Febbraio 1995.
Ho dodici anni e sono impegnato in una delle mie attività scalda cuore preferite: andare in edicola.
Da uno degli espositori mi attira come una calamita la copertina verde metallizzata di “Devil & Hulk 11”. A fare da magnete il personaggio che già conoscevo, il gigante di giada del telefilm con Lou Ferrigno e Bill Bixby, inutile dirlo, amore a prima vista.
Non so nemmeno quante volte ho riletto quel fumetto, impazzisco per i dialoghi di Peter David, per le matite di Dale Keown e per quel comprimario rosso vestito con le corna, un’associazione tra personaggi quasi agli antipodi (anche per colori), accorpati per assecondare l’allora italica politica di farci leggere fumetti belli corposi e pieni di pagine. Per anni tanti lettori di “Devil & Hulk” lamentavano di doversi puppare l’altro per leggere le storie del proprio beniamino, io che li ho sempre considerati i miei due eroi Marvel preferiti, ci campavo su quel fumetto, che continuo al leggere ancora oggi, malgrado la “separazione delle carriere” (e delle testate). Infatti in onore alla vecchia “Devil & Hulk” ho deciso di affrontare i compleanni degli esordi al cinema dei miei due prediletti (si sto usando il plurale, perché sono un uomo senza paura, fatemi gli auguri) proprio così, il rosso e il verde. Iniziamo con il secondo, il cui tentativo di sbarcare al cinema è antecedente anche al febbraio del 1995.
Più o meno dal 1990 i produttori Avi Arad e Gale Anne Hurd cercavano di portare il Golia Verde ad Hollywood, ripercorrere la storia della stesura della sceneggiatura fa riemergere traumi che nemmeno in una seduta di analisi tra Doc Samson e Bruce Banner sarebbero mai venuti fuori, Alberto l’ha raccontata benissimo dalle sue parti, quindi vi rimando a lui, quello che vi serve sapere è questo: ogni sceneggiatore coinvolto ha aggiunto un pezzo, se l’ispirazione iniziale era il ciclo di storie degli anni ’80 di Bill Mantlo in cui esordiva il padre di Bruce Banner, con il passare degli anni, vuoi non prendere in considerazione anche il fondamentale ciclo di Peter David?
Quindi via così, Michael France aggiunge elementi, poi arriva John Turman con idee del tipo «E se il cattivo fosse l’uomo assorbente?» e giù tutti a ridere per via del nome del personaggio, potentissimo ma sfigato (soprattutto una settimana al mese), il tutto mentre si alternato i possibili registi, Jonathan Hensleigh, Joe Johnston fino all’entrata in scena di Ang Lee, che fa riscrivere tutto al fidato James Schamus, mentre Turman e France hanno ricorso all’arbitrariato per farsi riconoscere la paternità di un copione che ormai era un pastrocchione tirato dalla giacchetta da tutti i lati. Ecco, Ang Lee, bisogna parlare di lui.
Quando pensi all’innovazione cinematografica e alle nuove tecnologie, non è certo Ang Lee il primo nome che ti viene in mente, piuttosto è automatico pensare a lui per i drammi intimisti o al massimo per aver fatto conoscere il Wuxia anche a porzioni di pubblico che ne hanno sempre ignorato l’esistenza tipo che so, mia madre, con film come “La tigre e il dragone” (2000). Eppure in carriera Ang Lee ha sperimentato con un personaggio verde (su schermo verde e in motion capture) proprio con “Hulk”, si è lanciato negli animali digitali del sottovalutato “Vita di Pi” (2012) e ha giocato con la deep-fake in quel disastro di Gemini Man, quindi parliamo di un regista che non ha nessuna paura nel giocare con tecnologia “sperimentale”, come un “Mad Doctor” che si inietta il siero nelle vene, questo forse spiega perché è stato lo stesso Ang Lee ad infilarsi la tutina, ad appiccicarsi in faccia e sul corpo i sensori MOCAP e a dare lui le movenze al suo nuovo “Destino verde” ovvero Hulk, ma su questo ci torneremo a breve, prima bisogna fare un passo indietro al 2003.
Ve lo ricordate l’MCU nel 2003? No perché nessuno lo chiamava così, era composto essenzialmente da due titoli, dai diritti sparpagliati, tutti supervisionati da Avi Arad, che nel tentativo di dare credibilità ad un genere che nessuno chiamava “cinecomic” si affidava a registi di talento, nomi in grado di portare prestigio anche se associati a quella roba che leggono solo i nerd (che nel 2003 non era un complimento) e bambini come i fumetti di super eroi, insomma siamo in zona per la mia non-rubrica: quando non erano super. Ma anche di un’altra molto amata come… i Bruttissimi di Rete Cassidy!
Ci tengo a sottolinearlo per non creare incomprensioni: “I Bruttissimi di rete Cassidy” non è uno sfottò, ma un omaggio, a tutti quei film bruttini, ma mitici, pellicole che a loro modo hanno fatto la storia facendo un lungo percorso, come quello dei “cinecomic” contemporanei.
Bryan Singer sceglieva un approccio serio senza costumi sgargianti per i suoi Uomini-Pareggio, mentre Sam Raimi piegava il cinema al fumetto, e non viceversa come hanno fatto in troppi dopo di lui con il suo Spider-Man. Due enormi successi, a cui andava ad aggiungersi “Hulk” di Ang Lee, cioè Ang Lee! Quello di “Ragione e sentimento” (1995), “Tempesta di ghiaccio” (1997), “Cavalcando col diavolo” (1999) e “La tigre e il dragone” (2000), in pratica quello che faceva i film per mia madre, alle prese con uno dei miei personaggi a fumetti preferiti, uno di quelli con cui per me è facilissimo identificarmi.
Cosa muove Bruce Banner, cosa lo sconvolge e lo trasforma? La rabbia, nato come rilettura dei fumetti di mostri, del mito di Frankenstein e del dottor Jekyll e del signor Hyde, Hulk parla del sentimento che gli adolescenti conoscono meglio, di quello con cui io ho più familiarità in assoluto, la rabbia. Che è al tempo stesso una maledizione ma anche un’infinità fonte di energia, l’unica davvero rinnovabile e per questo verde. D’altra parte si dice verde di rabbia no?
La rabbia può avere origine da traumi del passato (come nel ciclo di storie di Peter David), ma di fatto è una condizione endemica con cui devi imparare a convivere (come nel ciclo di storie di Mark Waid) per la sua versione del personaggio Ange Lee ha scelto un approccio serio, anzi, SERISSIMO, i momenti comici se ci sono, sono tutti involontari, eppure a questo film ho voluto bene da subito, non perché sia perfetto (non lo è affatto) ma perché quando si parla di rabbia io drizzo le antenne, figuriamoci se poi il METAFORONE utilizzato per farlo è uno dei miei personaggi a fumetti del cuore. Puntualmente io questo film finisco spesso per rivederlo, mi esalto per le parti azzeccate, mi colpisco il viso con potenza Hulk utilizzando il palmo aperto, esibendomi nel più classico dei FACCIAPALMO a ripetizione (infatti spesso arrivo al miglior pezzo dei Velvet Revolver sui titoli di coda con la faccia verde), eppure non posso che poter volere bene ad un film che anche solo per scelte di casting mi parla.
Nel ruolo della bella di turno spunta Jennifer Connelly, che non fa molto ma lo fa benissimo in quanto JConn, che nella carrellata di personaggi con cui mi pare di averla vista crescere al cinema, aggiunge anche Betty Ross, sorta di angelicata figlia del generale, donna dei sogni del protagonista affetto da rabbia congenita. In pratica il casting che avrei fatto io nella mia autobiografia immaginaria in verde.
Con una prova a cui manca solo la “Maniacal Laugh” (cit.) e l’allisciarsi i baffi come lo stereotipo di un cattivo, troviamo Josh Lucas, che curiosamente interpreta Glenn Talbot che nei fumetti, i baffi li avrebbe pure. Un attore che mi è sempre stato profondamente sul cazzo per anni, per motivi che povero, non sono nemmeno attribuibili a lui, aveva solo al colpa di somigliare vagamente ad una delle più clamorose testa di cazzo che io abbia avuto la sfortuna di dover frequentare nella mia vita (e nel 2003 sentivo la questione ben più calda), quindi vederlo maltrattare il verde protagonista mi faceva montare la rabbia da spettatore, mentre vederlo “spaccato” alla moda di Hulk, era qualcosa di altamente liberatorio. Ad onor di cronaca devo dire di aver fatto pace con Lucas proprio recentemente, guarda caso da quando si è fatto crescere i baffi, giusto per dimostrare che in questi ultimi vent’anni ho lavorato sulla mia condizione endemica. Lucas invece, solo sui suoi baffi.
A proposito di baffi, quelli di Thaddeus “Non chiamatelo Thuderbolt perché è un film serio” Ross troviamo quelli del mitico Sam Elliott, mentre per il ruolo di Bruce Banner, troviamo LO SBAGLIO. Eric Bana è stato scelto per la sua incredibile prova nell’ottimo “Chopper” (2000) dove non a caso interpretava uno affetto da rabbia congenita permanente, ma possiamo dirlo? Pare una statua greca, infatti tutti se lo ricordano per “Troy” (2004). Come fa uno così ad interpretare un topo di laboratorio come Bruce Banner non lo so, so solo che nelle varie interviste, di lui Jennifer Connelly diceva: fragile e tenerone, perfetto per uno che si porta dentro i suoi demoni (verdi) però ehi, anche sexy. Dimostrando di riuscire a recitare molto bene o di controllare molto poco gli ormoni, quindi un attore che è allo stesso tempo perfetto e sbagliatissimo per Banner, perché tanto Hulk lo interpreta Ang Lee, quindi torniamo sulla questione.
Ve lo immaginate lavorare su un set dove l’ironia e bandita, dove un tecnico tiene una capoccia di cartapesta di un Hulk infilata su una picca, più o meno a tre metri di altezza, per dare a JConn e al resto del cast, un punto dove guardare mentre recitano i dialoghi, il tutto mentre il regista ti chiede di essere serio, più serio, cazzo ho detto serio! Con addosso una tutina blu e i sensori MOCAP addosso? Complicato. Sicuramente per Ang Lee è stato estremamente liberatorio poter saltare, urlare e “spaccare” oggetti di cartone verde sul set, che grazie al chroma key diventano auto, carri armati e beh, barboncini ai raggi gamma, anche se tutto questo mi crea sentimenti contrastanti, come il film, se da una parte mi sembra tutto molto pretenzioso e anche parecchio ridicolo, dall’altra stima per Ang Lee, ve lo vedete George Lucas fare la stessa cosa sputacchiando «Supermaxibig la Forza!», cioè hai la tua idea regista? Sporcati le mani e portala avanti se ci credi per davvero, per un film che invece di giocarsi un incidente con fungo atomico, ci mette dentro un collega da salvare (senza chiamarlo mai Rick Jones), ma poi si gioca una trasformazione che a ben guardare, ricorda più quella del macchinario della serie con Bill Bixby, perché una bomba gamma sarebbe stata troppo fumettistica.
Ma è inevitabile che “pretenzioso” sia una parola che spunta fuori più spesso del mostro verde, basta dire che vediamo prima il cameo di Stan Lee e Lou Ferrigno rispetto all’entrata in scena del colosso di Giada realizzato grazie alla CGI. Ci vogliono 45 minuti per vedere Hulk e beccami gallina se nessuno lo chiama mai così, lo sentiamo pronunciare la sua celebre frase di due parole solo in una scena onirica dal retrogusto horror (lo specchio del bagno è un classico del genere) ma prima dobbiamo passare attraverso una storia di origini inutilmente complicata. Abbiamo un padre violento, che è anche uno scienziato pazzo che sperimenta un siero su suo figlio, poi abbiamo un trauma, un cambio di nome, il vecchio Brian David Banner che finisce a fare l’inserviente proprio nel laboratorio dove suo figlio (che non sa di esserlo) avrà l’incidente ai raggi gamma scatenante, insomma una serie di combinazioni di stampo fumettistico ok, ma figlie di tanti, troppi rimaneggiamenti di una sceneggiatura che nelle mani di Ang Lee deve avere anche tocchi da tragedia greca, punte da dramma shakespeariano e uno scontro padre/figlio di stampo volutamente teatrale, insomma ribadisco, pretenzioso, ma per nostra fortuna per ogni sbaglio grosso, “Hulk” manda a segno una scelta riuscita, come mettere sotto contratto Nick Nolte, che di fatto diventa il re senza corona del film.
Il primo atto del film è tutto suo e per quanto sia stato assurdo e a ben guardare inconcludente dargli dei poteri (nel finale in cosa si trasforma? Un banco di Nebbia? Bah) la scena in cui i suoi poteri si manifestano per me resta uno dei migliori utilizzi della CGI vista negli ultimi vent’anni, in un film dove non sempre gli effetti speciali danno il loro meglio. La mano appoggiata sul traverso di metallo grezzo ma dipinto, che ne “assorbe” le caratteristiche è un modo per giocarsela difficile, poteva essere una sbarra di metallo lucido, invece no, si è scelto una porzione di metallo granulare e dipinto color verde acqua, giusto per facilitare la vita al tecnico degli effetti speciali. “Hulk” è tutto così, una scelta giustissima (centellinare il Golia Verde, farlo comparire di notte come nelle sue prime storie a fumetti) alternata ad un’altra sbagliatissima, tipo vabbè, i barboncini. Parliamo dei barboncini.
Io capisco che ad un certo punto della storia sia necessario mandare contro Hulk qualcosa di grosso e vitaminizzato ai raggi Gamma, capisco anche che usare i cani del signor Banner Senior serva a farci capire che l’uomo ha portato avanti i suoi esperimenti anche in privato, ma il barboncino? Perché? Per mantenere l’idea di debole che diventa fortissimo dopo la cura Gamma? Ogni volta che mi rivedo il film (e lo faccio abbastanza spesso), esco proprio dalla storia, sarebbe come se mandassi all’attacco Nanà e Lamù contro una massa di muscoli alta tre metri. Anche se ora che ci penso, quelle due farebbero un culo così anche ad Hulk Rosso.
Il film di Ang Lee si gioca malissimo e benissimo ogni sua carta, anche l’elemento fumettistico. Da una parte può avvalersi dell’ottima colonna sonora di Danny Elfman, il vero padrino del fantastico in musica, ma anche su dei titoli di testa che sono più Raimi di Raimi (complimentone!), dall’altra Lee (non Stan) sembra voler tenersi alla lontana da tutto quello che potrebbe non far passare per serio il suo dramma psiconalitico-interiore, ed è un peccato, perché quando introduce qualcosa di fumettistico, come lo “Split screen” multiplo, riesce a farlo con grande eleganza, peccato che compaia così, a sbuffo. Quasi come un tassa da pagare per ricordare al pubblico: ehi amico, anche se siamo così incredibilmente seri, stai sempre guardando una roba tratta da un fumetto, quindi quando apparirà la versione sotto steroidi di Kermit, non farti cogliere impreparato ok?
Il film di Ang Lee è come il suo protagonista, vuole la serietà compassata di un Bruce Banner, ma vuole anche esagerare, spaccare ed essere fumettistico come Hulk, quindi è costretto a pagare lo scotto (non Pino) della lunga sequenza d’azione, in pieno deserto, in pieno giorno, che era l’unica richiesta di Avi Arad pur di avere qualcosa da mettere nel trailer. Chi legge il fumetto sa che il Golia Verde ha i muscoli per spaccare muri ma anche per saltare (allena tutto, non è uno di quelli; «Gambe le faccio domani») quindi vederlo fare lunghi balzi nel 2003 per il pubblico di non lettori (ovvero quasi tutti) poteva essere una novità. Per certi versi era il nuovo “Destino verde” di Lee dopo i ballerini spadaccini in odore di Wuxia del suo film precedente, ma la scena spaccatutto, dal deserto al primo strato spaziale appesi ad un F22 è uno scarto molto grosso, oltre che straordinari aggiuntivi per una CGI che mostra il fianco, infatti per assurdo la parte migliore, o almeno quella più nelle corde di Lee è quella in cui Hulk si gode la brezza del deserto, quell’accenno di piante (verdi) che spuntano dalla sabbia, non proprio in pace, ma almeno solo, come il Golia Verde sbraita sempre nei fumetti, purtroppo inascoltato.
Va detto, trovo più azzeccate queste parti di relativa e riflessiva calma, il che è assurdo visto che si tratta del film nominativo di uno il cui motto è «HULK SPACCA!», anche se va detto, quello che spacca più di tutti qui è quel mito di Nick Nolte. Lo scontro finale padre figlio lo trovo di un teatrale che lèvati, ma lèvati proprio, e mi dispiace per Eric Bananarama, ma quello che esprime la vera forza Gamma qui è Nick Nolte che quando esplode, va in un overacting che avrebbe fatto paura anche all’Hulk ultra muscoloso di Liam Sharp. Il re senza corona del film!
La prova di Nolte è talmente grossa che mi permette felicemente di ignorare il pastrocchio in CGI che segue e anche la proliferazione di finali, lasciandomi giusto il tempo per riprendermi per il finale (quello vero) che mi piace un sacco, quello a cui manca solo il The Lonely Man Theme del telefilm, perché in mezzo alla giungla, Banner è un personaggio che ha trovato un modo per convivere con la sua condizione endemica. Il film nella sua serietà congenita non ci concede nemmeno la frase simbolo di Bill Bixby (e del personaggio) o meglio si, ma in spagnolo, per sembrare più acculturati, ma il dettaglio che nessuno nota mai nel finale è il piccolo Geko in CGI sul cappello di Banner, che se è stato inserito, avrà una ragione no? Non si chiede ad una banda di tecnici di usare un altro po’ di CGI se non vuoi far arrivare qualche messaggio no? Per Ang Lee Hulk è una forza della natura, non a caso verde, che sarebbe una chiave di lettura interessante, se il copione non si portasse dentro nella pancia dieci anni di traumi e riscritture.
Alla sua uscita “Hulk” costato 120 milioni di fogli non a caso verdi, ne portò a casa 137 dello stesso conio (e colore), rimanendo fuori dai dieci miglior incassi del 2003 anche se Avi Arad ancora oggi, lo considera un successo perché i suoi bei soldoni li ha portati a casa, contento lui. In tutta risposta è partito un rilancio girato nel giro di cinque anni, prima che il personaggio diventasse altro, una volta integrato nel neonato universo MCU. A distanza di vent’anni continuo a trovare persone che odiano questo film perché come cantava Rick Jones “Nessuno ama Hulk” (questa la capiranno in tre), ma anche chi lo ama e lo considera sottovalutato, personalmente sono vent’anni che me lo rivedo e magari non come Ang Lee nella sua tutina, lo trovo quasi terapeutico nel suo essere barboncinicamente sbagliato. Di mio devo poter credere che alla fine, il dottor Banner ce la farà a domare la sua condizione endemica, a cavalcare come una grande onda quello tsunami verde che si porta dentro, perché la rabbia non è rossa, la rabbia è verde. Come Hulk.
Per il rosso invece, ci vediamo qui la settimana prossima, fatemi gli auguri perché ne avrà bisogno, anche se sono un uomo senza paura.
Sepolto in precedenza mercoledì 20 settembre 2023
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing