Sapete cosa mi manca della vecchia incarnazione della Bara Volante 1.0? Niente. In particolar modo non mi manda il vigliacco notturno, sistematicamente nascosto nell’anonimato (lo scudo preferito dai topastri di fogna), pronto a vomitare il suo odio sotto i post di ogni regista di colore, meglio perderla che trovarla certa feccia e “I Peccatori”, ha tutto per far impazzire questi soggetti dalla mente ristretta, anche per questo l’ho molto apprezzato. Il fatto che si un gran film aiuta parecchio.
“Sinners” ha uno strambo andamento, quasi come la musica del juke joint che si trova al centro della storia, uno di quei locali ricavati da fienili o costruzioni più che precarie, in cui i lavoratori di colori si ritrovavano, il più delle volte segretamente per festeggiare, portare avanti la loro cultura e la loro musica, bevendo Moonshine e ballando come non ci fosse un domani, cosa che spesso, per molti di loro, non era previsto.
Quando ho capito che Ryan Coogler aveva scritto, prodotto e diretto questa sua nuova fatica in uscita, il primo riferimento a cui ho pensato è stata la scena dell’incendio al Point Black scritto da Stephen King sulle pagine di “IT”, quindi vibrazioni – passatemi il termine semi giovanilistico – da storia dell’orrore, in un racconto che parte dal folklore e soprattutto dalla musica, con il sodale Michael B. Jordan impegnato in un doppio ruolo.
Per certi versi Coogler torna un po’ alle origini del suo bellissimo e mai abbastanza citato “Fruitvale Station” (2013) raccogliendo un po’ del credito accumulato presso le grandi case di produzione lavorando su roba su commissione o giù di lì, per quanto sfarzosa e in linea con le sue tematiche, il risultato per certi versi sembra la versione giusta (o più giusta, fate voi) di Lovecraft Country, anche se in generale i nomi da spendere sembrano più i fratelli Coen e Robert Rodriguez, strambo lo so, ma come direbbe Anders Celsius, andiamo per gradi.
Questa storia su forze dell’oscurità e della musica, che fa da grande catalizzatore (anche sessuale) sarà anche ambientata nell’America degli anni ’30 ma è molto in linea con il mondo occidentale del 2025, quel senso di paura non ben definita, dovuta forse anche a rigurgiti di odio sempre meno celati, come i vigliacchi anonimi che si nascondono nelle tenebre, perché troppo bianchi. Anzi no, troppo ignoranti, diciamo le cose come stanno.
Ryan Coogler punta in alto, il risultato è visivamente molto cinematografico grazie a tutti quei cambi di formato e se la fotografia di Autumn Durald Arkapaw ha dei grossi meriti, il resto lo dobbiamo all’uso dell’IMAX 65mm alternato alla Ultra Panavision 70, che aiuta a portarci tutti nella segregata Clarksdale, Mississippi, luogo di origine dei due fratelli protagonisti Smoke e Stack (Michael B. Jordan nel doppio ruolo) che carichi di denaro guadagnato al soldo di Al Capone a Chicago, tornano a casa per aprire in una vecchia segheria il Juke joint di cui sopra, trovando una situazione leggermente ostile, visto che i bianchi locali, legati al KKK (il loro «Il Klan non esiste più» è l’equivalente del moderno «Non sono razzista ma») non vedranno la faccenda di buon occhio.
I gemelli tengono a loro modo banco nel film di Coogler, tanto che il prologo, come sapete sempre fondamentale per un Horror, si gioca altri due fratelli Fore e Shadow, che anche grazie al figlio dello sfigurato predicatore, ovvero Sammie (Miles Caton) che con il suo manico di chitarra spezzato è una storia nella storia, che non può non far pensare al mito di Robert Johnson, che vendette l’anima al diavolo ad un crocicchio per diventare il più grande chitarrista Blues di sempre. Ed anche oggi, ho trovato il modo di utilizzare la parola crocicchio in modo sensato, quindi posso dirmi soddisfatto.
“Sinners” è un film volutamente pieno di personaggi, dalla durata vistosa un po’ perché ha abbastanza da dire, un po’ perché la moda del 2025 lo richiede, quindi i suoi 137 minuti si avvertono, ma solo perché in certi passaggi procedono meno ritmati degli altri, c’è una certa verbosità di fondo e forse, il folle “Sabba” alla luce di un falò, in cui si mescola step-dance, bluesman, musica folk e moderni DJ, risulta un po’ meno psichedelica di quello che sulla carta avrebbe dovuto essere, ma sostanzialmente ritengo tutti questi problemucci minori, in un film che si gioca parecchie facce giuste.
Una menzione speciale se la merita tutta la prova anche vocale di Delroy Lindo, il veterano nei panni di un leggendario armonicista di nome Delta Slim buca lo schermo e si sposa alla perfezione con la notevole colonna sonora firmata da quel genietto frichettone di Ludwig Göransson, che sarà anche molto bianco per questa roba ma una puntarella di “Blues Man” (bianco fuori e nero dentro) deve averla anche lui, provate a spararvi la colonna sonora di questo film in cuffia, ottima per suggerire grandi immagini che Coogler gli ha già appiccicato sopra molto bene in formato panoramico, oltre ad avere degli echi degli altri lavori di Göransson. Segni di continuità.
Non potrebbe esserci una storia carica di sesso-a-pile senza i personaggi femminili, l’ex fiamma di Stack, ovvero Mary è impersonata da una Hailee Steinfeld (ancora, echi coeniani, più avanti ci torneremo) credibilissima nei panni di una mulatta quasi bianca, che nella sua pelle si porta anni di soprusi alla sua gente e che riesce a tirare fuori un ruolo da femme fatale tutto suo, molto credibile, anche nelle svolte.
L’altro personaggio femminile che mette sul tavolo parecchi argomenti cari al regista e caldi per il suo film è Annie (Wunmi Mosaku), la donna con cui Smoke ha avuto un figlio purtroppo deceduto anni prima, la cui sottotrama aiuta a dare spessore alle parole «Ho sentito dire che al Nord non c’è Jim Crow», satiricihe visto che è chiaro che Smoke e Stack non sono liberi o ben visti nella segregata Clarksdale, esattamente come non lo erano nella “civilizzata” Chicago dei Gangster, piantagioni i giungle di cemento, per i neri in america cambia poco negli anni ’30 come oggi.
Dai fratelli Coen, il regista sembra prendere lo spirito critico e satirico, creando una situazione ben calcata all’interno di un genere cinematografico, per utilizzarla a suo piacimento per raccontarci una storia che utilozza il Sud segregato e quelli con i canini per parlare (anche) dell’America di oggi, mettendo sul tavolo il modo in cui storicamente i bianchi abbiano provato a prendersi la cultura nera, partendo proprio dalla musica, questa attività vampiresca è ben rappresentata dalla grossa svolta del film («Ai bianchi il blues piace. Solo che non gli piacciono quelli che lo suonano»), il bianco inizialmente amicone Remmick (Jack O’Connell) che si presenta al juke joint con l’aria di chi vuole essere amico di tutti, come cantavano gli Elii.
Quando penso ad un film che ha nella svolta e nel passaggio da un genere all’altro la sua forza, il primo titolo per me è sempre Predator, un suo degno figlio, che ha fatto la stessa identica cosa prendendo proprio chiara e dichiarata ispirazione da McTiernan era “Dal tramonto all’alba”, quindi il trionfo di Mitra Thompson che ritroviamo qui strizza un po’ l’occhio al film di Robert Rodriguez e anche se manca la Satanico Pandemonio di Salma Hayek, la carica sessuale nel film è ben presente lo stesso. Per fortuna!
Insomma, Ryan Coogler questa volta ha fatto fare al suo cinema un altro gradino verso l’alto dimostrando di saper armonizzare, non solo con la musica ma anche con i generi, il problema come al solito è quello di un film che parla ai convertiti, per quanto l’elemento Horror sia usato in maniera metaforica anche bene o per le mano, in un modo fino ad ora utilizzato poco, per il resto come sempre, ci vediamo nei commenti, nottetempo, come i vampirla rosiconi invidiosi del blues che a loro manca.
Un film che suona come un musical senza esserlo, che fa politica bene, in un momento in cui i politici non esistono più, che sa utilizzare benissimo l’elemento di genere e per questo, sarà un flop, perché in sala eravamo anche meno del solito ed io che vado spesso, non incontro mai troppa umanità in sala, un film che ho trovato semplicemente troppo bello, quindi farà un buco nell’acqua, perché non genera meme, viviamo in un mondo che è già stato vampirizzato, nel modo peggiore, quello che intende Coogler.
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