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Heat – La sfida (1995): il crime movie losangelino definitivo

La preparazione, l’etica del lavoro e la disciplina, non ottieni un grande risultato senza uno di questi tre fattori chiave, ne parliamo oggi nel nuovo capitolo della rubrica… Macho Mann!

Cosa fa un regista quando ha raggiunto la notorietà e il successo al botteghino? Lo abbiamo visto tante volte anche nelle monografie dedicate ai registi qui alla Bara: fa il film della vita, quello che sognava di dirigere da anni. Michael Mann anche in questo caso ha saputo distinguersi, perché lui la storia della vita l’aveva già diretta, una versione in piccolo, una prova per la televisione intitolata Sei solo, agente Vincent, ma è stato solo dopo il successo di L’ultimo dei Mohicani che Mann ha potuto raccontare quella storia come desiderava fare davvero, perché per il regista di Chicago la televisione è la palestra, la preparazione prima del colpo, il cinema è la rapina vera e propria, dove si fa sul serio e mai come questa volta Mann ha fatto veramente sul serio, tanto che per parlare decentemente di “Heat”, non basta il già esaustivo post di Quinto Moro, bisogna essere in due come Vincent e Neil.

Come abbiamo visto Sei solo, agente Vincent per essere un film per la televisione, sfoggiava già buona parte dell’ossessione e la cura maniacale dei dettagli di Mann, tanto che dieci giorni vennero dedicati alla pre produzione del film, permettendo agli attori di calarsi nei rispettivi ruoli affiancandoli a veri poliziotti o criminali, per diciannove giorni di riprese. Per “Heat” mantenete la stessa proporzione, infatti la pre produzione del film durò cinque mesi e le riprese quattro mesi e mezzo, un tempismo al decimo di secondo per far uscire il film nelle sale americane entro la data prevista del 5 dicembre 1995 (da noi 9 febbraio 1996).

«Statemi a sentire bene, l’ho già girata questa scena, ma voi mi sembrate attori un pelo più bravi, quindi concentrati altrimenti niente dolce»

Un azzardo se pensiamo che Mann arrivava da La Fortezza e Manhunter, due film che di certo non erano stati dei successi, ma grazie a L’ultimo dei Mohicani il regista di Chicago poteva prendere il meglio per la storia lui stesso sapeva, ancora oggi rappresenta al meglio la sua idea di cinema, quindi se per la sua ultima fatica ha piegato lo star system alla sua volontà arruolando Daniel-Day Lewis, il passo successivo non poteva che mettere insieme nello stesso film i due nomi più grossi sul mercato: Al Pacino e Robert De Niro al massimo del loro talento, per la prima volta nello stesso film dopo Il padrino – Parte II, ma questa volta a recitare per davvero insieme, anzi uno contro l’altro come sottolineato dall’inutile (e nemmeno così preciso) sottotitolo italiano che si concentra proprio sulla “sfida” tra i due T-Rex più grossi di Hollywood, ignorando “Heat”, la calura, espressione storicamente associata alla “Madama” e ai polizieschi.

Per dirigere la bella copia su grande schermo del film della sua vita, Mann ha mollato una biopic su James Dean a cui stava lavorando e si è concentrato in pieno sulla storia, riscrivendone diverse parti e chiedendo alla sua responsabile Janice Polley di scovare parti della città di Los Angeles che non si erano mai viste al cinema ed è qui che “Heat” inizia a delineare una delle ragioni della sua superiorità rispetto alla concorrenza: Mann pur imparando la lezione di altri grandi registi, la assimila, la fa sua e poi la dimentica, “Heat” più che rifarsi a dinamiche e situazione tipiche della settima arte, pesca dalla realtà, dai criminali e dai poliziotti che il regista ha frequentato per preparare i suoi film precedenti, come ad esempio l’agente Tom Elfmont, con il quale Mann ha pattugliato le strade per settimane lavorando spalla a spalla, tanto che Elfmont finì per affidargli una pistola come un vero partner (storia vera).

Credetemi, sa di che parla, non fa solo finta.

Questo tipo di realismo doveva essere garantito da entrambe le parti della barricata, quindi per portare realismo anche nella caratterizzazione dei criminali, Mann afferrò la rubrica e chiamò un vecchio consulente, conosciuto nel carcere di Folsom dov’era detenuto quando Mann girò La corsa di JerichoEdward Bunker oltre ad essere uno dei miei scrittori preferiti (storia vera), aveva visto il suo romanzo “Come una bestia feroce” adattato proprio da Mann per il grande schermo (“Vigilato speciale” 1978 con Dustin Hoffman), una copia del romanzo venne consegnata alla metà del cast impegnata nel ruolo dei criminali, per calarsi nella mentalità di chi in prigione non ci vuole tornare, anzi Nate, il personaggio interpretato da Jon Voight è stato riscritto interamente da Mann ispirandosi proprio al vecchio Ed Bunker, un piccolo cortocircuito cinematografico se vogliamo, visto che attore e scrittore erano entrambi nel cast del film A 30 secondi dalla fine.

«Che roba è?», «Lo ha scritto un tale di nome Bunker, ti piacerà sembra parli di te»

Quella faccia da schiaffi di Tom Sizemore, per calarsi al meglio nei panni di Michael Cheritto venne affiancato a diversi ex criminali, Ashley Judd e Natalie Portman (arrivata dritta dal set di Lèon) ebbero modo di parlare con le mogli di alcuni veri rapinatori o con le figlie di poliziotti per assimilare la loro mentalità, in un film così fortemente maschile, i personaggi femminili sono fondamentali, perché non solo rappresentano la speranza per un futuro migliore per i protagonisti, ma spesso subiscono e sono vittime dei loro uomini e delle loro scelte di vita, quando il Neil McCauley di De Niro dice che se vuoi fare il lavoro del rapinatore non devi avere affetti o fare entrare nella tua vita niente da cui non possa sganciarti in trenta secondi netti se senti puzza di sbirri dietro l’angolo, vuol dire che per rispettare questa disciplina, da qualche parte nel mondo una donna soffrirà per la tua scelta, tutto questo dipinge l’arazzo di un film che è al 100% di genere, ma allo stesso tempo un dramma umano in cui il microcosmo dei personaggi è tratteggiato in modo realistico e completo, tanto che è quasi impossibile parlare di personaggi di contorno.

“Heat” non è uno di quei film corali in stile Robert Altman, la casualità ha poco spazio (lasciatemi l’icona aperta, più avanti ci torneremo), qui sono i protagonisti che creano il loro mondo, ne determinano le regole e le seguono, costi quel che costi, ancora una volta siamo di fronte ai tipici eroi ed antieroi Manniani, professionisti votati alla loro professione come se fosse una causa, una crociata, in eterna corsa contro il tempo (fatale è infatti per Neill quel «Abbiamo tempo?» che determina la deviazione per chiudere i conti con Waingro), ma soprattutto due facce della stessa medaglia, su fronti opposti ma identici, come Will Graham e Dollarhyde, come Trismegestus e Molasar.

Tempo, è quando pensi di averne in abbondanza che scopri quanto scorre in fretta.

Mann era talmente consapevole di stare dirigendo il suo film della vita che oltre ai migliori attori su piazza (ci sono tutti, da Val Kilmer a William Fichtner, persino il cantante Henry Rollins si ritaglia un ruolo da guardia del corpo), il regista si è portato dietro tutti i suoi pretoriani… In piccoli ruoli compaiono Tom Noonan e Wes Studi, anche se proprio Kilmer è quello che Mann ha fatto filare più di tutti, affiancato dall’ex SAS Andy McNab, pare che alla fine della preproduzione, il divo noto per essere piuttosto bizzoso, era diventato un soldatino nel vero senso della parola, la tecnica un colpo in avanti, uno indietro prima di cambiare il caricatore è tipica dei SAS, intervistato da Robert Rodriguez, Mann con un ghigno soddisfatto racconta di come Vilker sparasse meglio del 95% dei soldati di stanza a Fort Bragg (Storia vera), dove il regista aveva spedito tutti gli attori impegnati a non infilarsi nelle banche, con il compito di annotare orari, numero di telecamere e guardie di sicurezza, come se un colpo lo stessero organizzando per davvero.

Un colpo avanti, uno indietro e poi ricarichi, da Man(n)uale.

Con questo tipo di cura per il dettaglio, le riprese di Mann filarono spedite, considerando il fatto che il regista di Chicago ha deciso di studiare cinema dopo aver visto “2001 odissea nello spazio” (1968), potremmo dire che “Heat” è un po’ come se Kubrick avesse diretto “Rapina a mano armata” (1956) con il piglio autoriale di quando raccontava di monoliti e viaggi nello spazio. Anche se alla sua uscita il film è stato più che altro lodato per la presenza in scena di Pacino e De Niro (vero traino commerciale della pellicola) è chiaro che esista un prima e un dopo l’uscita di “Heat”, quello che ancora oggi è il film di riferimento quando si tratta di rapine al cinema, il perfetto punto di contatto tra autorialità e film di genere, lo può amare chi vuole le sparatorie, ma anche chi frequenta solo sale d’essai, insomma il tipico film che qui alla Bara Volante chiamiamo Classido!

“Heat” resta il crime movie (Los Angelino) definitivo perché strizza fino all’ultima goccia di cinema contenuto all’interno di una trama se vogliamo minimale, da una parte abbiamo la squadra di rapinatori capitanata da quel Samurai di Neil McCauley (Rober De Niro), impegnata in una partita a scacchi con il dipartimento di polizia di Los Angles rappresentato dal tenente Vincent Hanna (Al Pacino). Tanto risulta metodico e dedito alla sua disciplina De Niro, quanto Pacino è sopra le righe, sempre proprio grazie a reazioni esplosive, come se il primo trattenesse dentro la belva e come se facesse fatica a domarla l’altro.

A ben guardare, alla “sfida” che tanto attizzava i titolisti italiani, si potrebbe affiancare una seconda sottotrama, quella relativa alle azioni rubate che permette a Di Niro di giocarsi la “frase maschia” sul parlare da solo al telefono, perché dall’altra parte della linea ci sta un uomo morto, ma quello che interessa a Mann è prima di tutto il dramma umano, ecco perché la rapina, anzi LA RAPINA, quella che per qualunque altro regista sarebbe un’ottima ragione per vendere l’anima al diavolo pur di averla come scena madre nel proprio film, per Mann arriva all’inizio, ma solo dopo aver presentato tutti i personaggi e le rispettive donne, avete presente la regola dei cinque minuti iniziali di un film? Quelli che ne determinano tutto l’andamento? Mann ci regala la versione definitiva espansa, un po’ come “Heat” è il crime movie losangelino definitivo. Inoltre, mettiamola così, i film ambientati nella città degli angeli non sono proprio pochi (e fanno categoria a parte), quindi questo resta un primato notevole.

«Ma il giorno della rapina non era Venerdì 13? Mi sono conciato così per niente!?»

Per essere un film dove il pubblico bramava vedere la sfida tra Pacino e De Niro, Michele Uommo sfoggia un tale controllo sulla storia tanto da giocare con quell’attesa, centellinandola, non come farebbe qualunque altro regista per tenere sulla corda il pubblico pagante, ma consapevole di avere un dramma corale da raccontare ben più avvincente della “sfida” tanto strombazzata nel titolo italiano. Ecco perché “Heat” dura 170 minuti e pare durare meno della metà, ogni elemento è talmente curato e cesellato da risultare fondamentale, parafrasando il paragone fatto da Stephen King con Martin Scorsese (che nello stesso anno usciva con un film di pari forza come “Casinò”): molti registi scrivono racconti, Michael Mann dirige romanzi.

Sono sicuro che se uscisse in sala oggi questo film, qualche “tuttologo” del Web avrebbe la faccia tosta di considerare il cambio basket tra il cuoco della tavola calda e Danny Trejo (nella parte di un personaggio di nome… Trejo, puro Mann!) come un “buco di sceneggiaturaaaaaaaa!”, ma visto che vi ero debitore di un’icona da chiudere lo faccio subito. Sempre citando King, i grandi sceneggiatori le coincidenze devono dimenticarsele, le coincidenze possono avvenire nella vita reale, mai in una storia scritta perché il pubblico finirà per percepirle come bassi trucchetti di scrittura, “Heat” è un film tanto incredibile da smarcarsi anche da questo Dogma della scrittura. Nel cinema antropocentrico di Michele Uommo, sono i personaggi a creare il loro mondo, quindi se serve un nuovo componente della banda, la preparazione di Neil è talmente meticolosa che è il mondo stesso a piegarsi ai suoi bisogni, fornendogli un ex galeotto esperto proprio dietro ai fornelli del locale dove sta pranzando e la trama funziona perché Mann ci racconta tutto di quel personaggio (a sua volta impegnato a cercare di plasmare con fatica il suo mondo), parlo di questo quando dico che non esistono personaggi secondari in “Heat”, ognuno ha lo stesso peso ed importanza degli altri, anche se nella fattoria degli animali di Mann, due sono più importanti degli altri.

«Facciamo a chi sbatte le palpebre per primo?»

Al regista di Chicago non interessa lanciare una forza inarrestabile come Al Pacino, contro un oggetto inamovibile come De Niro, o meglio il punto di arrivo sarà quello, lo sappiamo tutti anche prima di iniziare a guardare il film, per prima cosa a Mann interessa mettere in chiaro che i due protagonisti sono due facce della stessa medaglia, infatti il loro primo faccia a faccia avviene a distanza. Con un gran colpo di genio Mann ci mostra Vincent impegnato a guardare il suo avversario durante un sopralluogo attraverso le telecamere di sicurezza, grazie alla fotografia di Dante Spinotti (una statua a quest’uomo sarebbe quanto mai gradita) i due personaggi si “guardano” per la prima volta attraverso uno schermo, dove sono rappresentati come uno il negativo dell’altro, letteralmente visto che l’immagine sullo schermo è quasi completamente nera. Un momento intensissimo, tra due personaggi che s’inseguono e continuano a guardarsi a distanza (perché lo sguardo nel cinema di Mann è tutto, Dolarhyde guardava i filmati delle sue vittime, i Mohicani a fine film guardavano dall’alto un Paese che stava per lasciarli indietro e così via), tanto che quando poi il vero faccia a faccia tra i due sfidanti arriva, accade quasi in modo anti climatico.

Come abbiamo visto parlando di Sei solo, Agente Vincent, l’incontro alla tavola calda tra poliziotto e criminale a cui dava la caccia è stato ispirato a Mann da fatti realmente accaduti, ma la differenza di potenziale tra questa scena e quella gemella di L.A. Takedown è indefinibile: Pacino e De Niro, i due eterni contendente nei cuori del pubblico per il ruolo di più grande attore vivente, opposti in tutto in questo film (ruolo, stile di recitazione, anche i colori scelti da Mann per i rispettivi abiti), si confrontando per riconoscersi uguali, nessuno dei due mollerà, ma in questo duello c’è del rispetto e mai in Occidente, nessuno ha saputo raccontare i temi cari all’Heroic bloodshed di Hong Kong meglio di come ha fatto Michael Mann in questo film.

La “frase maschia” del vecchio Bob, ovvero: come ho imparato a rispondere al call center fastidiosi.

Lo scontro tra queste due forze opposte è inevitabile, ecco perché la sparatoria in strada è una danza di sangue e guardandola viene voglia di gettarsi a terra non solo per invocare gli dei del cinema, ma anche per non essere colpito da qualche pallottola vagante… Fateci caso è una sequenza talmente realistica che quando Val Kilmer idealmente guarda in camera sorridendo, consapevole che ci sono gli sbirri ad attenderli ed ora si farà sul serio, la musica termina di colpo sul ghigno di Kilmer e cominciano sei minuti di spari, i più realistici mai visti al cinema, senza più la coperta calda della colonna sonora, il realismo e il metodo che Mann segue con religioso rigore (al pari di Neil) applicato al grande cinema di genere.

Questo è il secondo post che dedichiamo a Heat qui sulla Bara Volante e penso che potremmo scriverne altri due senza troppe difficoltà tanti sono i dettagli da analizzare in questo capolavoro, quello che ci tengo a sottolineare è il modo in cui Mann abbia prima portato l’estremo realismo al cinema, applicandolo a quello di genere per fargli fare un salto di qualità innegabile, ma poi abbia sfruttato ogni fotogramma del film per imprimere a “Heat” un’aura di finzione cinematografica che rende questa storia così realistica, quasi sospesa nel tempo. Il buio dietro al balcone dove Neil dà primo bacio alla sua donna è di un nero mai così profondo (per quella statua a Spinotti quanto dobbiamo aspettare?), la città di Los Angeles sullo sfondo è talmente protagonista da non restare sullo sfondo, persino la scelta degli ambienti o dell’arredo serve a raccontare delle solitudini dei protagonisti, qui alla Bara Volante mi piace trattare i film di genere con lo stesso rispetto che di norma, i cinefili colti con la pipa e gli occhiali decidano solo ai film “alti”, con “Heat” il mio lavoro è molto più semplice perché è lo stesso approccio di Mann ed è sotto gli occhi di tutti.

Friedkin preferiva Magritte, Michele Uommo invece sceglie Colville.

Michele Uommo riempie di arte il suo muscolare film di rapine, il dipinto “Pacific” di Alex Colville, del 1967 è come il fotogramma di un film, una scena statica che racconta una storia, quella pistola, l’oceano sullo sfondo, Michael Mann prende i suoi personaggi e li immerge nel dipinto di Colville, non è un caso se una delle immagini più iconiche (di questo film pieno di momenti che hanno segnato la storia recente del cinema) sia proprio la versione Mann di “Pacific”, dipinto in rigoroso “Blu Manniano”, solitudini maschili e tormenti interiori che solo il mare può tentare di lenire, fuga anche contro il tempo) dalla giungla di cemento Losangelina che stringe nella sua morsa i protagonisti.

Arte a confronto, con tocchi di “Blu Manniano”.

Il finale all’aeroporto è pura arte, poetico come morire per mano dell’unica persona sulla Terra che ti capisce per davvero, ma anche poetico perché la perfetta conclusione di una cavalcata da 170 minuti che ha cambiato il cinema e l’immaginari collettivo per sempre.

“Heat” non ha distrutto i botteghini come si potrebbe immaginare dal suo notevole lascito, le emozioni dei film di Mann sono, come dico sempre, fuoco sotto la cenere e il suo cinema arde allo stesso modo, ecco perché ancora oggi tanti (troppi) lo considerano erroneamente un regista freddo e tutta estetica, qui è lo stile a creare la sostanza e da quella sostanza tanti hanno pescato a piene mani. La serie tv “Bosh” a partire dalla sigla prova a cavalcare le atmosfere di “Heat”, così come la seconda stagione di True Detective, un tale fin troppo idolatrato ha provato a fare il Michael Mann in una scena di tre minuti e mezzo mondo è pronto ad intestargli tutti i suoi averi, mentre Mann per aver fatto se stesso al suo meglio viene ancora dato quasi per scontato, ma senza “Heat” non avremmo avuto che ne so, “Ronin” (1998), a cui anche un Maestro come Frankenheimer si è palesemente ispirato. Capita che un regista una volta raggiunta la vetta diriga il film della vita, qualche volta il risultato è splendido, ma nessuno e intendo dire proprio nessuno, si è presentato a questa prova fatale con più preparazione, cura e meticolosità di Michael Mann quando ha diretto “Heat”, nessuno ci ha fatto avvertire il “calore” che si portava dentro da sempre più di lui con questo film. Ecco perché Michael Mann merita di sedere allo stesso tavolo dei grandi come Walter Hill (a cui la regia era anche stata proposta), Sam PeckinpahWilliam Friedkin per rubare il fuoco agli dei del cinema, l’unico modo è con una rapina sul grande schermo.

Tre ore per arrivare qui, non un solo minuto sprecato.

Prossima settimana, invece, andiamo a fondo di un’altra grande storia piena di eroi Manniani… Avete da fumare? (cit.)

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