritiro con una (bellissima) lettera indirizzata al giovane sé stesso io cui diceva, lavora duro ragazzo. Unica concessione alla mondanità, se così possiamo chiamarla, per uno così? L’estate del 1997 si è preso del tempo per recitare in un film che è solo uno dei più belli che siano stati mai fatti sulla pallacanestro e tutta la vita che le gira attorno, perché se uno così fa qualcosa, o la fa bene o non la fa proprio. Fa’ la cosa giusta Ray.

Spike Lee ha sempre frequentato i campi della NBA, al Madison Square Garden è una minaccia a bordo campo, vestito in modo improbabile e con la lingua sempre in movimento, per il suo film sul basket che ha scritto di suo pungo ed è pronto a dirigere, vorrebbe un vero giocatore NBA, uno che sappia davvero giocare “He got game”, appunto. Un principio (Sly) Stalloniano per cui un atleta può recitare una parte drammatica e sarà sicuramente più credibile di un attore che finge di padroneggiare una disciplina che ha imparato due settimane prima del primo giorno sul set.

«Come si chiama quello che devo marcare? Denzel? Lo prendo io quello»

Il primo candidato di Spike Lee è un giovanotto che gioca ai Lakers di nome Kobe Bryant, potreste averne sentito parlare come di uno dei più grandi giocatori di questa cosetta con la palla a spicchi, ma il futuro “Black Mamba” rinuncia idealmente a farsi chiamare “He got game” per il resto della carriera, perché preferisce allenarsi tutta l’estate ancora furente dopo la sconfitta rifilata dagli Utah Jazz nei playoffs ai suoi Lakers. Per la nuda cronaca: in finale i Jazz quattro scoppole a due contro i Chicago Bulls di Michael Jordan. Ciao ciao, tornate pure al vostro lago salato.

La seconda scelta di Lee è proprio Ray Allen, lui i Playoffs non li ha giocati perché è l’unico talento dei disastrati Milwaukee Bucks, quindi decide di passare 23 giorni sul set diretto da Spike Lee e se vi state chiedendo come si chiama quel giovane e consumato attore drammatico, così bravo ad interpretare il tormentato Jesus Shuttlesworth e con quel rilascio del pallone poetico, ora lo sapete.

Cosa da non fare nella vita se andate di fretta: Chiedere ad un cinefilo di parlare di cinema e ad un giocatore di basket di parlare di pallacanestro.

La prima volta che ho visto “He got game” avevo 15 anni, era il 1998 nel pieno della mia passione/ossessione per Michael Jordan, di sicuro avevo già visto dei film di Spike Lee che per me non era solo il tizio citato nella sigla di “Willy il principe di Bel-Air”, mi faccio bastare il nome del regista e il fatto che sia un film sul basket per comprare la VHS (sì, sono un vecchio di merda, ok?) che ho ancora a casa nella collezione. Sulla locandina si vede solo il faccione di Denzel Washington che era già uno dei miei attori preferiti e anche l’unico modo per vendere qualche copia nel film in uno strambo Paese a forma di scarpa, perché, andiamo, chisselo incula (tipica espressione di Brooklyn) il basket qui da noi. La VHS la consumo, vedendola e rivedendola anche con il mio compare di allora, affetto anche lui da “The Disease” come direbbe l’avvocato Buffa, passione bruciante per la pallacanestro, lo ammetto, la presenza di Milla Jovovich e della Universitarie della Tech University sono un incentivo extra.

Visto incentivi peggiori in vita mia.

Ancora oggi, vent’anni dopo come in un romanzo di Dumas (vi ho già detto che sono un vecchio di merda?) è uno dei miei film di Spike Lee preferiti ed ogni volta che lo dico mi risuona in testa la sigla di “Willy il principe di Bel-Air”. A vederlo è forse il film più commerciale del regista di Brooklyn, il classico titolo che puoi consigliare a chi non ha mai visto un suo film, ma non a chi ama la pallacanestro, perché tanto sicuramente lo conosce già e, siccome ormai è chiaro che mi sono calato nel ruolo del “Vecchio di merda”, posso anche ripetere le stesse cose mille volte, tipo che i cinque minuti di un film ne determinano tutto l’andamento e quelli di “He got game” sono oro.

I titoli di testa del film sono meravigliosi per due ragioni: la prima è che sono la presa di posizione di Spike Lee, fin dal minuto uno del film, “John Henry” nella versione del compositore Aaron Copland, suonato dalla London Symphony Orchestra. John Henry, l’eroe afroamericano della tradizione folk, uomo enorme capace d’inchiodare le assi dei binari velocissimo colpendo i picchetti con il suo enorme martello, la leggenda narra che sia morto vincendo una sfida contro una macchina costruita per lo stesso scopo, beccati questo Skynet! L’eroe nero sfruttato che dai bianchi per la sua forza, Spike Lee non le manda a dire. Secondo motivo per cui i titoli di testa sono meravigliosi? Perché nessuno aveva diretto così bene la mia principale occupazione nell’anno 1998, giocare a basket sempre, ovunque, anche quando eri senza canestro.

Un’adolescenza riassunta nei titoli di testa.

Ma l’inizio effettivo del film è ancora migliore: padre e figlio intenti a giocare a basket, due tecniche di tiro diverse e due campi diversissimi. Papà si chiama Jake Shuttlesworth, lo interpreta Denzel Washington con la pettinatura afro e una tecnica di tiro vecchia scuola, caricando il tiro da sopra la testa come faceva all’High School, prima di dire al suo Coach di allora «Io vado in California», «UCLA?», «No no, Hollywood, a fare i film voglio fare l’attore» (storia vera). Il campo è ben recintato, è quello della prigione di Attica dove papà Jake è ospite da tempo, ma con una carta da giocarsi, il governatore ha saputo del talento di suo figlio Jesus Shuttlesworth (Ray Allen), se per caso il ragazzo firmasse per la amata Alma Matter, ovvero Big State University, papà Jake potrebbe avere in cambio un sostanzioso sconto di pena, una mano lava l’altra e tutte e due fregano l’asciugamano.

«Cosa fa quello? Gioca nella NBA? Ha vinto l’anello, ma l’ha mai vinto un Oscar?»

Peccato che il giovane attore drammatico consumato come se recitasse il suo film numero cento, che sul suo (recitato, ma con porte aperte) campetto di casa, non sbaglia un tiro da tre nemmeno se gli sparano, non è molto contento di rivedere nuovamente papà libero di girare, anche se con una vistosa cavigliera sopra le Air Jordan 13 appena comprate dal commesso nel negozio di scarpe («È per l’artrite» , «Sì, mio fratello soffre della stessa artrite, ma alla caviglia sinistra, è una cosa che gira a Coney Island»). Tra di loro il rapporto è sempre stato conflittuale, Jake predicava bene sul campo e razzolava malissimo nella vita, mamma è andata e Spike Lee grazie ad alcuni cinerei flashback sempre più apocalittici ci mostra poco a poco come Jesus sia rimasto da solo con l’adorabile zio Bubba (Bill Nunn) che ora gradirebbe riavere indietro un po’ dei piccioli spesi per nutrire e mandare a scuola il ragazzo e sua sorella minore Martha (Lonette McKee) alla quale Jesus ha fatto da padre, mentre Jake era impegnato dietro le sbarre e a questo aggiungiamoci quel cazzo di nome, “Perché mi hai chiamato Gesù, quando mamma mi chiamava a casa per la cena tutti pensavano fosse una fanatica religiosa, Gesù! Gesù!” Meglio che mi fermo o vi recito tutti i dialoghi.

Penso che siano ancora il più bel modello di Air Jordan mai fatte.

Sì, perché “Gesù” Shuttlesworth è il secondo avvento cestistico, nello speciale di ESPN a lui dedicato, tutti, ma proprio tutti i più grandi si lanciano in odi sperticate sul suo talento, parlo di giocatori come Reggie Miller, “Sir” Charles Barkley e allenatori come Rick Pitino e George Karl, l’unico che si limita ad esibirsi in un morigerato «Ha talento» è Michael Jordan, in un cameo di un secondo che scatenava i cinque alti tra me e il mio compare di allora, bastava anche un secondo di MJ a mandarci in brodo di giuggiole.

Il basket è, ovviamente, centrale in “He got game”, Spike Lee ha dichiarato di aver voluto evidenziare l’aspetto poetico del gioco, la bellezza dei movimenti, come se tutto fosse un grande balletto, una danza che si gioca con i gomiti e con il sudore aggiungo io. Ed è proprio così che Lee ci mostra la pallacanestro: ipnotica, bellissima, liberatoria, come se per i personaggi fosse l’unica valvola di sfogo dalla loro prigione che sia fisica o quella delle responsabilità. L’unico problema per Spike Lee è stato gestire i ragazzi, pare che nella scena della partita notturna, continuasse a sbraitare a tutti «Oh ragà! Ogni tanto un tiro, andate ad appoggiarla, non fate solo schiacciate, questo non è il remake di Above the rim!» (storia vera), l’altro film cestistico piuttosto famoso del 1994 con Tupac Shakur nel cast.

Poesia in movimento, la palla che rimbalza e le scarpe che fanno “Gnic Gnac” sono la colonna sonora.

Ma oltre all’omaggio al gioco più bello del mondo, Spike Lee non rinuncia certo alla sua presa di posizione, come sempre con il suo approccio incazzato, “He got game” mostra alla perfezione la pressione che i giovani talenti devono subire («La decisione più importante della tua vita» frase ripetuta mille volte anche dal mitico coach Dean Smith), Lee mette in chiaro che molti di loro arrivano da situazioni familiari disastrate e cadere nella tentazione, consigliati da qualche “Cattivo maestro” è ancora più semplice, se le tentazioni sono auto sportive, soldi facili, la tentazione di fare come Stephon Marbury il primo talento di Coney Island a saltare il college ed andare direttamente nella NBA (infatti dopo una carriera troppo breve è finito a giocare in Cina) e, magari, le signorine della Tech University, posticino che può vantare anche un “Virgilio” d’eccezione come Rick Fox (Uno che ha sempre gradito recitare oltre che giocare a basket), ma anche un allenatore molto (ma tanto!) sopra le righe interpretato da John Turturro, in una scena che mi fa molto ridere, perché ogni volta che la vedo penso che insieme sullo schermo ci sono Jesus Shuttlesworth e Jesus Quintana!

«Lo hai detto hermano. No se escherza con Jesus!» (e qui ne abbiamo due)

D’altra parte due pellicole hanno raccontato al meglio i sogni di gloria delle aspiranti stelle della NBA, una è il fondamentale documentario “Hoop Dream” (1994) e l’altra proprio “He got game” perché per Spike Lee, appena lo sport si sposta dai playground, diventa una macchina per fare soldi pronta a stritolare e sfruttare i ragazzi di colore per il loro talento e la loro prestanza finisca, “Rage against the machine” se mi passate il paragone ardito, né più né meno del giù citato John Henry che sfidava la macchina e moriva nel farlo, ma qui, invece di un grosso martello, si usa una palla da basket, anche se il sudore e la fatica sono gli stessi.

Fun Fact: Hill Harper interpreta l’adolescente Booger amico di Jesus, ma quando ha girato il film aveva 32 anni (storia vera)

Infatti, in questo senso, l’unica sottotrama efficace, ma che a tratti potrebbe quasi essere accessoria rispetto alla storia, è quella della “Prostituta dal cuore d’oro” (ruolo ingrato che prima o poi tocca a tutte le attrici ad Hollywood, il corrispettivo maschile non esiste, se non forse in “S.O.S. summer of Sam” sempre di Spike Lee) Milla Jovovich. Personaggio che è riuscito a far incazzare tutte le “Sorelle” nere ai tempi, perché nel 1998 l’unico afroamericano più sexy di quello con il 23 che giocava nei Chicago Bulls, era proprio Denzel Washington e diciamo che il pubblico femminile non ha gradito vederlo impegnato con una che è bianca come la neve a Natale (storia vera).

Con il suo solito piglio di uno che non te le manda certo a dire, Spike Lee utilizza tutto quello che ha per far arrivare forte e chiaro il suo messaggio, principalmente musica e cinema, partiamo dalla prima. L’idea di abbinare le maestose composizioni di Aaron Copland alla musica arrabbiata dei Public Enemy (già al lavoro con Spike Lee nel 1989 per le musiche di “Fa’ la cosa giusta”) è assolutamente vincente e, anche se Copland ha lasciato questa valle di lacrime, Lee ottiene dagli eredi la possibilità di pescare tra le sue migliori composizioni per il film. Un po’ come fanno i Public Enemy che campionano una delle più belle canzoni di protesta mai scritte “For what it’s worth” dei Buffalo Springfield e la cantano proprio con Stephen Stills, il risultato finale è uno dei miei pezzi preferiti dal 1998 che prende il titolo del film “He got game”.

«Se non fai il bravo scappo con Luke Cage» , «Ma chi quel tappo? Non farmi ridere»

L’altra arma di “Incazzamento di massa” di Spike Lee è, ovviamente, il cinema, bisogna dirlo nel suo mandare messaggi usando la bomboletta spray, il regista di Brooklyn spesso sbraga, ma trovo che “He got game” anche senza mandarle a dire sia uno dei suoi film più eleganti. Amo la telefonata della fidanzata di Jesus (una giovanissima Rosario Dawson) che cerca di convincerlo a firmare per un’università piuttosto che un’altra, mentre Spike Lee ci mostra qualcuno intento ad accarezzare la mano della ragazza (non come farebbe un padre, ecco) quando è al telefono, un gran modo di raccontare per immagini.

“He got game” funziona alla grande perché non può essere apprezzato solo da chi è affetto da “The Disease” (anche se aiuta), si tratta principalmente di un riuscitissimo dramma, una storia di padri e figli che si scoprono più vicini di quello che forse avrebbero anche voluto essere, di opposti, ma uguali nel loro essere solo ingranaggi in un sistema più grande di loro, dove la pallacanestro è l’unico linguaggio comune che entrambi parlano e per cui l’unico, in cui possono comprendersi davvero.

Il campo comune, può essere solo quello da gioco.

Aiuta, poi, avere due ottimi attori drammatici che sanno giocare a pallacanestro (o viceversa, a vederli recitare e giocare non si capisce più il confine tra le due cose), Denzel qui è grandissimo, lo dico tanto ho già sbragato: tra le tante prove di questo grande attore, quella offerta in “He got game” è una delle mie preferite. Il suo Jake Shuttlesworth con il suo parlare costantemente di Michael Jordan («Parli solo di Jordan. Jordan qui Jordan là») mi ha conquistato subito, il resto lo mette Denzel che lo interpreta pentito, ma con orgoglio, una prova dolente prestata ad un personaggio che ha sempre sbagliato l’approccio con i suoi figli e l’unica volta che riesce a parlare al figlio lo fa spiegandogli la ragione (ovviamente cestistica) del suo nome, perché il basket è tutto quello che conosce e proprio grazie al gioco ha fatto l’unica cosa buona da genitore della sua vita: insegnare il gioco (e l’amore per) al figlio. Il suo monologo su Earl Monroe che tra i mille soprannomi aveva anche “Jesus” (convertito poi in “Black Jesus” perché non poteva essere confuso con il Gesù dei bianchi) è un blaterale di pallacanestro che vale come e se non più di un “Ti voglio bene”, che pronunciato da uno così non risulterebbe altrettanto sincero.

Nemmeno la salopette (non si esce vivi dagli anni ’90) intacca la potenza del momento.

Le passioni di Spike Lee, il cinema e la pallacanestro convergono in quel finale lì, che da buon appassionato di cinema degli anni ’70, Lee scippa a “Il grande Santini” (1979) con Robert Duvall nella padre del padre che il regista di Brooklyn porta, però, ad un altro livello, anche di competizione, perché nella sceneggiatura originale, Jake avrebbe dovuto perdere con un quindici a zero a zero secco, ma Denzel Washington come ogni giocatore di basket che si rispetti, non voleva perdere nemmeno per finta, quindi pare che abbia detto a Ray Allen prima di girare una cosa tipo: «Si fotta il copione, non ho nessuna intenzione di renderti la vita facile» (storia vera).

Il modo migliore per risolvere una disputa, anche generazionale.

Ed ecco perché Jake riesce a segnare i primi canestri, prima che Jesus dilaghi e lo asfalti sul campetto senza pietà («Tira fuori quel odio che hai nel cuore o finirai solo come un altro negro, come tuo padre»), qui Spike Lee prolunga la tensione di quel finale, la partita tra le due generazioni di Shuttlesworth è finita, ma il film ha ancora delle cose da dire e qui anche la pallacanestro cede il passo al cinema, perché mentre sentiamo le parole della lettera di Jake al figlio e le musiche di Copland vanno più su delle parabole dei tiri a canestro, il lancio del pallone oltre le mura oltre ad essere un metaforone emozionante è un ideale passaggio di consegne.

Il basket è ancora l’unica lingua comune tra padre e figlio, sul campo il pallone lo passi ad un compagno di cui ti fidi quando è in un punto del campo migliore del tuo, Spike Lee mette su un finale circolare (come la rotazione del pallone in volo) che riprende la prima scena del film per concludere la sua parabola allargando il campo e lasciando spazio libero ai suoi “Players” (come vengono etichettati gli attori, nei titoli di coda di tutti i film di Lee), due che in linea di massima, con la palla in mano sanno cosa farci. CIUFF! Tre punti, uno dei più bei film di Spike Lee (e sul basket) è appena andato a segno.

«Da qui si sente solo il rumore della retina»

«Questo Monroe gioca con delle variazioni di tempo che avrebbe potuto comprendere Thelonious Monk» (Nelson George)
«Monk era il titolare del miglior paio di mani mai poste da umano su un pianoforte. Nelson George è stato uno dei più grandi critici musicali d’America, anche lui scosso e commosso da Earl Monroe, che è stato e sempre sarà The Black Jesus» (Dall’introduzione di “Black Jesus – The anthology” di Federico Buffa)

Sepolto in precedenza martedì 30 ottobre 2018

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