Ogni 13 marzo per gli appassionati di Horror e cinema di genere non è mai un giorno come gli altri, per ricordare a chiunque che FULCI VIVE quest’anno ho scelto un suo film che spegne le sue prime cinquanta candeline.
Prima che i francesi lo etichettassero come il “Terrorista dei generi”, Lucio Fulci faceva parte della categoria di registi della nostra industria cinematografica, che passavano agevolmente da film in costume – di solito Peplum, i sandaloni – Western, polizieschi, commedia con i comici in voga in quel momento o musicarelli, la stessa formazione attraverso cui è passato anche Lucio Fulci, prima di scoprirsi particolarmente portato per il cinema Horror.
Spulciando la lunghissima filmografia di Fulci balza agli occhi il fatto che il film di oggi, fosse il suo secondo Western in carriera, arrivato dopo “Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro” (1966) con Franco Nero come protagonista, ruvido, ma mai quanto il titolo di oggi.
“I quattro dell’apocalisse” venne scritto da Ennio De Concini prendendo ispirazione da alcuni racconti di Francis Brett Harte, eppure il copione finale è stato oggetto di dissidi tra De Concini e il regista, infatti Fulci finì – non accreditato – per riscriverne una grossa porzione, difficile capire quindi la paternità delle singole trovate, ma è chiaro che questo Western sia fulciano fino al midollo, anzi a ben guardare si tratta di uno Spaghetti-Western arrivato fuori tempo massimo, quando ormai il popolare genere era lontano dai suoi tempi migliori e quando il Western, era già passato attraverso una fase ben più crepuscolare.
Questo trucidissimo Western inizia con l’arrivo nella cittadina di Salt Flat del baro professionista Stubby, impersonato dal preferito della mamma di un mio amico, che chiamò il primo genito Fabio in onore di Testi (storia vera), anche se qui è molto strano sentirlo parlare con la “voce”, ovviamente italiana, di Clint Eastwood.
Privato del suo principale strumento di lavoro (le carte) e della libertà, Stubby fa presto la conoscenza degli altri tre “cavalieri” dell’altisonante titolo: la prostituta incinta Emanuelle ‘Bunny’ O’Neill (la bellissima Lynne Frederick), il becchino di colore, leggermente toccato in testa visto che è convinto di parlare con i morti, di nome Bud (Harry Baird) e l’alcolizzato Clem (Michael J. Pollard), solo un po’ di soldi nascosti nello stivale di Stubby li permetteranno di sopravvivere a quello che sta per accadere a Salt Flat.
Nottetempo, armati di fucili e mascherati sotto cappucci bianchi, una banda di assassini, spalleggiati dallo sceriffo della cittadina (Donald O’Brien) inizierà ad ammazzare tutti gli indesiderati, l’unica soluzione per questa banda di gatti senza collare è incamminarsi lontano da Salt Flat, una convivenza impossibile tra un fighetto, in odore di Dandy (e di colonia costosa) e tre zozzoni, a sua detta, con cui ha più da spartire di quello che potrebbe e forse vorrebbe immaginare. Regola numero uno degli Horror: fai che il tuo pubblico patteggi per i protagonisti, altrimenti quello che succederà loro dopo sarà acqua fresca, questo è un Western, ma la regola vale allo stesso modo.
Tutto il primo atto di “I quattro dell’apocalisse” permette a Fulci di descrivere un West selvaggio e rozzo, dove vale la legge della giungla a tutti i livelli, anche nella cittadina di Salt Flat, che in teoria dovrebbe rappresentare la civiltà. Un minimo di pace i nostri la trovano tra le fila dei pellegrini svedesi della Chiesa felice del Cristo vivente, dove i nostri troveranno per un po’ riparo assecondandoli, questo permette a Stubby e Bunny di spacciarsi per marito e moglie, i due hanno così tanta chimica che la gelosia ha tracimato oltre i confini della finzione.
Non sono un appassionato di pettegolezzi, ma questa storiella è divertente da riportare: ai tempi Fabio Testi faceva coppia nella vita con Ursula Andress, che periodicamente faceva irruzione sul set per assicurarsi che il nostro non ronzasse troppo vicino a Lynne Frederick, attrice con cui comunque, l’attore italiano, restò in contatto anche nel periodo della sua carriera in cui Lynne Frederick venne considerata una “intoccabile” di Hollywood, per via della storia dell’eredità del suo allora anziano e celebre compagno, Peter Sellers, ma ribadisco, parliamo di cinema.
“I quattro dell’apocalisse” ha fatto parlare anche per i numerosi tagli, imposti a Lucio Fulci per passare il visto censura, una delle scene rimaste sul pavimento della sala di montaggio si dice fosse una torrida scena di sesso tra Stubby e Bunny, ma è inutile girarci attorno, quando questo lurido Western (nel senso migliore del termine) inizia per davvero è con l’arrivo di Chaco.
Ufficialmente solo un bravo cacciatore, che è stato derubato di tutto sì, ma non si sa come mai, non di tutta l’artiglieria che si porta dietro come nota subito Stubby, ad impersonarlo è un mito come Tomas Milian, che per la seconda volta in carriera dopo Tepepa, si doppia da solo nella versione in italiano del film.
Nella lunga lista di personaggi resi mitici da Tomas Milian, Chaco resta uno dei più memorabili in più di un senso, prima di tutto l’aspetto, una sorta di versione Western di Keith Richards, anche se nel corso degli anni sono fioccate speculazioni per cui Johnny Depp, per il suo Keith Richards in versione pirata, ovvero il capitano Jack Sparrow, potrebbe aver pescato (anche) da qui. Lascio valutare a voi, mi sta più a cuore l’ispirazione dichiarata dal grande attore di origini cubane, ovvero quella di Charles Manson, ad una manciata d’anni di distanza dal massacro di Cielo Drive, quindi ancora caldo nella memoria del pubblico.
Chaco è un sadico, violento, in odore di cannibalismo che incarna la legge della giungla e si intrattiene con il Peyote (non Willie, almeno quello!), la scena simbolo del film è il modo in cui Chaco prima si eleva a salvatore del gruppo, poi così, senza motivo apparente, tortura uno degli aggressori con belluina violenza, dettagli che solo il visto censura ha un minimo ammorbidito, perché Fulci in questo suo Western più selvaggio che mai, non ha certo tirato via la mano.
Con la stessa brutale forza, ci colpisce con un taglio di montaggio che introduce tutta la faccenda del Peyote, il mezzo attraverso il quale Chaco si prende la testa del gruppo, lui sì veramente un personaggio apocalittico, che prima umilia Clem facendolo abbaiare come un cane in cambio di alcool e poi violenta Bunny, perché questo è il West di Lucio Fulci, non risparmia niente e nessuno.
Come li abbiamo conosciuti e un po’ ci siamo affezionati a questa banda di gatti senza collare, perdiamo tutti i componenti del gruppo, uno dopo l’altro, in maniera sempre più dolorosa, come il modo in cui la testa di Bud si perde scivolando oltre il limite dove era ancora recuperabile.
In un mondo così brutale, anche un uomo di religione come il reverendo Sullivan (Adolfo Lastretti) rappresenta quanto possa essere traballante anche la Fede, non serve nemmeno la lunga scena di parto, stemperata un po’ dalle scommesse della comunità di minatori sul potenziale padre, ad alleggerire un Western che scivola verso l’inevitabile vendetta, un duello che però Fulci caratterizza come il meno aderente all’iconografia del genere, forse di sempre.
Lo scontro finale tra Stubby e Chaco è grezzo, violento e lurido come tutto il film, persino le pistole, tipiche dei Western, perdono la loro centralità, il tutto si consuma a colpi di schiuma da barba e rasoiate, non è un caso se poi il regista romano sia diventato un Maestro del cinema Horror, già qui era riuscito a ricordare che Horror e Western possono avere moltissimo in comune.
Ci tenevo a portare avanti la tradizione di ricordare in ogni modo che FULCI VIVE, anche con questo atipico e violentissimo Western, il compleanno era una doppia occasione di celebrazione imperdibile, anche solo per portare un Baro come Stubby qui sulla Bara.
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