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I magnifici sette (1960): Sette, numero perfetto (Sì, ma io qui ho sei colpi)

Pam! Pam pa
pa! Para parara Pam! Pam pa pa! Paaaaa paaaaa pa pa pa pam!

No, sul serio,
questo commento è tutto così, vi canto il tema musicale per tutto il tempo, non
serve aggiungere altro, potete andare grazie di essere passati.
Paaaa paaaa,
pam pam pa paaaa! Para para pa pa paaaaaaaaaa!

Siete ancora
qui? Lo so che posso sempre contare su di voi! “I magnifici sette” un classico
così grosso che lo conoscono persino quelli che non lo hanno mai visto, persino
chi non guarda film western, forse lo conoscono anche quelli che non guardano
film e basta, anche solo per il tema musicale di Elmer Bernstein, capace da solo di far
entrare nel mito questo film.



Anche se il vero Classido è il film originale, questo è abbastanza mitico da meritarsi il banner rosso, anche se  ancora oggi, fin troppe persone ignorano che “I
Magnifici sette” è nato sull’onda dell’entusiasmo generale per il capolavoro di
Akira Kurosawa “I Sette Samurai” uscito solo sei anni prima di questo film, nel
1954. Uno dei primi casi in cui il cinema americano ha guardato ad Oriente in
cerca d’ispirazione, una lunga tradizione che passa da John Woo e arriva fino
a, che so, la versione Yankee di “The Ring”.


La trama ve la
devo anche raccontare? Non posso cantarvi il tema musicale in alternativa? No?
Ok, allora diciamo che c’è un villaggio messicano dove i contadini sono vessati
dalle scorrerie dei banditos guidati dal malvagio Calavera (Eli Wallach, giù il
cappello!), da questo villaggetto partono tre volontari, con il compito di
recarsi negli Stati Uniti alla ricerca di armi per difendersi, siccome siamo
nel 1880 e Donald Trump non ha ancora eretto alcun muro lungo il confine, i
tre s’imbattono nel pistolero nero vestito Chris Adams (Yul Brynner, altro
cappello che parte in segno di rispetto). La paga è scarsa e la possibilità di
lasciarci le penne molto alta, quindi Chris prima temporeggia poi per senso
dell’onore accetta, ma per affrontare la numerosa banda di Calavera ci vuole
qualche altro revolver, almeno sei, sette in totale, tutti magnifici, è adesso
che posso cantarvi il tema del film?
L’idea di
adattare ai gusti americani il capolavoro di Akira Kurosawa viene proprio al
grande Yul Brynner, il produttore allettato dall’idea gli propone anche la
regia del film, che però rifiuta avallando così John Sturges, grande esperienza come curatore
del montaggio e regista di “Sfida all’O.K. Corral” (1957) che proprio con questo film
farà il botto, infatti tre anni dopo e quasi con lo stesso cast dirigerà un
altro classico degli anni ’60, “La grande fuga” (1963), ma questa è un’altra
storia.



“Sei pronto a girare Yul?” , “Si, ma prima avrò bisogno di altri sei compari”.

Lo dico subito
senza girarci attorno: “I sette samurai” di Kurosawa è un film immenso, pieno di
dramma epico e personaggi tratteggiati magnificamente, una roba che è tanto
facile da ammirare sullo schermo quando difficile da commentare, se mai
riuscirò a farlo decentemente, mi ritirerò a vita privata per dedicarmi ad una
vita semplice di coltivazione di riso e meditazioni seduto sul crinale di una
montagna, o una roba Zen del genere.


“I magnifici
sette” non ha lo stesso spessore, non sarebbe possibile, ma è comunque una
bellissima celebrazione di quello che io considero il Rock ‘n Roll dei generi
cinematografici, ovvero il Western, un’adorabile meraviglia che solo gli
Americani potevano fare, un po’ perché nel 1960 non era ancora arrivato un Maestro a spiegar loro come fare i Western,
quindi il genere era ancora saldamente nelle loro mani e un po’ perché avevano
quello che rende magnifici questi sette: le Star!



Ladies and gentlemen, the starting lineups for western all-star team!

Fin da bambino
ho visto e rivisto “I magnifici sette” svariate volte, per mia grossa fortuna
ho un padre che mi ha sempre fatto vedere tutti i film giusti (grazie pà!),
quindi fin dalla mia prima bimbo-visione conoscevo già quasi tutti i
protagonisti, per via di altre pellicole uscite dopo il 1960, che avevo già visto,
può sembrare strano, ma ricordo abbastanza bene la prima volta che ho visto
il film, era tutto un tripudio di “Ma quello è il Brutto!”, “Ma lui è il
terrorista dell’IRA!”, “Ma quello è il Faraone!” insomma, come guardare una
partita All-Star, con il tema musicale di Elmer Bernstein, brutto?

La
sceneggiatura è stata prima scritta da Walter Newman, ma una volta assunto il
cast di stelle, era necessario spartire il giusto numero di battute a tutti,
inoltre, lo Stato del Messico, dove il film è stato girato, ha imposto pesanti
cambiamenti alla trama, tutti mal digeriti da Newman, che affiancato ad un secondo
sceneggiatore, William Roberts, si rifiutò di apparire nei crediti del film
come co-sceneggiatore, quindi licenziato per direttissima, grazie sig. Ruggero
Uomonuovo, quella laggiù è la porta, arrivederci.
Le modifiche
imposte dallo Stato del Messico riguardavano la rappresentazione dei contadini
nel film, il timore era quello che apparissero troppo deboli, motivo per cui, a
differenza dei contadini giapponesi di Kurosawa, i nostri partono alla ricerca
di armi per combattere, prima di convincersi che Chris Adams possa aiutarli
nella loro impresa, insomma puro orgoglio nazionale, viva el 

Mexico!!

“In realtà non abbiamo bisogno di lei senor, ma se viene, finiamo prima”.

Il film finito,
però, piacque anche ad Akira Kurosawa, che in segno di stima spedì al regista John
Sturges un’antica spada cerimoniale giapponese, più o meno come accade oggi, no?
Io stesso quando guardo le versioni americane di certi film orientali (o europei) avrei voglia di andare dal regista con una Katana. Da riporre nel
fodero solo una volta ricoperta di sangue.

“I magnifici
sette” inizia subito forte presentando il cattivo impegnato a fare cose da
cattivo, il grande Eli Wallach in questo senso è magnifico, ha la stessa aria
da orgoglioso straccione che aveva in “Il buono, il brutto e il cattivo”, solo
che qui viene promosso a cattivo assoluto, uno capace di fare prima
l’amichevole con i contadini, poi di girarsi male stizzito spiegando le sue
responsabilità quasi paterne nei confronti dei suoi affamati banditi e poi
sparire, ma non prima di essersi intascato tutti i sigari disponibili. A Wallach
bastano due minuti per mettere in chiaro il livello di minaccia, se vuoi dar
lustro ai tuoi protagonisti, il cattivo deve esserlo davvero, una lezione che
troppi film spesso dimenticano.



Eli, già brutto e cattivo, prima di diventare solo brutto, anzi IL brutto.

I sette
pistoleri assoldati dai contadini per difendersi riescono ad essere gli
impavidi raddrizzatori di torti di cui il film (e il villaggio) ha bisogno, ma
anche dei poveri diavoli con i loro bei casini, quindi Yul Brynner e Steve
McQueen fanno subito comunella per la scena della carrozza, in cui sfidano il
razzismo e le superstizione locali, portando la bara di un indiano morto al
vicino cimitero, in una scena capace di riassumere da sola l’etica e la
risolutezza dei personaggi.



“Nel dubbio spara, tanto siamo già sulla via del cimitero, uno più uno meno cambia poco.”

Allo stesso
tempo la figura leggendaria del pistolero viene ritratta sotto una luce diversa
dal solito, non solo solitario di poche parole, duro come un chiodo da bara, ma
una persona a cui la normalità è preclusa, proprio per il suo stile di vita, niente
famiglia amici o fissa dimora, il tutto mantenendo il
messaggio presente anche nel film originale di Kurosawa, la frase finale di Yul
Brynner parla chiaro («Ancora una volta hanno vinto i contadini. Noi abbiamo
perso. Noi perdiamo sempre»), celebrazione del mito, ma con un minimo di
retrogusto amaro, d’altra parte lo sapete voi come lo so io: fare la cosa
giusta ti rende nobile, ma raramente ti regala anche la gloria.

Parliamo un
attimo del cast del film, Yul Brynner calamita attenzioni e restituisce
indietro carisma come pochi attori al mondo hanno saputo fare, anche vestito di
nero da capo a pieni spicca, anzi, proprio qui e con quel look continua a
scolpire la sua leggenda, basta dire che anni dopo, tornerà nei panni del robot
pistolero assassino, con gli stessi identici vestiti in quella bomba de Il mondo dei robot (Westworld).



“Come direbbe mio nipote: I’ll be back”.

Il suo degno
compare è il solare giocatore d’azzardo Vin, quella faccia da schiaffi di Steve
McQueen, uno che ha sempre detto a tutti i registi che lo hanno diretto “Non
darmi una battuta da recitare, fammi un bel primo piano”, infatti consapevole
dei suoi limiti, recita con un linguaggio del corpo pazzesco e in questo film
è sempre in movimento, anche perché sullo schermo Chris e Vin vanno subito
d’accordo, ma sul set i due attori hanno duellato in puro stile Western.

Stando alle
testimonianze, tra le quali quelle dello stesso Eli Wallach nei contenuti speciali
del DVD del film, Yul Brynner era convinto che McQueen facesse di tutto per
spostare l’attenzione sul suo personaggio, una paranoia da divo? Mica tanto,
provate a guardare cosa fa McQueen ogni volta che Brynner è in primo piano
impegnato in un dialogo, cambia posizione sui piedi, gioca con le pallottole o
con gli oggetti di scena, lo fa in modo naturale, ma la cosa dava ai nervi a
Yul Brynner, insomma: ne aveva fin sopra ai capel… Ehm, no.
Lo scontro è
stato a tutto campo, anche quello dell’altezza, Yul Brynner (1 metro e 77 da
casello a casello), in ogni scena accanto al suo avversario, prima di ogni ciak
ammonticchiava terra sotto i piedi in modo da essere sicuro di mantenere il
vantaggio centimetrico su Steve McQueen (1 metro e 76), in tutta risposta
McQueen trovava sempre il modo di smontare la montagnola con gli stivali, una
roba del tipo: “Ooopps! Stavo per cadere!”.

“Hai di nuovo messo i piedi su quella dannata montagnola Yul?”.

Brynner che
era la star di punta del film, stoicamente mandava giù rospi, fino al giorno in
cui McQueen si mise a farsi ombra con il cappello in maniera vistosa, con il
solito intento di attirare l’attenzione, a quel punto Brynner partì di capoccia
dicendo: “Oh biondo! Se non la finisci con quel cappello, mi tolgo il mio, così
sarò sicuro che il pubblico guarderà solo la mia testa! (Storia vera), d’altra
parte Yul Brynner, mosso da orgoglio pelato è celebre per la massima: “Solo io
ho una testa perfetta, tutti gli altri hanno i capelli”.

I due hanno
impiegato anni per fare pace, pare che a fare il primo passo fu proprio
McQueen, ormai ammalato di cancro, alzò il telefono per ringraziare il rivale
di non averlo fatto cacciare dal film, malgrado il suo comportamento, risposta
di Brynner? “Io sono il re e tu il principe ribelle, altrettanto reale e
pericoloso da incrociare”, gentiluomini di altri tempi, hanno gettato via lo
stampo dopo averli fatti quei due.



“Siamo a due Cass, ne mancano cinque, di ‘sto passo facciamo notte”.

Sapete, invece,
chi non ha affatto litigato sul set? James Coburn e Robert Vaughn. I due attori
sono quelli con meno battute di tutti nel film, ma sono stati amici per cinquant’anni,
si sono conosciuti a scuola (ve la immaginate la maestra che fa l’appello?) e
fino alla morte di Coburn avvenuta nel 2002, i due si sono spalleggiati, procurandosi ruoli a vicenda nei vari set frequentati. Infatti, fu
proprio il grande Robert Vaughn, primo dei magnifici ad essere assunto, a
suggerire l’amico al regista John Sturges, che per la parte di Britt voleva uno
alla Gary Cooper. Come abbia fatto a convincere il regista che i dentoni di
Coburn facevano di lui la migliore alternativa a Cooper proprio non lo so, in
ogni caso, tutti felici, perché il personaggio di Britt, il silenzioso e
precisissimo lanciatore di coltelli, è l’equivalente americano del personaggio
samurai preferito di Coburn nel film di Kurosawa, tanto per dirla all’americana:
win-win situation.



Coburn non aveva nemmeno bisogno del coltello, tanto si allenava con Bruce Lee (storia vera).

Allora
Brynner, McQueen, Coburn e Vaughn, tengo il conto come fa McQueen nel film,
siamo a quattro, andiamo a sei, Brad Dexter e Horst Buchholz erano i due Europei famosi, nel 1960 bastavano loro a dare colore, non come oggi che bisogna
ingraziarsi il mercato cinese o far finta di essere politicamente correnti,
tanto che per interpretare il pistolero di origini messicane, bastava Buchholz,
che ha due compiti piuttosto ingrati: il primo, quello di essere il CCCCiovane
del gruppo, con tutta la sua giovanile esuberanza che lo rende non proprio
simpaticissimo nei primi minuti di film (ma nemmeno alla fine a dirla tutta),
ma soprattutto, il problemino non da poco di dover rappresentare l’equivalente americano di Kikuchiyo, che nel film originale era interpretato SOLO da Toshirō
Mifune, riesco solo a pensare al numero di bicchieri svuotati e sigarette
consumate da Horst Buchholz una volta ricevuta la notizia.

“Meglio affrontare il toro che i paragoni con Mifune”.

Il pistolero Chico
e il samurai Kikuchiyo hanno tratti comuni: entrambi hanno origini contadine e
sono mossi da un amore e odio per i propri conterranei, accusati di essere
incapaci di reagire o di rialzare la testa, entrambi si atteggiano e fanno i
grossi per nascondere il loro passato e le loro insicurezza, ma sono indomiti
durante la battaglia. Ecco, resta il fatto che Kikuchiyo oltre ad essere molto
più sfaccettato come personaggio, è anche interpretato da uno dei più grande
attori della storia, uno che personalmente adoro, la presenza e il modo fisico
con cui Toshirō Mifune sapeva trasmettere gioia esplosiva o dramma interiore rendono
la sua prova ne “I sette samurai” magnifica, l’altro, invece, beh… L’altro è
Chico. Ci sono momenti in cui la storia del cinema fa valere il suo peso
specifico.

L’ultimo
magnifico è lui, Charles Bronson nei panni di Bernardo O’Reilly, il suo compito
è quello d’impersonare la versione americana di Seiji Miyaguchi, tostissimo e
di poche parole, proprio come quel ciocco di legno di Bronson che, non a caso,
entra in scena spaccando legna. Bronson riesce a restare figo come la neve a
Natale anche se gli appioppano tre fastidiossimi bambinetti, che lui gestisce
alla grande con la solita faccia,
sarà per il fatto che per me lui era già Armonica di “C’era una volta il West”,
ma è sempre stato uno dei miei magnifici preferiti.



“State cercando il bosco? Era qui fino a dieci minuti fa”.

La cosa
curiosa è che quando John Sturges diresse la scena dello scontro
finale, dovette ingegnarsi, la sceneggiatura descriveva quali personaggi
dovevano morire, ma non l’ordine in cui le morti avvenivano, poiché la scena
non era ancora coreografata. Per non far torto a nessuno, Sturges decise di
seguire le date di assunzione degli attori, con buona pace di Robert Vaughn,
primo assunto.

In compenso, Robert
Vaughn è stato l’unico a fare una piccola parte, nella serie tv ispirata a
questo film, “I magnifici sette” andata in onda dal 1998 al 2000 e con un cast
di tutto rispetto che comprendeva Michael Biehn e Ron Perlman. Prezzemolino Vaughn si
è concesso una comparsata anche nel remake fantascientifico del film, prodotto
da Roger Corman, ovvero “I magnifici sette nello spazio” (1980), insomma, direi
che si è ampiamente rifatto.



“Non è detto che non venga giù anche per il remake di Antoine Fuqua”.

Se poi questo
film è così mitico, è anche grazie alla celeberrima colonna sonora composta da Elmer
Bernstein, talmente epica che ogni volta che parte nel film, è impossibile non
esaltarsi, nel secondo tempo le cose vanno un po’ meglio, ma nella prima parte
della pellicola, ci sono scene in cui i nostri partono a cavallo, il tema
musicale fa capolino e via… Gioia assoluta! Poi realizzi che cacchio, non
stanno facendo nulla, ma lo stanno facendo con una gran musica di sottofondo!

Per altro, tra
i membri dell’orchestra di Elmer Bernstein c’era
anche un giovane pianista di nome John Williams, non è un omonimo, è proprio QUEL John Williams che, in linea di
massima, ha imparato abbastanza bene come far emozionare il pubblico. In compenso, Elmer Bernstein è stato anche
il compositore della colonna sonora della migliore parodia de “I magnifici
sette” di tutti i tempi, ovvero “I tre amigos!” di John Landis (1986).




Alla sua
uscita “I magnifici sette” incassò il giusto, diventò un successo di critica e
pubblico in Europa, rifacendosi pienamente della spesa grazie al numero di
biglietti staccati, il suo peso nella cultura popolare è incalcolabile, tanto
che esistono tre seguiti ufficiali oltre alla serie tv e al remake spaziale, “Il
ritorno dei magnifici sette” (1966), “Le pistole dei magnifici sette” (1969) e “I
magnifici sette cavalcano ancora” (1972), le citazioni e gli omaggi non si
contano nemmeno dalla colonna sonora di “Rango” (2011) al quinto romanzo della
saga della Torre nera di romanzo di Stephen King “I lupi del Calla” dove la
cittadina sotto assedio si chiama Calla Bryn Sturgis, in omaggio al regista del
film John Sturges.

Insomma: “I
magnifici sette” resta un film mitico, un tipo di storia talmente universale da
potersi adattare a tempi e paesi differenti, forse perché i valori del
coraggio, della fratellanza e dell’amicizia virile sono universali. Continuo a
pensare che sia un film che dovrebbero vedere tutti, non per perdere tempo a
paragonarlo con l’originale (non puoi fare meglio di Akira, regola aurea),
quindi tanto vale godersi il mito, Brynner, McQueen, Bronson, Coburn, Vaughn, Dexter
e Buchholz. Sette. Tutti magnifici.



“Per te siamo i Signori magnifici, porta rispetto ragazzo”.

Ed ora
cascasse il mondo ve la canto tutta!

Pam! Pam! Pa
pa para! Parara para pam pam pa paaaaa! Paaaaaaara para pam pam paaaara!
BANG!
I contadini esultano per la morte dello stonato
Cassidy.
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